DINA TORTOROLI
Mi dispiace rinunciare a una trasferta di alcuni giorni a Novara, per esaminare più puntigliosamente, a distanza di molti anni, la copia degli atti processuali riguardanti Giovanni Battista Caccia (il cosiddetto Manoscritto Caccetta, trovato negli anni ’70 dall’archivista vescovile don Angelo Stoppa nell’Archivio Parrocchiale di Suno e in seguito trasferito all’Archivio Diocesano di Novara), ma, per ora, non è proprio possibile l’accesso all’Archivio Diocesano, perché è in corso un trasferimento di sede.
Però, posso verificare se sussista veramente la relazione tra il Caccetta e l’Innominato – ipotizzata da Sebastiano Vassalli –, ricorrendo al libro Notizie di Cavaglietto e de’ paesi circonvicini / Momo, Castelletto di Momo, Agnellengo, Barengo, Briona, Fara Novarese, Sizzano, Ghemme, Cavaglio d’Agogna, Fontaneto d’Agogna, Cresso, Suno e Vaprio d’Agogna, di Mons. Luigi Maggiotti*.
«L’amore della terra nativa m’indusse a cercare con diligenza le notizie», dichiara l’autore e aggiunge: «m’è parso che eziandio il mio lavoro potesse essere di qualche utilità, specialmente pei documenti cui s’appoggia e che ne sono buona parte».
Quelli con cui è avvalorata la biografia del più famigerato personaggio, vissuto nel Comune di Briona – proprio lui, Giovanni Battista Caccia, detto il Caccetta –, lo storico afferma di averli tratti da «un voluminoso processo stampato, esistente nell’archivio parochiale di Suno»: un colpo di fortuna, per la mia indagine.
«I misfatti che siamo per narrare – afferma Mons. Maggiotti – dimostrano quanto sia vera la dipintura che il Manzoni fa di quei signorotti di Lombardia ribaldi, facinorosi, i quali sotto la trista dominazione Spagnuola specialmente, circondandosi di bravi ossia scherani e banditi, ogni cosa si facevano lecito, sfidando la giustizia e la forza di quel governo fiacco e corrotto**.
Lo studioso riferisce quindi i delitti sia commissionati sia commessi dal Caccetta, negli anni 1598, 1599, 1600, 1601, 1602, e dichiara: «…arrivò anche a quello che per quei tempi era il massimo dei delitti, cioè a congiurare contro Filippo III Re di Spagna per sottomettere la Lombardia al Re di Francia. E seguendo questo suo talento vestiva alla francese, portando calze, banda e piume bianche sul cappello con un giglio d’oro, e non poteva vedere quelli che vestivan di rosso. Ne’ conviti faceva sempre brindisi alla Francia, gridando: viva il re di Francia e muoja il re di Spagna! Teneva assoldata molta gente ed aveva corrispondenza con uomini bresciani e bergamaschi, stando sempre in aspettazione che i francesi scendessero in Italia per levarsi contro il re di Spagna.» (pp. 200 e 202).
La narrazione è comprovata dalle Note (pp. 209-210 e 212) in cui lo storico trascrive le deposizioni di «Giuseppe Nigrino da Gattinara, il capitano Ferrari da Romagnano, e Giovanni Antonio Visconti Feudatario di Invorio Inferiore su di ciò nanti il signor giudice Quintano li 13 febbraio 1603».
Il Visconti fornisce le indicazioni più utili, fin dall’avvio : «Giouanni Battista Caccia di Briona si mostraua in ogni occasione d’esser di fattione Francese, parlando pubblicamente in fauore di Franza et in dispreggio del re di Spagna.»
