DINA TORTOROLI
Con una trepidazione equiparabile a quella provata nel trovarmi fra le mani documenti arcadici che realmente attestavano l’ipotizzata volontà di Carlo Imbonati di essere un intellettuale militante (puntata n.10) – non appena ne ebbi notizia e riuscii a procurarmela – lessi la Memoria di Claudio Povolo, intitolata Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del Seicento all’anonimo manoscritto dei Promessi Sposi.
Esperienza entusiasmante: già alla fine del primo capitolo – Dalla storia all’invenzione – reputai quel testo uno spartiacque: nell’atteggiamento della critica ufficiale c’era stato un “prima”, e ci sarebbe stato un “dopo”.
Aspettativa utopistica.
Eppure, a ben vedere, a me quella previsione sembra implicita anche nella Relazione della commissione giudicatrice dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, in cui Vittore Branca, Gaetano Cozzi e Gino Benzoni ammettono: «L’intelaiatura narrativa del capolavoro manzoniano, avente come protagonisti quei personaggi che per lo più sono stati tradizionalmente assegnati alla sfera della geniale invenzione dell’autore milanese, corrisponde, in buona misura, alla più complessa vicenda processuale che si svolse nel piccolo villaggio vicentino [Orgiano] negli anni 1605-07. L’imputato principale è un giovane nobile residente in un villaggio [Orgiano] in cui esercita un incontrastato dominio. È circondato da una piccola corte di nobili e da uno stuolo di bravi. Sono molte le violenze da lui esercitate, anche assieme al più giovane cugino, compagno di ozi e di bagordi. A proteggere le sue malefatte interviene spesso lo zio, il personaggio più temuto e rispettato dell’ambiente. Tra le vittime principali emerge Fiore, una giovane contadina del luogo che vive con la madre vedova. […] A proteggere le vittime ed in particolare la giovane che vive con la madre vedova è un frate che da alcuni anni esercita l’attività di curato del villaggio, fra Ludovico Oddi, che riesce ad opporsi alle prepotenze nobiliari e a spingere la giovane a ribellarsi alle soperchierie ricevute. Per toglierlo di mezzo lo zio dei due giovani nobili ricorre alla curia vescovile vicentina ottenendo che il frate sia processato dal tribunale ecclesiastico con l’accusa di difendere la giovane donna per rivalità in amore con il nipote Paolo Orgiano» (Memoria …, pp. 5-6).
L’autore poi puntualizza: «Tutti i personaggi principali, con l’esclusione di don Abbondio, sono presenti in entrambe le vicende: don Rodrigo-Paolo Orgiano, il cugino Attilio-Tiberto Fracanzan, il Conte zio-Settimio Fracanzan, il Padre Cristoforo-Padre Ludovico Oddi, Lucia Mondella ed Agnese-Fiore Bertola e sua madre, insieme ad altre vittime.» e mette a fuoco gli aspetti più significative del confronto processo-romanzo: «Notevoli sono anche le coincidenze sul piano dell’intreccio narrativo: don Rodrigo-Paolo Orgiano circuiscono rispettivamente Lucia e Fiore; ma i due tentano inutilmente di sedurle; in entrambe le vicende le due donne sono protette da fra Cristoforo-fra Ludovico Oddi […] ed infine sia don Rodrigo che Paolo Orgiano inviano di notte i loro bravi per rapire Lucia e Fiore, ma con esiti diversi, che in parte erano suggeriti dallo stesso processo nelle vicende di alcune giovani che erano fortunosamente riuscite a sfuggire alle pressanti attenzioni del giovane nobile vicentino. Si tratta dunque di una serie di analogie e di coincidenze che rendono del tutto legittima l’ipotesi che Alessandro Manzoni poté prendere visione del processo contro Paolo Orgiano. Si potrebbe aggiungere di più: l’aderenza al processo, che si snoda per centinaia di pagine, è tale che non è azzardato supporre che egli lo leggesse effettivamente di persona e non si avvalesse di un riassunto, che qualcuno avrebbe potuto più o meno fedelmente proporgli. Solo un’attenta e puntuale lettura del processo era in grado infatti di permettere la piena comprensione di una vicenda assai complessa sul piano narrativo e per di più scandita in una lunga sere di testimonianze spesso contraddittorie e reticenti. L’operazione di mixage, che si può cogliere dal romanzo manzoniano, poteva inoltre essere condotta solo avendo a fronte il fascicolo processuale. È altresì importante sottolineare, sulla base di quest’ipotesi, che della vicenda processuale che vide come protagonista Paolo Orgiano, il romanziere milanese potrebbe aver filtrato lo schema narrativo portante, lasciandone deliberatamente sullo sfondo, appena abbozzati, il clima sociale e la densità degli avvenimenti. La stessa passione di don Rodrigo per Lucia suggerisce un più diffuso clima di sopraffazione sessuale e di violenze che nel romanzo è volutamente appena accennato. Più che un’operazione di censura e di esclusione Alessandro Manzoni potrebbe dunque aver attuato un’accurata selezione degli avvenimenti, condensandoli in una vicenda che inevitabilmente finì per assumere i tratti emblematici e significativi di uno sfondo sociale che in realtà era assai più complesso.» (Memoria…, pp. 38-39 e 41).
