Attrito. Una storia proprio così. A 105 anni dalla battaglia del solstizio (I)

Verdun

Verdun

PAOLO LAMBERTI
Tra il 15 e il 25 giugno del 1918 si svolge sul fronte italiano quella che D’Annunzio definì “la battaglia del solstizio”. Meno nota di Caporetto, del Piave o di Vittorio Veneto, è però il perno su cui ruota l’anno della trasformazione dell’esercito italiano da sconfitto e disgregato a Caporetto a vincitore a Vittorio Veneto: l’ultima, fallita offensiva austriaca esaurisce le forze imperiali, mentre la vittoriosa difesa italiana è prodromo alla vittoria finale.
In margine a questa ricorrenza si presenta una riflessione sugli aspetti militari della I guerra mondiale, che rispecchia un nuovo modo di vederla al di là degli stereotipi sull’inutile strage.
PROLOGO: IL CONCETTO DI ATTRITO
La I GM avrebbe potuto essere molto diversa, ma non così tanto da potersi muovere fuori di un contesto già determinato, che possiamo definire con un termine ben noto agli storici militari: attrito. La sua definizione risale a Karl von Clausewitz: «L’intera condotta della guerra è come l’azione di un’enorme macchina complicata, con un enorme attrito; di conseguenza combinazioni che sulla carta risultano facili possono venire realizzate solo con grandissimo sforzo». Attrito nell’accezione del teorico prussiano è quanto rallenta e rovina i piani di guerra; ma è anche uno strumento di combattimento, che mira a logorare l’avversario più di quanto questo logori chi lo usa: e quest’arma era sin dagli inizi in mano all’Intesa (compresi gli USA), cosa ben nota ad entrambe le parti. Così è possibile comprendere la disperazione che accompagna anche le vittorie degli Imperi Centrali, e la fiducia che comunque anima la volontà di resistere anche nei momenti peggiori per francesi, italiani ed inglesi.
Clausewitz parlando di «un’enorme macchina complicata» sembra già prevedere la dimensione industriale della I GM, però non è tanto profeta quanto osservatore; chi oppone gli ottusi generali di Verdun e del Carso a Napoleone, non vede quello che Clausewitz, ufficiale prussiano durante le guerre napoleoniche, vedeva sui campi di battaglia del Corso. L’attrito era il cuore della battaglia napoleonica: lo dice con estrema chiarezza Wellington, dopo Waterloo: «Mai visto un incontro tra due picchiatori così. Eravamo tutt’e due quello che i pugili chiamano dei ghiottoni». Il termine, nel pugilato a piedi fermi e mani nude dell’epoca, indicava coloro che vincevano gli incontri sapendo incassare un’infinità di colpi: incassatori, nel gergo di oggi.
Rispetto ad una battaglia napoleonica, che si estendeva su pochi chilometri e poche ore, la I GM proietta su anni e decine di chilometri l’attrito: ma la logica è la stessa, e non è molto diversa da una battaglia oplitica o legionaria. Si tratta di quella che Hanson ha definito “l’arte occidentale della guerra”, estenuare l’avversario fino al suo crollo psicologico, che è il vero obiettivo di ogni scontro.
La differenza è nell’abbondanza di materiale umano e di risorse economiche, che hanno permesso di prolungare a dismisura l’attrito. Però non si può non notare la somiglianza tra il rimpiazzo costante delle perdite dopo massacri come la Somme o l’Isonzo e il costante riformarsi delle armate romane dopo ogni disastro, come nelle guerre puniche: dai naufragi della prima guerra punica a Canne la forza di Roma è stata sempre nell’abbondanza di uomini e di risorse: la I guerra punica durò 23 anni, la seconda 16, su teatri diversi e lontani e con perdite analoghe.
Oggi la quarta generazione della storiografia sulla guerra è detta “transnazionale”: è caratterizzata da un’ottica globale, sia nell’allargare lo sguardo al di là dell’Europa sia cogliendo fenomeni storici unitari diffusi tra tutti i belligeranti (come gli ammutinamenti o il ruolo dei civili): esempi ne sono The Cambridge History of the First World War, e in ambito italiano La Guerra Italo-austriaca (1915-18) a cura di Nicola Labanca e Oswald Ueberegger, entrambe del 2014. Tuttavia l’ottica globale non può cancellare il campo di battaglia: è quanto scrivono i due ultimi autori: «gli avvenimenti sfociarono in un esito che nessuna prospettiva transnazionale può occultare, ma che anzi può meglio contribuire a spiegare: e cioè che la guerra italo-austriaca conobbe un perdente e un vincitore, sia pur ad altissimo costo. L’Impero austro-ungarico fu alla fine sconfitto. Non solo da Roma, ovviamente, ma anche dalle proprie debolezze interne e dalla forza della coalizione avversaria, nella cui compagine però l’Italia era stata l’unica ad averlo logorato militarmente in maniera costante e diretta per oltre quarantuno mesi».
