ANTONIO VIGLINO
Il Buddhismo è anche una religione, sì, ed è anche una filosofia, certo.
Ma religione e filosofia il buddhismo li è diventati nella sua diffusione, autoalimentatasi a cagione della bontà intrinseca degli insegnamenti del Buddha, mentre il buddhismo in sé è una dottrina spirituale.
Siddhartha Gautama, principe degli Shakya, detto il Buddha in quanto “risvegliato”, nacque nel V secolo a.e.v. nell’India settentrionale, vicino al Nepal — sotto celestiali e divini auspici, che lo dicevano monarca universale o guida dell’umanità. Il padre lo avrebbe voluto come erede del suo regno, e quindi lo tratteneva in castelli di delizie accuratamente richiusi sulle miserie reali della vita. Poi accadde che il principe Gautama vide una persona anziana e malata, sfuggita alle maglie della censura di corte; quindi, uscito di nascosto, vide le sofferenze della realtà e la morte.
Decise quindi di abbandonare il regno e fuggire, e divenne asceta unendosi a un gruppo di yogin rinunciatari. Dopo alcuni anni trascorsi senza aver ottenuto risultati spirituali, abbandonò questo metodo, decidendo che avrebbe meditato solitariamente fino alla illuminazione. Illuminazione che raggiunse a Bodh Gaya sotto l’albero di fico, o pippal – i mala di semi di questo albero, detti semi di bodhicitta, sono appunto i più usati dai buddhisti. Quindi per quaranta giorni il Tathagata (cioè il “così venuto” per spiegare la realtà agli uomini), riflettè su come comunicare le sue rivelazioni.
L’insegnamento fondamentale del Buddha sono la Quattro Nobili Verità.
La vita è sofferenza.
La sofferenza è causata dall’ignoranza.
L’ignoranza può essere dissolta.
La via per dissolvere l’ignoranza è l’ottuplice sentiero.
Tutti gli altri insegnamenti del Buddha, l’impermanenza, il non-sé, la vacuità, samatha e vipasyana, ed anche il nirvana, sono spiegazioni puntuali e particolari delle Quattro Nobili Verità.
Delle Quattro Nobili Verità il punto cruciale è il realizzare che si vive nell’ignoranza, così appunto risvegliandosi dallo stato di torpido sogno in cui da sempre si vive.
Ma che cos’è questa ignoranza?
Il Buddha lo dice con ogni chiarezza, e dopo di lui lo hanno illustrato e spiegato stuoli di lama e di yogin — e al di fuori del buddhismo viene detto e ripetuto da ogni dottrina esoterica.
L’ignoranza è l’ego. L’io. L’errore, il velo di maya, la radice del samsara, è credere di essere l’io. (Il samsara è appunto il vivere nella condizione di sofferenza costante cagionata dagli attaccamenti, il vivere subordinatamente agli eventi, anche quando li si controlla; all’opposto il nirvana è la cessazione della sofferenza.)
Questa non è una semplicistica e banale critica degli egoismi. Anche chi vivesse secondo valide regole morali, dedito all’altrui benessere e via dicendo, sarebbe sempre schiavo dell’io.
Un occidentale fa fatica anche solo a figurarsi cosa voglia dire il Buddha, perché il pensiero occidentale, e ciò vale per ciascun uomo contemporaneo, è stato ed è una variazione sul tema dell’io, preso implicitamente o esplicitamente come fondamento. Ed in effetti questa è la condizione propria dell’uomo: ogni uomo vive nell’inganno di credersi l’io; anche gli uomini dell’Oriente di per sé vivono nell’io. La differenza tra Oriente e Occidente è che in Oriente i sapienti sanno che l’io è illusione, mentre gli occidentali credono che esso sia l’unica e sola realtà. (In termini scientifico-filosofici contemporanei, l’io è la rappresentazione: per la filosofia, la psicologia, le scienze e le neuroscienze l’uomo vive mercè rappresentazioni della realtà. Ciò è l’io: mera e dozzinale autoreferenzialità. Ma al di sotto dell’io c’è una stato di consapevolezza autentica, che i tibetani dicono rigpa e il Vedanta atman. Nietzsche e Heidegger sono stati i soli pensatori del mondo occidentale il cui pensiero è stato fondato puramente e direttamente sulla necessità di uscire dalla rappresentazione.)