Come i primi due testimoni, riferisce che il Caccetta vestiva “alla francese” e si “alterava” con chi “portaua il color rosso”, ma fa un più comprensibile riferimento al contesto storico (l’interminabile guerra tra Francia e Spagna per il possesso del Ducato di Milano), specificando la motivazione di atteggiamenti altrimenti indecifrabili: «et à me in particolare uolse leuare più uolte una impresa rossa, che noi altri Feudatarii sojemo portare à deuotione del Re di Spagna, dicendo, che noi altri non sapeuamo che cosa si facessimo à portare una tal cosa che è un cordoncino rosso con un fiocco grande di seta rossa guarnita d’oro; et io soleua et soglio portarlo dauanti attaccato al gippone, et questo mi occorse una volta in corte di S. E. à Milano, mentre eramo di compagnia, che ponno esser circa doi anni, et me l’ha fatta più d’una volta in Borgomanero, uolendomi strapare detto cordoncino dicendo, che non haueuo intelletto. Et insomma mostraua di esser tutto Francese, fece molta allegrezza quando l’anno passato il Re di Francia prese Momiliano in Sauoja, et banchettandosi in Gattinara, nella Rocca di Briona, nel castello di Vaprio, in Omegna in casa di Giouanni Battista Comolo, et in Orta in casa di Giulio Gemelli tutti capi et banditi si faceua sempre brindisi al Re di Francia.»
Il Caccetta era anche passato all’azione: «Andaua adunando gente che gli paresse di ualore, promettendoli cose assai, se la guerra andaua inanzi. […]. Trattaua per prendere la rocca di Arona […]. Voleua anche fare occupare dalle sue genti la rocca d’Angera […]. Voleua poi mettere gente a Mont’Orfano […]. Voleua ancor metter gente con barche alla Vittalia […]. Fece tuor in affitto il castello di Fontaneto per effettuare meglio i suoi disegni. Manteneua gente in Sauoja nel stato di Milano, e nel Nouarese massime nella Riuiera d’Orta.»
Insomma, «haueua preparate le cose, et li animi di molti suoi aderenti in maniera che non aspettaua altro saluo che fossero calati da qua dai monti i Francesi per mettere in esecuzione il suo piano, et questo tutto gli sarebbe facilmente successo all’improuuiso sperandone agiuto da molti, tra i quali nominaua Matteo Castellazzo, il Conte Frabitio Serbellone et Giacomo Antonio Croce. Faceua capitale di molti capi Bresciani et Bergamaschi, che li hauerebbero ad un suo cenno dato agiuto».
A questo punto, mi pare di poter dire che il personaggio storico Giovanni Battista Caccia possa avere “ispirato” non l’Innominato dei Promessi Sposi, come ipotizza, un po’ troppo sbrigativamente, Sebastiano Vassalli, bensì il Conte del Sagrato del Fermo e Lucia***. A me pare, infatti, che potrebbe essere del Caccetta la voce del Conte del Sagrato a colloquio con Don Rodrigo:
« “Dovrei scusarmi”, cominciò Don Rodrigo, “di venir così a dare infado a Vossignoria illustrissima.”
“Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla”.
“Non so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere stato qualche volta fortunato…”
“Mi ricordo benissimo e la prego di venire al fatto.”
“A dir vero,” riprese Don Rodrigo “io mi trovo impegnato in un affare d’onore, in un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo.”
“Al diavolo anche l’amparo,” rispose con impazienza il Conte. “Tenga queste parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitore d’uno spagnuolo infingardo.” E qui avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l’offeso e lo spaventato, si raddolcì e continuò: “intendiamoci tra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie. Mi dica schiettamente in che posso servirla”.
Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e ch’egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava più dell’evento. “Non intendo però,” continuò titubando, “che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per favorirmi… è troppo giusto… e la prego di specificare…”
“Patti chiari,” rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: “Venti miglia… un borgo… presso a Milano… un monastero… la Signora che spalleggia… due cappuccini di mezzo… signor mio, questa donna vale dugento doppie.”
A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l’uno e l’altro a parlare fra sé. Il Conte diceva nella sua mente: – l’avresti avuta per centocinquanta se non parlavi d’infado e d’amparo –; e Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie. – Diavolo! Questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo… le ho: ma ho promesso al mercante… via lo farò tacere. Eh! ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare. E pagherò:… frate indiavolato, te le farò tornare in gola… Lucia la voglio… Si è parlato troppo… non son chi sono… –
Fatta così la risoluzione, si rivolse al Conte e disse: “Dugento doppie, signor Conte, l’accordo è fatto.”