Debbo dire che, ogni volta in cui Claudio Povolo nomina Alessandro Manzoni, la mia mente sostituisce a quel nome l’espressione “l’autore implicito del Fermo e Lucia” (che ormai per me equivale a dire GianCarlo Imbonati), visto che le osservazioni dello storico vicentino trovano immediato riscontro nelle tracce di vita, scampate alla cosiddetta damnatio memoriae del “padre aggiuntivo” (Vigorelli) del Manzoni.
Quindi è bene che io riferisca ulteriori, utilissime considerazioni: «Quel che ci preme sottolineare è che quella primissima fase di riflessione che accompagnò il concepimento e la stesura del suo romanzo, si distinse per la vivissima attenzione rivolta alla documentazione archivistica e, più in particolare, a quella di origine processuale. Al Fermo e Lucia Alessandro Manzoni aveva aggiunto un’Appendice sulla colonna infame, basata su carte processuali di proprietà di casa Verri*. La stessa storia della monaca di Monza era filtrata da resoconti processuali**. […] Una spiccata sensibilità processuale che il romanziere milanese aveva forse potuto trarre dal suo recente viaggio a Parigi. Di certo egli era giunto alla consapevolezza dell’importanza eccezionale che i documenti di origine giudiziaria e processuale rivestivano nel far emergere episodi e tratti oscuri della realtà del passato. […] La documentazione processuale era dunque per Alessandro Manzoni uno strumento importante ed essenziale per avvicinarsi alla verità della storia, per coglierne gli aspetti più riposti, per individuarne, infine, gli eventi meno noti e i protagonisti più oscuri. Quel mondo degli umili poteva finalmente essere esaminato nelle sue vere dimensioni. Testimonianze indirette del passato, queste fonti emergevano in quegli anni sotto una nuova veste. Dagli Archivi inaccessibili dei governi dell’Antico Regime, esse erano confluite, attraverso le turbinose vicende politiche dei primi decenni del secolo, in sedi provvisorie e non ancora istituzionalmente ben definite. […] Difficilmente Alessandro Manzoni o chiunque altro avrebbe potuto ottenere il permesso delle autorità politiche del Lombardo Veneto di consultare le carte processuali dei passati regimi. Questo avrebbe potuto avvenire solo per vie ufficiose, sfruttando l’ancora caotico periodo di censimento e di riorganizzazione, che corse all’incirca tra il 1815 e il 1825» (Memoria… pp. 36-38).
La seconda parte della Memoria è quindi dedicata alla storia del “processo contro Paolo Orgiano” – fascicolo accluso alla “documentazione dell’antica ed importante magistratura politico-giudiziaria del Consiglio dei dieci” –, relativamente a quegli anni.
A me, invece, interessa quanto lo storico dice che era accaduto a partire da una trentina di anni prima: «La necessità di un riordino e di una classificazione dell’archivio del Consiglio dei dieci si pose per la prima volta al volger della caduta della Repubblica. Nel 1785 il Consiglio dei dieci deliberò che tutte le carte esistenti nel proprio archivio fossero esaminate e poste in ordine. Sovraintendente all’operazione venne eletto il patrizio Zaccaria Vallaresso, il quale si avvalse dell’opera del coadiutore di cancelleria Giuseppe Francesco Olivieri, che l’anno seguente presentò un Catalogo ragionato di tutti i registri e filze del Consiglio dei dieci. Nel 1792 fu la volta dell’enorme documentazione giudiziaria e processuale, che negli anni seguenti venne suddivisa per decenni e classificata in tre distinte categorie. […] La caduta della Repubblica e il succedersi di vari governi influirono, com’è noto, assai negativamente sulla conservazione e sicurezza degli archivi allora depositati in Palazzo Ducale. Molti di loro subirono mutilazioni, furti e dispersioni. Di diversa documentazione trafugata non fu possibile conoscere il destino. Parti consistenti di alcuni fondi archivistici furono sottratti nel 1798 e nel 1805 e rinviate rispettivamente a Parigi e a Vienna.» (Memoria… p. 58).