Se un uomo vive identificandosi con il suo io, proprio non può nemmeno concepire di pensare cosa significhi ritrovarsi al di fuori dell’io; un insieme racchiuso dentro un insieme più grande, non può comprendere questo insieme in cui è contenuto. Il buddhismo è un insieme di dottrine e tecniche che consentono, se si è a ciò predisposti, di ritrovarsi al di fuori dell’io, nel nirvana.
Gli insegnamenti del Buddha non sono una sequenza di concetti che debbono essere capiti o mandati a memoria, perché a capire sarebbe solo la mente intellettuale, cioè appunto l’io. Nè sono un credo, non è che ci si debba abbandonare in deliquio e lasciarsi rapire da qualche fantasmagoria. Il Buddha dice come stanno le cose, poi ciascuno se vuole può provare a mettere in pratica — a realizzare — la realtà.
Il Buddha indica la via per risvegliarsi dall’inganno in cui da sempre si vive; egli venne “a dare un giro alla ruota del Dharma”; venne non a soppiantare le credenze di allora, né tantomeno a fondare religioni. Il Buddha onora e rispetta i Veda, fondamento della conoscenza della realtà, bensì critica i bramini, cioè i preti che non sanno più capire i Veda. Chi lo vuole seguire lo può seguire, egli non impone conversioni, anzi dice spesso ai suoi monaci che essi non devono “credere” a cosa lui dice, bensì debbono discriminare ed investigare (la propria mente) allo scopo di “esperire”, cioè di vivere stati superiori della mente. Lo Shanga, cioè l’ordine monastico creato dal Buddha stesso, non è deputato ad adorare divinità, ma è semplicemente una comunità di reciproco sostegno al fine di ottenere l’illuminazione; le divinità del buddhismo non sono nemmeno lontanamente dèi in senso occidentale, cioè non sono né dèi omerici né un Dio personale astratto.
Ciò che fece il Buddha fu esporre il nucleo dell’insegnamento esoterico dei Veda in termini accessibili ai suoi contemporanei che affogavano nell’ignoranza del kali yuga, l’età dell’oscurità appunto.
Poi, dopo il Buddha ci sono stati quelli che hanno realizzato i suoi insegnamenti, pochissimi e rari eletti, e i più che pur comprendendo intellettualmente la bontà e la logicità dei suoi insegnamenti non hanno potuto realizzarsi, ed è da costoro che sono scaturite le filosofie e la religione buddhiste.
Studiare il buddhismo non deve essere fine a se stesso. Per la struttura cognitiva degli occidentali, capire una cosa è ridurla a concetti; ma il buddhismo muove dalla considerazione che i concetti sono prodotti artefatti creati dalla mente egoica: essi non sono minimamente la realtà, ma sono solo una copia deformata ed arbitraria di essa. Il buddhismo è, come detto, un insieme di dottrine e tecniche che permettono la liberazione dall’inganno che è l’identificazione con l’io; gli yoga del buddhismo sono chiamati “mezzi abili”, strumenti per un fine. Strumenti verso un fine però in modo diverso da come possono pensare gli occidentali: il fine della liberazione non è cagionato dai mezzi abili secondo l’ordinaria nozione di causa ed effetto. Ma proprio la comprensione di causa ed effetto è uno dei fondamenti dell’insegnamento del Buddha, poi analizzato in maniera adamantina soprattutto dai buddhisti tibetani: solo che non è il nesso di causa ed effetto come lo pensano le persone che vivono nell’io (ma anche Nietzsche forse dice proprio lo stesso quando, più di una volta, irride la causalità). Il buddhismo, come peraltro tutti gli altri yoga, espone che non si può “voler” uscire dall’io, per il semplice fatto che a “voler” uscire dall’io sarebbe proprio l’io stesso.
Come dice ancora ai giorni nostri Tenzin Gyatso XIV Dalai Lama, il buddhismo è controllo della mente: non è né sapere né credere. Tanto chi sa, o crede di sapere, quanto chi crede, è ben lontano dalla realtà effettiva. Il buddhismo è una scienza così pura della mente che chi è schiavo dell’io non può nemmeno capire cosa legge, così dicevano e dicono gli yogin.
