ANTONIO VIGLINO
Pressoché chiunque crede di sapere che gli alchimisti fossero coloro i quali si dedicavano al tentativo di trasformare il piombo in oro, che cioè fossero ciarlatani o poveri illusi.
Se invece si legge un qualunque testo di un adepto, si trova scritto l’avvertimento che il libro che si ha tra le mani parla di tutt’altro che del trasmutare metalli vili nell’oro sonante, ed anzi spesso vengono definiti come “bruciatori di carbone” quelli che cercano di manipolare i metalli fisici.
Di cosa tratta allora l’alchimia? Cosa vogliono dire questi libri che appaiono, e a tutti gli effetti sono se non se ne ha la chiave, degli scritti incomprensibili?
Innanzitutto occorre considerare che l’alchimia non è solo un fenomeno che si è diffuso in Europa a partire dal tardo Medioevo — fino a serpeggiare ancora ai giorni nostri. L’alchimia è al contrario una scienza si può dire universale, dato che venne coltivata nell’Antico Egitto, in Grecia e a Roma, in India, in Cina, presso gli arabi, esattamente negli stessi termini in cui ne trattano gli adepti rinascimentali, cioè utilizzando il simbolismo dei metalli e delle operazioni da laboratorio.
È poi bensì vero che l’alchimia fu l’antenata della chimica, nel senso che questa derivò da quella, come da tutti riconosciuto e come d’altra parte manifestano i nomi, ma si deve ben sapere che l’alchimia da cui germinò la chimica non era la vera alchimia, che come detto non si occupa di operazioni fisiche su enti metallici e loro derivazioni, ma solo l’alchimia nella sua veste essoterica. Vale a dire, chi non sapeva di cosa in realtà trattasse l’alchimia e prendeva alla lettera le istruzioni circa calcinazioni, sublimazioni e uso di alambicchi, armeggiando con questi si trovò ad effettuare scoperte che poi tracimarono nella scienza moderna oggi detta chimica. O meglio, gli alchimisti naturalmente non disdegnavano di scrivere cose naturalisticamente vere anche relativamente alla veste essoterica dei loro esperimenti: usavano metalli e operazioni da laboratorio come emblemi di altro, ma si preoccupavano anche della validità dei significati materiali ed esteriori dei simboli che impiegavano; ma con tutto ciò, questo va ribadito, la verità che interessava agli alchimisti era quella spirituale, non quella materiale. I testi degli alchimisti furono cioè anche testi se si vuole pre-scientifici, il cui approfondimento generò la chimica moderna, ma la dimensione scientifica è solo la veste superficiale impiegata per veicolare nozioni di tutt’altra natura. In altre parole, l’alchimia ebbe in passato lo stesso doppio valore che hanno gli yoga: la valenza essoterica di questi è di procurare benessere e serenità fisica e mentale, il loro fine autentico ed esoterico è invece la trasmutazione dell’individuo.
Di cosa tratta allora veramente l’alchimia?
Semplicemente essa è una prosecuzione in termini criptici delle diverse diramazioni della Scienza Sacra cui accede. L’alchimia egizia, che divenne l’alchimia araba la quale divenne a sua volta quella europea rinascimentale, è la prosecuzione ermetica delle conoscenze esoteriche degli antichi egizi (la parola alchimia deriva dal geroglifico kmt, che significa “terra nera” ed è il termine con cui gli egizi indicavano la propria patria, con l’apposizione dell’articolo arabo “al”). Ma dato che gli egittologi ignorano questo complesso di conoscenze, e dato che gli alchimisti stessi non vollero rivelarla al punto da avvilupparla in simboli incomprensibili, di essa non è possibile parlare.
L’alchimia europea rinascimentale — ma ancora nel secolo scorso operavano adepti di primissimo piano, ad esempio Fulcanelli — utilizza i simboli di sostanze chimiche e di metalli per spiegare come ricavare dalla ignota materia prima la pietra filosofale, il gioiello che esaudisce i desideri (definizione che peraltro è ricorrente anche nei testi tibetani, dove non si ebbero correnti alchimistiche). Ogni alchimista utilizza questi emblemi in un senso suo proprio, cosicché ad esempio lo zolfo cosa è per Basilio Valentino è cosa diversa da cosa è per il Filalete; inoltre tutti gli alchimisti parlano della materia prima, sul ciò sul quale occorre operare per ottenere i risultati, ma nessuno di essi dice esplicitamente cosa sia, bensì ciascuno la ammanta di spiegazioni enigmatiche; tutti descrivono l’athanòr, il vaso nel quale deve essere mantenuto il fuoco per la cottura del misterioso composto, ma nessuno dice cosa esso sia in realtà (giacché, si sarà intuito, non si tratta di un recipiente in terracotta in cui far bollire intrugli di sostanze materiali), e ancor meno è chiarito di che tipo di fuoco si tratti; ancora, tutti gli alchimisti parlano di Sole e Luna, di leoni verdi e omuncoli, dell’androgino e del Re, della rugiada e della tintura, e di altre nozioni tratte dai più diversi generi, senza mai svelare a cosa effettivamente questi termini si riferiscano. Inoltre è detto che gli alchimisti invertano e mescolino i momenti di preparazione dell’Opera, si che l’adepto debba capire da sé non solo cosa fare, ma anche in che sequenza debba far procedere le operazioni; l’unico dato certo è che l’Opera consti di tre fasi: l’opera al nero, l’opera al bianco, l’opera al rosso (tenuto conto di questo, si può intendere cosa significhi la notizia secondo la quale R.A. Schwaller De Lubicz negli ultimi anni della sua vita nel suo rifugio svizzero ottenne il rosso delle vetrate della Cattedrale di Chartres).
Si potrebbe quindi concludere che l’alchimia sia un gigantesco, immane koan? I koan sono indovinelli paradossali che vengono dati dal maestro zen al praticante affinché questi, meditando su di essi, possa giungere al satori, sbrigativamente detto come l’illuminazione (in verità, koan e satori costituiscono l’accesso al tempio, poi ci sono le istruzioni segrete). Ebbene l’alchimia non è per nulla esercizio mentale fine a se stesso, bensì contiene davvero pratiche operative. Il problema circa la comprensione dei testi degli alchimisti è che essi sono rivolti puramente agli adepti, ovvero a chi sa di cosa effettivamente trattano; per chi non lo sa, sono incomprensibili, e il cercare di spiegarli razionalmente è vano, perché le scienze esoteriche pertengono ad un livello che è oltre la ragione.
Se gli alchimisti hanno voluto ammantare di segretezza il loro sapere è non solo per sfuggire alle torture della Inquisizione, ma per l’anteriore motivo che queste verità, come dice Platone, “non possono essere comunicate come le altre conoscenze”. Tuttavia, il leggere i libri degli adepti è in ogni caso cosa buona, perché al risveglio ci si può avvicinare già solo con il leggere testi, ed anzi questa è la via che indica il Mutus Liber, composto di sole tavole di immagini e dal motto “Ora, Lege, Lege, Lege, Relege, Labora et Invenies”, ovvero: prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai.