PAOLO LAMBERTI
Premessa: la scelta della I Guerra Mondiale
Oggi può sembrare inconsueto richiamare scrittori legati alla I Guerra Mondiale. Infatti i momenti fondanti dell’identità nazionale in Italia sono il Risorgimento e la Resistenza, il primo crea l’idea di Patria, la seconda è alla base della Repubblica. Una certa fragilità dell’identità italiana si deduce dalle critiche che continuano ad accompagnare l’interpretazione di questi momenti: se il lavoro degli storici giustamente approfondisce e revisiona le interpretazioni del passato, è anche vero che gran parte di queste critiche o nasce da una visione angelica dell’agire umano, che non ammette ingenuamente lati oscuri, oppure esprime una ostilità di fondo che non esita a ricorrere ad argomentazioni pretestuose, quando non apertamente false. Va piuttosto rilevato come entrambi questi fenomeni storici siano stati resi possibili da una presenza straniera decisiva, siano state le azioni di Francia, Gran Bretagna e Prussia per il Risorgimento, o la presenza preponderante delle forze angloamericane per la Resistenza.
Invece nella I Guerra Mondiale l’Italia era membro di una alleanza, ma ha saputo affrontare e vincere la guerra con le proprie forze; però quello che è comunque stato forse il momento più forte della nazione italiana è ricordato quasi solo per due elementi negativi, “l’inutile strage” di Benedetto XV e Caporetto. In realtà le nobili parole del papa compaiono nell’agosto 1917, tre anni dopo l’inizio della guerra e quando l’unica potenza ufficialmente cattolica, l’impero austro-ungarico, è allo stremo. Quanto a Caporetto, non è stata la “morte della patria” come è stato definito l’8 settembre 1943, ma una dura sconfitta non però dissimile da quelle russe o anglofrancesi nella primavera 1918, e ad essa seguono il Piave, la battaglia del solstizio e Vittorio Veneto, con la definitiva sconfitta del nemico: basterebbe confrontare, al di là dei valori letterari, le pagine amare di Gadda nel Diario di guerra e prigionia, con la sua penosa ritirata a piedi, e le veloci puntate in moderne autoblindo durante la battaglia di Vittorio Veneto, narrate da Marinetti in L’alcova d’acciaio.
La tragedia della I Guerra Mondiale, “suicidio dell’Europa”, si è trasformata in una guerra di attrito e di logoramento; esito abbastanza normale di una guerra, come ci insegna la cronaca degli ultimi decenni, mentre le brillanti campagne lampo sono abbastanza rare. Proprio per questa natura di logoramento il fatto che la disprezzata Italietta liberale e giolittiana abbia saputo arrivare sino alla vittoria finale dovrebbe essere tenuto in considerazione, e questo vale ancor più per le forze armate: un esercito come quello del 1918 è un unicum non solo per l’Italia unita, ma per trovarne un equivalente dovremmo forse tornare all’esercito imperiale romano. Questi motivi spiegano la scelta dell’epoca e degli scrittori, e sono ancora più validi parlando del corpo degli Alpini, che si afferma nella sua singolarità e si impone nell’immaginario italiano, anche a scapito di altri corpi e specialità, proprio nella I Guerra Mondiale.
In margine a queste considerazioni è opportuna una riflessione sulla recente scelta di individuare come “Giornata degli Alpini” il 26 gennaio, ricorrenza della battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio 1943; al di là delle polemiche politiche, tale indicazione presenta sicuramente delle criticità.
Gli Alpini non dovevano essere in quel luogo, impegnati nell’invasione di un altro paese.
Gli Alpini non dovevano essere in quel luogo, erano una fanteria leggera da montagna schierata in un terreno piatto adatto per le forze corazzate.
Gli Alpini non dovevano essere in quel luogo, surclassati nell’equipaggiamento da tutte le altre forze (muli e motocarrozzette contro tank, semoventi e camion)
E soprattutto gli Alpini non dovevano essere in quel luogo, sacrificati nello scontro tra tre dittature.
Meglio sarebbe stato scegliere come “Giornata degli Alpini” il 10 giugno, ricorrenza dell’inizio della battaglia dell’Ortigara, 10 giugno 1917 (giorno in cui caddero due allievi del Beccaria di Mondovì, seguiti poi da un terzo); anche in questo caso non si celebra una vittoria, con il rischio di cadere nel trionfalismo e nel militarismo, ma una battaglia che esprime lo spirito di sacrificio e il coraggio degli alpini, che hanno pagato un prezzo altissimo sia qui che a Nikolajewka.
Però sull’Ortigara gli Alpini combattono in territori di cultura italiana, la guerra è almeno in parte da leggere come completamento del Risorgimento, e gli Alpini combattono sul terreno di elezione, la montagna; l’interventismo non è solo un fatto borghese, Monelli ricorda: «Molti venuti d’oltre oceano a questa guerra dalla tranquillità della famiglia esotica. Un senso di necessità viene dalle cose, lo stesso che li spinse oltremonte per campare la vita […] la patria è questo ritorno ai monti che gli hanno veduti nascere, questo ritrovare sulla bocca dei compagni il dialetto della madre».