Non è davvero azzardato credere che Carlo Imbonati avesse potuto ottenere il permesso di esaminare quelle carte processuali proprio come era accaduto, nel 1776, a Milano, per il fascicolo del processo agli untori (puntata n.19).
Purtroppo, fui costretta ad abbandonare quasi subito quel promettente itinerario di ricerca, ma, anni dopo, la notizia di un altro processo mi risarcì del sacrificio.
In un articolo, apparso sul Corriere della Sera del 22 ottobre 2001, Sebastiano Vassalli scriveva: «È possibile e addirittura probabile che Manzoni abbia tratto spunto per il suo romanzo dalle vicende di Giovan Battista Caccia, nobile novarese giustiziato a Milano nel 1609, dopo un processo che fece scalpore e che durò sette anni. La storia del Caccia è una storia grottesca e anche, a suo modo, grandiosa, di una lite per una donna tra due signorotti dell’epoca: e c’è un particolare, quello dell’intimidazione al prete per non fargli celebrare le nozze di uno dei due signorotti, che conduce diritto a Manzoni e al suo romanzo».
Vassalli aveva più dettagliatamente parlato dei verbali di quel processo in un precedente articolo, del 14 agosto, in cui aveva fatto conoscere anche la fonte delle proprie informazioni: lo studio storico, intitolato: Un don Rodrigo della Bassa Valsesia, pubblicato nel 1931 dal novarese Alessandro Viglio.
Scrive Vassalli: «Io mi sentirei di andare oltre l’ipotesi del Viglio e di sostenere che Manzoni può essersi ispirato alla figura del Caccetta per delineare non uno, ma due personaggi: don Rodrigo e l’Innominato. Negli ultimi anni in cui fu libero, infatti, Giovan Battista Caccia era il capo riconosciuto di tutti i don Rodrigo esistenti tra Ticino e Sesia».
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*Claudio Povolo presta fede a quanto dichiarato dal Manzoni stesso, ma nell’Introduzione dell’Appendice storica su la colonna infame – “parte essenziale” del Fermo e Lucia – si legge: «In mezzo a quei tapini accusati [d’aver propagato la peste con unzioni] si trovò, per le singolari circostanze che racconteremo, un uomo di gran condizione. Quest’uomo, potendo per la sua giustificazione ricorrere a mezzi dei quali gli altri non avevano per avventura nemmeno l’idea, e che non sarebbero stati in poter loro quando anche i difensori gli avessero loro suggeriti, quest’uomo, dico, pubblicò con le sue difese, e in appoggio di quelle un grande estratto del processo che, come a reo costituito gli fu comunicato. Su quel volume, che non debb’essere mai stato comune, ed ora è singolarmente raro, si è principalmente compilata la seguente storia. Il soggetto di essa è il giudizio dei due condannati, il nome dei quali fu scritto nel monumento (la colonna infame), e quello dell’uomo di condizione che fu assolto».
Pietro Verri non possedeva “quel volume”, pertanto ignorava la sorte dell’ “uomo di gran condizione”, vale a dire di don Giovanni Gaetano Padilla, figlio del castellano di Milano. Lo dice nella lettera del 26 aprile 1777, al fratello Alessandro: «Ora ti rispondo a quanto mi cerchi col dirti che non mi risulta qual fine abbia avuto l’affare del figlio del castellano, perché il processo, che io ho potuto avere, non è compìto» (Carteggio di Pietro e di Alssaandro Verri / Dal 1 Aprile 1777 al 30 Giugno 1778 / A cura di Giovanni Seregni / Milano, 1937, p. 27).
** «Il Manzoni, va ricordato, quando nel 1821 mise mano al romanzo, non sospettava neppure che nell’arcivescovado di Milano si conservasse questo testo integrale del processo [a Suor Virginia Maria De Leyva], del quale ebbe tardiva notizia unicamente tra il 1835 e il 1840; e fu l’amico Gaetano Giudici che gli ottenne dall’allora arcivescovo mediolanense Gaisruck di tenersi a Via Morone, sul suo scrittoio e per dieci giorni, il prezioso incartamento segreto» (Giancarlo Vigorelli, La monaca di Monza: dal “romanzo” al “documento, in: «Fermo e Lucia» Il primo romanzo del Manzoni / Atti del XIII Congresso Nazionale di Studi manzoniani / Edizioni Otto-Novecento, 1986, p. 91).