La linea storiografica degli storici militari confligge ancor più con l’immagine popolare e letteraria: ha abbandonato gli aspetti più eroico-celebrativi per inglobare i concetti della storia di lunga durata, l’attenzione ai contesti sociali ed economici e soprattutto per dare voce non solo più ai generali, ma anche ai soldati: fondamentale Il volto della battaglia di John Keegan. Né storici “maggiori” come Simon Schama hanno trascurato questo taglio, si pensi alle analisi militari di Cittadini sulla Rivoluzione Francese o ancor più a Le molte morti del generale Wolfe.
Negli ultimi decenni la revisione ha toccato anche la storiografia sulla I GM: si vedano sia il libro di Niall Ferguson, Il grido dei morti, brillante e provocatorio come tutte le sue opere, ma soprattutto i libri di William Philpott, Attrition: Fighting the First World War, e la brillante e persuasiva analisi di una delle battaglie simbolo dell’insensatezza della I GM, la Somme, che nelle sue pagine non appare meno sanguinosa, ma certo meno insensata (Bloody Victory: The Sacrifice on the Somme and the Making of the Twentieth Century); tali innovazioni appaiono anche nel recente saggio di Peter Hart, La grande storia della I Guerra Mondiale.
CAP. 1 L’ATTRITO: INDUSTRIA E FINANZA
Se nervi belli pecunia, la I GM non avrebbe dovuto neppure iniziare: le potenze dell’Intesa avevano un rapporto di 1,5 a 1 in PIL e di 4,5 in popolazione rispetto alla Triplice (Italia compresa). Visto il divario economico, la domanda non è perché la Germania abbia perso, ma perché l’Intesa abbia impiegato tanto tempo a vincere. Non si può neanche dire che le Potenze Centrali compensassero con maggiori spese per la difesa: nonostante l’asserito militarismo e la corsa agli armamenti dell’ultimo ventennio anteguerra, la spesa pro capite della Germania era inferiore a quella di Francia e Gran Bretagna; nel 1913 la Germania spendeva per la difesa il 3,5% del PIL lordo, contro il 3,1 della Gran Bretagna, il 2,8 dell’impero asburgico, il 3,9 della Francia e il 4,6 della Russia; percentuali oggi non molto diverse, a parte quelle più elevate della Cina e della Russia post Ucraina.
A rendere fragile la Germania era anche una struttura federale che non le permetteva di coprire le spese militari con imposte dirette, come faceva in buona parte la Gran Bretagna. Così esse venivano finanziate con le imposte indirette, notoriamente regressive, o con il debito. Non stupisce che le obbligazioni tedesche venissero scambiate a prezzi più bassi (e a rendimenti più alti) rispetto a quelle inglesi: ma nel 1913 esse pagavano uno spread anche rispetto alle emissioni italiane e belghe; fenomeno legato anche alla minore efficienza del mercato finanziario tedesco, che in gran parte era in mano ad investitori interni, ed emetteva una maggioranza di titoli a breve e medio termine, invece di quelli a lungo termine dominanti a Londra.
Questo può spiegare la diffusa percezione degli ambienti finanziari che una guerra non sarebbe scoppiata. Il giornalista britannico Norman Angell scrisse un saggio dal titolo La grande illusione; uscito nel 1910, fu un best seller mondiale: spiegava come l’epoca della globalizzazione rendesse impraticabile condurre guerre di portata mondiale, poiché da tempo tutti i paesi erano legati troppo strettamente da vincoli economici. Nel 1913 David Starr Jordan, presidente della Stanford University, dopo aver letto il saggio pronuncia parole eloquenti: «La grande guerra in Europa, da sempre una minaccia, non scoppierà mai. I banchieri non sborseranno il denaro necessario al conflitto, l’industria non lo alimenterà, mentre gli statisti non possono farlo. Non ci sarà nessuna grande guerra».
La storia smentisce gli economisti: la Germania entra in guerra e resiste per 4 anni, arrivando a destinare nel 1917 più del 70% del PIL allo sforzo bellico; e dimostrandosi più efficiente delle potenze dell’Intesa sia nella mobilitazione dell’industria che nella capacità di produzione, nonostante gli handicap finanziari e commerciali, dovuti al blocco inglese. A darne prova è il costo della guerra: contrariamente al detto di Bertrand Russel che definisce l’economia di guerra «massima carneficina con minima spesa», esso è altissimo, ma soprattutto per gli alleati. Infatti è calcolato tra 140 e 147 miliardi di dollari (valori dell’epoca) per l’Intesa e tra 62 e 83 miliardi per le Potenze Centrali.
Ma nonostante la maggior inefficienza, l’attrito rimane a favore degli Alleati: infatti il prodotto nazionale netto tedesco passa da 100 nel 1913 a 73 nel 1918, quello britannico da 100 a 107, e, ad indicare come la crescita economica sia più significativa in economie non mature, quella italiana passa da 100 a 107 (ma 113 nel 1917, prima di Caporetto) e quella russa da 100 a 122 nel 1916: a dimostrare le potenzialità della Russia zarista stroncate dalla rivoluzione.
La mobilitazione della classe operaia pone l’alternativa tra rafforzare la produzione esentandola dalla coscrizione, o inviarla al fronte e rallentare le fabbriche. Di fatto, è più logico spedire gli intellettuali in trincea e tenere gli operai in fabbrica: i primi si sostituiscono più facilmente, Ungaretti e Owen non sanno produrre munizioni. Anche qui, pur con una inferiorità nel potenziale umano, la Germania ha utilizzato meglio questo principio.
Conseguenza paradossale della natura industriale della guerra, a pagarla sono stati la classe media e i contadini, ad approfittarne gli industriali e gli operai. Non solo nella “tassa del sangue”, ma anche finanziariamente: i profitti delle industrie crescono, ma meno di quanto la fama di “pescecani” tramanda; i profitti in percentuale del capitale nell’industria tedesca passano dall’ 8% dell’anteguerra al 10,8% nel 1917. Invece ad esempio il salario medio operaio britannico cresce più della produttività, mentre in Germania il rapporto tra lo stipendio di un Beamten e il salario di un operaio passa da 5 a 1 a meno di 3 a 1. Non stupiscono l’inquietudine e l’aggressività borghesi del dopoguerra.
CAP. 2 GLI IMPERI CENTRALI: IL TIMORE DELL’ATTRITO
«Se ci fu qualcosa di inutile nella Grande Guerra non furono le azioni degli alleati dell’Intesa nel contrastare l’aggressione tedesca, ma la leggerezza della Germania nel tentare di provocare, combattere e vincere una guerra in circostanze sempre avverse» (Peter Hart, La grande storia della Prima Guerra Mondiale)
C’è un singolare parallelismo nelle azioni della Germania nelle due guerre mondiali.
In entrambi i casi la sua politica l’aveva isolata e aveva creato diffidenza nelle altre nazioni.
In entrambi i casi la sua superiorità economica e militare era destinata ad erodersi.
In entrambi i casi l’unica soluzione trovata è stata ricorrere ad una guerra preventiva che si sperava rapida e decisiva.
In entrambi i casi i capi militari avevano compreso presto il fallimento di questa strategia: von Möltke lo scrive nel suo diario nell’autunno del 1914, Halder a fine 1941.
In entrambi i casi i generali erano consapevoli che realisticamente la Germania non poteva che uscire battuta da una guerra di logoramento.
In entrambi i casi a questa certezza si oppose la speranza di una vittoria ottenuta con una superiore volontà morale e di sacrificio.
In entrambi i casi la realtà prevalse sull’ideologia.
Parallelamente le potenze nemiche compresero in entrambe le guerre che la loro strategia non poteva essere che di logoramento e difensiva: al di là di certi entusiasmi francesi, e della propaganda, la Gran Bretagna puntò sempre sul blocco e sulle risorse statunitensi, la Russia sulla mobilitazione del materiale umano, la Francia sulle fortificazioni.
Erano proprio i militari tedeschi ad avere consapevolezza, e timore, di una guerra di attrito. Helmuth von Möltke il vecchio meditando sulla guerra franco-prussiana concluse che non sarebbe stata possibile un’altra guerra tra potenze europee, poiché sarebbe stata una guerra di popolo che nessuno poteva vincere; anche Alfred von Schlieffen scrive dell’inutilità di una guerra di attrito, se il mantenimento di milioni costa miliardi; l’autore del celebre piano aveva in mente i piani di riarmo della Germania guglielmina, che richiedevano un aumento dei soldati con costi giudicati allora insostenibili.
Eppure i militari non seppero che vedere l’unica soluzione nell’azzardo di una guerra preventiva, a partire dal più aggressivo, l’asburgico Franz Conrad von Hötzendorf, che da anni preparava piani di guerra al punto di essere stato allontanato dal comando per un periodo intorno al 1910; eppure anche questo guerrafondaio confidava alla sua amante, Gina von Reininghaus, di credere che sarebbe stata una lotta senza speranza, ma che comunque doveva avvenire, perché una monarchia ed un esercito così antichi non potevano perire senza gloria. Peccato che queste notizie le riservasse all’amante: avrebbe trovato orecchie più attente nel vecchio imperatore, che dal canto suo nel 1912 disse di non volere guerre, perché in esse era sempre stato sfortunato: avrebbe vinto, e perso province.