CLAUDIO SOTTOCORNOLA
Quando mi reco al Camposanto per visitare la mamma e il papà, pregare sulla loro tomba, ma anche ritrovare il nonno, gli zii, un lontano amico di famiglia, incontro spesso conoscenti, persone del quartiere, famiglie o amici di infanzia, che magari non vedevo da tempo, che non avrei più incontrato se non visitassi i miei cari al Camposanto, dove peraltro rivedo sempre più di frequente sulle lapidi appena incise i volti e i nomi di coloro che, nel quartiere, hanno rappresentato per me la generazione che mi ha preceduto, e che gradualmente si accomiata da qui.
Ho letto da qualche parte che ogni spirito si manifesta in modi diversi, con ispirazioni e spinte, mozioni e sentimenti del cuore che lo contraddistinguono, testimoniando, anche oltre la morte, il permanere di una personalità e di una determinatezza, direi di una vera e propria affettività e relazionalità, che non può che essere “la sua”. Principio, constatazione, o comunque speranza davvero consolante, quella di sapere che “’a livella” non annulla la nostra fisionomia, né quella di coloro che amiamo e speriamo ritrovare un giorno “con le loro facce”.
Così, nella mia esperienza di incontri più o meno casuali, di gente, più o meno casuale, al Camposanto, io avverto un aiuto, una mozione che la mamma, mancata da pochi anni anche per alcune gravi omissioni umane, mi ispira, e di cui desidera io tenga sempre conto, ed è di aver cura del mio “prossimo”, di coloro che, all’apparenza, più o meno accidentalmente, mi stanno intorno, che incrocio per la strada o il quartiere, che magari non saluterei o mi annoiano, e che qui mi si fanno incontro, e io stesso sono in grado di riconoscere come “familiari”, come “vicini”, come “prossimi” appunto. Questa manifestazione induce poi in me un senso di serenità, un gioioso raccoglimento, un più maturo possesso dei miei sentimenti e un maggior realismo di aspirazioni e aspettative.
Avverto, con gioia, la leggerezza della “Croce”. Che mi appare così, per me e per i più, come un letto di Procuste. Non grandi sofferenze, ma quel senso di inadeguatezza del reale: troppo, troppo poco, troppo tanto, meno, di più, non abbastanza, ancora, mai più, altrove, e comunque non qui, e non con costoro, né con questi altri. E invece no: la vita – e cioè la Croce – è qui, ed ora, e con costoro. Magari un distratto conoscente, un passante qualunque e talvolta anche scortese, o più facilmente un volto che si attende di essere riconosciuto.
Questo mi suggeriscono le mie visite al Cimitero. E sono all’origine di un costante, profondo, vitale senso di rinascita, e di speranza, che le accompagna.
L’Amore è forse proprio questo. Chi si è innamorato, chi si è sentito in qualche momento della sua vita attraversato da una energia ed un entusiasmo originari, oserei dire quasi primordiali, e comunque con un respiro universale – nello spazio, nel tempo, nella condizione – avverte quanto spesso, quanto troppo il quotidiano sembri allontanarsi da quella intuizione originaria, da quella speranza quasi travolgente, da quell’attesa ideale e purissima. Ed è probabilmente bene che ciò accada, che si sia quasi irrimediabilmente segnati da questa bruciante assenza, ma la qualità morale della nostra vita dipenderà anche da quanto sappiamo trasformare questa nostalgia dell’essere in impegno quotidiano ad attuarne le promesse.
Perché la Croce (il grande simbolo della fede cristiana) non è prima di tutto resa, ma “salita al Monte Calvario”, è la vita con tutto il suo sudore, la sua tecnica, la sua ripetizione, le sue competenze, la sua determinazione, i suoi tentativi, i suoi fallimenti, il suo essere “così maldestra”, la sua ostinata, cieca, testarda, patologica fedeltà. E non c’è altro a contrassegnarla, nel suo essere autentica, cioè attraversata dall’Amore che ne è la condizione stessa, se non questo “fare la volontà del Padre”, che è poi un destino, il nostro, abbracciato e, finalmente, ontologicamente rivelato, trasfigurato nella sua Gloria, che qui è anche sudore, lacrime e sangue.