Come afferma il Buddha più volte nel Dhammapada, chi esce dall’io si trova al di là del bene e del male, vive al di sopra dei tre tempi, cioè non depresso per il passato né in angoscia per il futuro e tantomeno in balia del presente — ma naturalmente il buddhismo non è una semplice psicologia, questo, del rapportarsi basico ai fenomeni, è solo un primo passetto. Per altro verso, a chi gli chiedeva come fosse allora la realtà autentica, il Buddha rispondeva che non aveva senso provare a spiegarla, perché chi non c’è dentro non la può capire, mentre chi ci arriva non ha certo bisogno di farsela spiegare.
La vacuità è forma la forma è vacuità. Questa è una delle frasi più difficili del Buddha. (Posto che per il Buddha “forma” significa grosso modo quello che Aristotele dice il sinolo, cioè il fenomeno come unione di forma e materia), si può intendere questo detto così: le cose non esistono di per sé ma non sono inesistenti, e questo non-essere pur essendo è la loro natura. Però bisogna sapere che per il Buddha e per ogni buddhista i concetti di essere e non-essere sono appunto già solo concetti, cioè giocattoli confezionati per bimbi — la realtà non è concetti, è la realtà. In molti testi buddhisti se non in tutti, a un certo punto si legge che bisogna stare lontani tanto dal nichilismo quanto dall’eternalismo: in termini occidentali queste due espressioni significano semplicemente l’idealismo e il realismo, e sottovarianti varie; questi modi di pensare meramente filosofici erano infatti attecchiti pure in Oriente. Per il buddhismo le cose non “esistono” né “non esistono”, solo che questo non è un concetto, né una credenza, bensì è lo stato della natura incontaminata della mente, che è alla base della mente di ogni uomo, e a cui ogni uomo, se è fortunato, può giungere.
Il Buddhismo si diffuse tutto l’Oriente, Cina, Tibet, Giappone, sud-est asiatico; solo nell’India fu per lo più soppiantato da altri tipi di insegnamento.
I Veicoli del Buddhismo sviluppatisi nei secoli sono tre: Theravada, Mahayana, e Vajrayana.
Il Theravada, “la scuola degli anziani”, si fonda puramente sul canone pali, cioè sui tre canestri, il Tripitaka, dei discorsi del Buddha. Questo veicolo ha di mira il risveglio individuale, attraverso la Via dei Sutra, appunto i discorsi pronunciati dal Buddha, e cioè mediante, in particolare, le tecniche meditative di samatha e vipasyana intese sulla sola base della lettura dei sutra stessi.
Il Mahayana, o grande veicolo, il più diffuso, aggiunge al canone altri sutra, sulla base della constatazione che i sutra “ufficiali” del canone pali sarebbero solo la parte essoterica, cioè rivolta a tutti, degli insegnamenti del Buddha; il Mahayana ha di mira la liberazione di tutti gli esseri senzienti, sì che il bodhisattva deve rinunciare alla propria realizzazione mosso dalla compassione di aiutare gli altri.
Il Vajrayana, affermatosi in Tibet e in Nepal, è il buddhismo esoterico e tantrico, cioè il complesso degli insegnamenti del Buddha tenuti segreti perché esperibili solo da chi abbia doti particolari. Espone la rischiosa e pericolosa via che consente la liberazione in una sola vita. I sottoveicoli introduttivi del Vajrayana si fondano su visualizzazioni, mandala e mantra; gli stadi superiori, rivelati in piccola parte agli occidentali dopo l’invasione comunista del Tibet, sono la mahamudra e lo dzogchen, del tutto analoghi, sebbene più “analitici”, agli yoga esoterici dell’India.
Un consiglio che si può dare a chi voglia immergersi in questi ambiti di conoscenza, è in primo luogo di leggere i testi orientali in via diretta ed immediata, senza alcuna intermediazione da parte degli accademici occidentali. E poi soprattutto di leggerli come se tutto ciò che si legge sia possibile, cioè non con la riserva mentale, ormai si può dire immanente, che tutto ciò che non soggiace alla dea ragione sia opera di ingenui creduloni.