“Cinque e cinque, dieci,” rispose il Conte. E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formula comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte, significa l’impalmarsi per conchiudere un accordo. E nell’atto di proferire la formola, il Conte stese una mano, e Don Rodrigo la strinse.
“Le darò”, disse Don Rodrigo, “uno dei miei uomini che conosce benissimo la persona, e starà agli ordini di Vossignoria…”
“Non fa bisogno, “ rispose il Conte del Sagrato: “mi basta il nome, “ e qui cavò una vacchetta sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate, e fattosi dire un’altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo scrisse, e notò pure il monastero.
“Ma non vorrei che nascessero abbagli.”
“So quel che posso promettere,” rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro di dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi.
“Certo,” replicò Don Rodrigo, “pel Signor Conte non v’è cosa impossibile.”
“Ad un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona sarà consegnata.”
“Così farò; e mi raccomando… vede bene… non vorrei che… il Signor Conte darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio.”
“Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani.”
“Non ne dubito,” rispose Don Rodrigo.
“Segreto, e fedeltà ai patti!” disse il Conte.
“Son uomo d’onore,” rispose Don Rodrigo, e si accomiatò.» (Fermo e Lucia, Tomo II, cap. VII).
Narrando il medesimo incontro, nei Promessi Sposi (prima edizione, stampata nel 1825-27, cap. XX), Manzoni non fa parlare l’Innominato, se non nel momento in cui congeda Don Rodrigo; quindi quell’uomo non è più connotato dal disgusto per l’infingardaggine del governo spagnolo, per la mentalità servile degli aristocratici suoi coetanei e per la fatua arroganza dei giovin signori:
«Don Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che trovandosi in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s’era ricordato delle promesse di quell’uomo che non prometteva mai troppo nè invano; e si fece ad esporre il suo scelerato imbroglio. L’Innominato che ne sapeva già qualche cosa, ma in confuso, udì attentamente il racconto, e come vago di simili storie, e per essere in questa implicato un nome a lui noto e odiosissimo, quello di fra Cristoforo nemico aperto dei tiranni, e in parole e, dove poteva, in opere. Il narratore si diede poi ad esagerare in prova le difficoltà dell’impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!… A questo, l’Innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore glielo avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che l’impresa la pigliava egli sopra di sé. Notò il nome della nostra povera Lucia, e rimandò don Rodrigo dicendo: “fra poco avrete da me l’avviso di quel che dobbiate fare.” »
La mutilazione operata dal Manzoni è talmente assurda che a me dà l’avviso di quel che io debba fare di fronte alla “complessità strutturale, tematica ed espressiva” che “si avverte più direttamente e riesce persino sconcertante nel Fermo e Lucia” (Natalino Sapegno).
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* Pubblicato nel 1886, è stato ristampato nel 1997, a cura del Comune di Cavaglietto.
Volentieri colgo ora l’occasione per ringraziare pubblicamente il funzionario comunale, cui mi ero rivolta proprio per avere notizia di quel testo divenuto introvabile.
Come risposta, ricevetti in dono una copia della ristampa.
** Pare opportuno ricordare che all’epoca in cui vissero Fermo-Renzo e Lucia il Novarese era parte della Lombardia, governata (si fa per dire) dagli Spagnoli.
*** Nel Fermo e Lucia, l’Innominato è detto il Conte del Sagrato, un soprannome “acquistato” in seguito a “un fatto che fece crescere in tutto il contorno il terrore che già ognuno aveva del Conte”. Quel fatto (l’uccisione sul sagrato, “in un giorno di festa”, subito dopo la sua uscita dalla chiesa del paese, di un uomo che “aveva mostrato di non volere stare come gli altri alla suggezione di lui”), nel Fermo viene dettagliatamente narrato, perché “basterà a dare un’idea del carattere di quest’uomo”. E, a questo proposito, è importante tener presente che al Conte “non spiaceva che ognuno, avendo a parlare di lui si ricordasse di quello ch’egli sapeva fare”, e forse “amava avere il nome dal luogo illustrato da una grande impresa”, come “Scipione l’Africano, o Metello il Numidico”.