Ecco perché tradiamo così spesso l’Amore in nome dell’Amore. Non lo vogliamo parziale, non limitato, non così limitato dai sensi o dai sentimenti, non così banale, non così scontato, non così difficile, non così “normale”, o quotidiano e ripetitivo. Lo vogliamo Altro, Altrove, Integro, Assoluto, abbandoniamo gli uomini e le cose, il nostro tempo e il nostro spazio. La casa resta vuota. Andiamo in cerca di idoli. E troviamo altri uomini, che ci tradiscono, e ci sentiamo traditi. E non abbiamo più pace. Né voglia di tornare a casa. E più invochiamo l’Amore, o la Vita, o la Libertà, più affondiamo nell’Odio, nella Morte, nella Schiavitù. È l’itinerario di molta contemporaneità, certo sigillo dell’Assenza e della Ricerca, che va rispettata e amata, direi di più, venerata nella sua sindonica immagine di sofferenza e implorazione (“in manus tuas commendo spiritum meum…”).
Eppure basterebbe, in qualunque condizione, poco per fare pace col rovente desiderio di vita che talvolta ci devasta, e poco per trasformarlo in calore che ci riscaldi: basterebbe incominciare a scegliere una piccola “croce”, un qualunque “qui ed ora”, un qualunque “nonostante”, e sarebbe questo l’atto di conversione più autentico, ciò che ci riconcilia con il nostro essere questo spazio-tempo, questi “prossimi”, questo lembo di mondo, e infine, questa volta sì, ci consente la resa alla nostra finitudine, alla nostra creaturalità, al Dio che ci precede e al Sabato che ci genera.
È sorprendente come molte, se non tutte, fra le più acute sofferenze dell’umanità nella sua lunga esistenza siano dovute a questa spasmodica ricerca di una felicità totalizzante, spesso identificata con la potenza, con il successo, con il piacere, che diventano idoli, mostruosi feticci cui tutto si immola, anche il proprio destino. E come, a evitare ciò, servirebbe relativizzare i beni del mondo, i nostri sentimenti, il nostro ego, la nostra sicurezza, assumere e indurre sentimenti di misura e moderazione. So che questa osservazione sembrerà a taluni una moralistica e riduttiva rilettura, per esempio, delle più grandi esigenze evangeliche, ma non è così. È proprio talvolta attraverso la mortificazione di un sentimento, per esempio di ira o di orgoglio, il ridimensionamento di una smodata ambizione o di un dispendioso progetto, la fatica e la noia di relazioni magari grigie e un po’ anonime, e prive di eccezionali sorprese, che possiamo generare ordine e armonia in noi e attorno a noi e raggiungere il più alto grado di universalità che ci è possibile, in antitesi alla chiusura di chi è concentrato solo, per dirla con San Paolo, sulla propria pancia (o ego). E la Croce è il grande simbolo che la nostra Storia, quella della attuale civiltà occidentale, ha espresso per definire la condizione della vita che aspira a realizzare tale universalità.
Vorrei quindi chiudere queste mie riflessioni sul Cristianesimo che, come dico altrove, “non mi ha reso felice, ma neppure imbecille”, sostenendo un po’ provocatoriamente il valore e la qualità di un “amore a metà”, quello comune che magari ci appare terribilmente segnato dalle sue carenze, dalla sua grigia quotidianità, dalle sue tremende finitudini. Ma che ancora genera figli, sogni, mondi, capacità di desiderare e progettare la vita.
E quella eterna è ciò che più conta.
(da Claudio Sottocornola, My status quaestionis 2010, in Il pane e i pesci, CLD-Velar 2010)