STEFANO CASARINO
Dopo Resistenza svelata (2018) e Il ritorno di Pricò (2021), Daniele La Corte ha appena pubblicato – e viene subito a presentarlo a Mondovì, mantenendo una bella tradizione – Il boia e la contessa (Fusta Ed., novembre 2022).
Daniele è un autore importante, perché incarna perfettamente quanto lui stesso scrive, è una persona caparbiamente decisa a evitare l’oblio per episodi e personaggi che, in qualche modo, hanno fatto la storia del Novecento. Ricordare per non dimenticare attraverso percorsi storici su cui si basano realtà che, pur appartenenti al passato, non si allontanano troppo dal presente. È proprio questo che va evidenziato, apprezzato e, magari, fatto proprio: c’è oggi in atto una preoccupante rimozione di un passato neppure troppo remoto, e forse già ora si intravvedono le gravi conseguenze che ciò può determinare.
Quest’opera, come le precedenti, è frutto dell’abile interazione tra fantasia e realtà, ma è, rivendica l’Autore, basata esclusivamente su fatti realmente accaduti. Una rievocazione storica, dunque, precisa e con raccordi inaspettati anche con epoche più vicine alla nostra, ad esempi gli anni di piombo, come scoprirà chi leggerà tutto ciò che viene offerto al lettore, anche la puntuale Analisi storico-giuridica del Procuratore Generale Emerito presso la Corte di Cassazione Pierpaolo Rivello e l’importante Appendice Storica corredata da preziose foto.
Va subito detto che è un libro che si legge bene e con piacere, grazie alla capacità di sintesi del provetto cronista, che tralascia il troppo e il vano e si concentra sui fatti salienti: a differenza, a parer mio, di tante opere moderne, che sembrano privilegiare la quantità a scapito della qualità e finiscono per essere tomoni illeggibili.
L’ambientazione è nell’ Alassio così cara a Daniele, ma si irradia ad Albenga, a Savona, ad altre zone liguri e del Basso Piemonte, sino a Torino: la macroregione ligure-piemontese, che ha avuto certamente una storia comune durante la Resistenza e il secondo conflitto mondiale. E Mondovì è più volte menzionata, con la bella figura di Giuseppe Fulcheri, giovane insegnante di matematica del Baruffi, il prestigioso Istituto tecnico per ragionieri e geometri e con gli ambienti della Mondovì colta e antifascista.
Il periodo è quello, particolarmente tragico, del dopo armistizio, dopo quel tremendo 8 settembre 1943 che di fatto spaccò l’Italia in due e consegnò la parte centro-settentrionale alla feroce occupazione nazista.
In questa cornice spazio-temporale si muove la vera protagonista, Silvia Ceirano, contessa di Villafranca Soissons: è lei, che a parer mio, incarna perfettamente quella politica dello struzzo con cui ho voluto intitolare questo mio contributo.
Il lettore si trova di fronte ad una donna dal carattere forte e del tutto particolare: amante, anzi dipendente, dal lusso e dalla bella vita; disposta a compiacere senza alcuno scrupolo amanti diversi (il marito più anziano di lei, pur di avere il tanto agognato titolo nobiliare; l’ufficiale tedesco, per non avere alcun problema in quel tempo gramo; il generale, più alto in grado del precedente, a cui estorcere con malía tutta femminile particolari favori…) ma, soprattutto, disposta, anzi risoluta ad ignorare la realtà.
Silvia si costruisce un suo bozzolo dorato, una sorta di aristocratica oasi, dalla quale sono bandite le cattive maniere e tutto ciò che è spiacevole, come la guerra.
La guerra – leggiamo – aveva stropicciato il mondo e ogni certezza era crollata; ma lei non modifica la sua personale scala di valori, per lei tutto era all’insegna del superfluo, della vita gaudente vissuta con disinvoltura, infischiandosene di quanto accadeva intorno a lei. […] Non c’era nessuna guerra, nella sua vita.
La politica dello struzzo, appunto.
Però, e meno male, questa è solo la situazione di partenza: questi convincimenti progressivamente si modificheranno e sarà la cruda evidenza di ciò che accade ad Alassio e ad Albenga, a poca distanza dalla magnifica dimora della contessa, a modificarli.
Lo “struzzo” sarà costretto a tirar su la testa, a prendere atto di chi sono le persone che ospita e con le quali convive:
«Ma che gente è questa?» si interrogò. Minuto dopo minuto, si rese conto che viveva fuori dal mondo, che aveva finto di non vedere e di non sentire. Ciò che accadeva fuori del suo regno dorato era nebbia, o era tabù, era un universo parallelo e inutile. Eppure sapeva che molti ebrei erano stati deportati in Germania, che Torino era diventata una polveriera, che il suo adorato Re aveva cambiato idea e si era eclissato facendo perdere le sue tracce insieme al suo codazzo di amici fidati. E sapeva dell’Armistizio, di Mussolini sempre schierato con i tedeschi, con quegli stessi che lei teneva in casa e che dividevano la bella villa al mare. Sapeva, perché non era sorda, ma aveva sempre evitato che le orecchie informassero il cervello.
A poco a poco si frantuma il processo di estraniazione dalla realtà, le orecchie riprendono a sentire e gli occhi a vedere. E soprattutto il cuore a battere e il cervello a funzionare. L’indifferenza, l’apatia hanno avuto, hanno sempre, un effetto narcotizzante. Silvia si risveglia da un criminale torpore, avviene in lei una sorta di scioccante processo di formazione: ed è questo che, alla fine, la riabilita in parte per il lettore, che solo alla fine può superare l’antipatia nei suoi confronti.
Personalità complessa, si diceva, e con un destino del tutto particolare, che spicca per contrasto in relazione a quello del fratello e della sorella. Ma il boia? Chi è il boia del titolo? Leggendo il testo è certamente una presenza più sfumata. Storicamente, la sua identificazione è certa: trattasi di Luciano Luberti, che si meritò proprio tale definizione per i suoi crimini (era responsabile di oltre duecento omicidi, p. 219) e che poi farà ancora parlare di sé negli anni Sessanta-Settanta.
Ma giustamente La Corte osserva che egli condivideva tale appellativo con Gerhard Dosse, cioè con l’amante della contessa. Quindi, più persone nel libro corrispondono a tale termine.
Che può valere anche per l’apparente affabile generale Helmut Lieb, per il maresciallo Friedrich Strupp, per il tenente Friedrich Kochwasser. Boia, poi, in senso lato e non mi pare una forzatura, fu tutta quanta l’occupazione nazista, la guerra, quel periodo tremendo e, auguriamoci davvero, mai più ripetibile.
Furono sempre e comunque puniti quei tanti boia?
Basta leggere il libro fino in fondo, basta ripensare anche a Il ritorno di Pricò e conoscere un po’ di storia per rispondere in modo negativo e sconsolato a tale domanda.
E anche di questo si dovrebbe, si deve fare memoria.
Nel libro il boia e la contessa sono i due fulcri attorno ai quali ruotano molti altri personaggi: attorno a Silvia, gravitano le due cameriere – Rosetta e Franca, che condividono entrambe una sorte simile, due ragazze madri, ma la prima con un vissuto più scabroso della seconda – e il giardiniere: le due donne di servizio le sono molto riconoscenti; il giardiniere supererà progressivamente la propria diffidenza nei suoi confronti; quanto alla contessa: lei amava i suoi dipendenti e con loro era generosa. Poi vi sono, ovviamente, ed hanno particolare importanza, i suoi familiari, ben diversi da lei, quanto a simpatie e a posizioni politiche. Il capitano tedesco, Gerhard Dosse, invece, è attorniato da sottoposti che compongono la Feldgendarmerie di Albenga, per i quali la ferocia era ogni giorno di più una fonte di orgoglio: ad Albenga c’è una vera casa delle torture. Arrestano, picchiano e uccidono i civili.
Tardi, certamente ma finalmente, Silvia vede la vera faccia del nazismo, dei servitori di Hitler e comprende che sono tutti dei boia, perché ammazzano gente innocente.
Questa agnizione finale merita di essere scolpita nella nostra memoria, contro oggi stolta opera di assurdo revisionismo.
Un’ultima considerazione. L’Autore pone come epigrafe una frase di Martin Luther King: “Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi: è l’indifferenza dei buoni”, quanto mai calzante, sia per la vicenda narrata, che forse anche per i tempi in cui stiamo vivendo noi.
Mi permetto di affiancarne un’altra, che mi pare appropriata per il bel libro di Daniele:
“Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. Il contrario della pace non è la guerra, ma l’indifferenza. Il contrario della morte è la memoria.” (Eli Wiesel, 1928-2016; Premio Nobel per la Pace nel 1986, autore de “La notte”, 1958).