(La) Prea della mia infanzia II. Infanzia e tradizioni

Foto di Silvia Pio

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GIUSEPPE PRIALE
Diventato ormai un ragazzino – ma anche un po’ scavezzacollo per una questione di parità con i miei compagni di “brigata e di eroiche imprese” – un giorno d’estate, senza saper nuotare, mi tuffai (dove l’acqua era più bassa) anch’io nel Gorgo Nero davanti a loro, riluttanti e timorosi di immergersi in quella grande pozza di acqua fredda e profonda, resa nera dall’ombra della folta vegetazione circostante. Temerario e incosciente, forse volevo solo dar prova di quel coraggio che non avevo, ma che avevo visto in mio padre, quando tirò su con le mani il mostro acquatico, diventato ormai una leggenda per quei pescatori che avevano avuto più volte la canna spezzata. Temerario e incosciente, forse volevo afferrare nell’abisso del Gorgo Nero il mostro della guerra, che aveva distrutto la mia famiglia.
Uscii ben presto dall’acqua gelida, duro come un baccalà, con le mani vuote, alzate come in segno di resa e una ferita in fronte. Ero l’immagine dello sconfitto che si arrende. In compenso, però, mi ero guadagnato sul “campo” (per modo di dire) e in un sol “colpo” (in testa) il titolo di comandante in capo, non di me stesso, ma di una brigata di “ribelli” all’acqua e sapone, rimasti sbalorditi di fronte a un simile atto di coraggio (sconsiderato), che neanche il padre della Psicanalisi, Sigmund Freud, avrebbe saputo interpretare.
Da grande provai a tuffarmi anche in altri “gorghi neri”, quelli della psicologia. Ne uscii ancora una volta a mani alzate e vuote, e con una gran confusione in testa. Provai allora a guardare in alto. Vidi la Luce.
Da una bibbia ”apocrifa”, mai pubblicata, ho appreso che l’uomo da sempre ha fatto la guerra all’uomo, perché il Creatore del mondo, avendo avanzato un po’ di sostanza angelica e un po’ di quella diabolica, per non sprecare nulla delle due, le mescolò in quantità disuguali, secondo l’imperscrutabile criterio usato per l’assegnazione dei talenti della parabola evangelica. Dal quel miscuglio si materializzarono gli uomini: chi buono, amante della pace, chi cattivo, amante della guerra da che mondo è mondo. Perciò, la fine delle guerre e la pace senza fine, arriveranno solo quando gli uomini saranno nuovamente smaterializzati da Chi li aveva materializzati. Di loro resterà solo l’essenza immortale (di quel misterioso connubio), che non dovrà più scegliere (liberamente) fra bene e male.
Se i miei “brigatisti” non amavano le imprese d’acqua, erano però intrepidi in quelle di terra. Una volta organizzammo un’azione di rappresaglia (solo per mutuo soccorso) contro le rabe (rape), perché in autunno infestavano i nostri orti, ammorbavano l’aria delle nostre cucine e mettevano a dura prova i nostri palati non ancora abituati a mangiare di tutto. Ma dopo lo sterminio a suon di bastonate, più distruttive di una violenta grandinata, i detestati vegetali ritornarono in vita e più rigogliosi di prima. Puntualmente ritornarono anche in tavola con nostra grande amarezza (anche sensoriale) per il fallimento della nostra vandalica impresa.
Avevano un bel dirci che bisognava imparare a mangiare di tutto, perché nella vita non si sa mai come si può finire (eravamo usciti dalla guerra da pochi anni). Oggi ci avrebbero detto che un’alimentazione varia ed equilibrata fa bene alla salute, che bisogna consumare vegetali e frutta di stagione, come consiglia la dieta mediterranea, che “tutto il mondo ci invidia”. Ma le rape sono sempre rape, anche per i palati meno raffinati.
Con le castagne, invece, avevamo un ottimo rapporto. Infatti, quelle dei tempüřì (le prime piante a dare i frutti), appena occhieggiavano invitanti dai ricci ancora un po’ verdi, erano nostre (rubate), anche se fatte uscire dalla spinosa “placenta” con lunghi bastoni, usati non più con ferocia vandalica.
Anche con le ciliegie avevamo un buon rapporto. Le più belle (imprendibili per i troppo prudenti) le contendevamo ai corvi e ai merli, che da lontano ci guardavano biechi e forse, i secondi, ci odiavano anche per altri inconfessabili motivi.
Ogni anno alla Sera dei Morti – dopo aver detto il rosario intero e cantato il Dies irae in chiesa (con i soliti strafalcioni irrispettosi della lingua latina e tramandati da generazione in generazione) alla presenza del catafalco – ci davamo al terrorismo notturno, tanto per restare in clima liturgico. Andavamo a mettere sulle mura del cimitero dei teschi di zucca, illuminati all’interno con mozziconi di ceri, trafugati dal deposito in sacrestia, ma con il complice benestare del campanaro Tunìn, che in certi casi era dalla nostra parte, ma non quando prosciugavamo, di nascosto, le ampolle del “vin santo”, che doveva costare al parroco l’ira di Dio, dato che ne beveva appena un sorsetto durante la massa. Allora ce le suonava di santa ragione, senza chiedere (per fortuna) il permesso al parroco o ai parenti.
Per la verità, quella delle zucche illuminate, non era una delle nostre trovate geniali. Era tradizione, per ricordare i defunti, esporle di notte sui davanzali esterni delle finestre, non sulle mura del cimitero. Quella era una nostra variante alla secolare tradizione, risalente, dicono, all’antico popolo dei Celti, poi trasformata, dagli affaristi inventori di sempre nuove feste, in quella macabra carnevalata di Halloween.
Con il Parroco, per dirla tutta, noi chierichetti avevamo in sospeso alcune vertenze di tipo “salariale”. Da tempo, infatti, chiedevamo che la paga (di 5 lire) per il servizio alla messa granda (la seconda della domenica) fosse retribuito meglio di quello prestato alla messa bassa (la prima) o dei giorni feriali, perché era molto più lungo a causa della predica, della messa tutta cantata, del cerimoniale molto più impegnativo per noi chierichetti con la cota nera e rocchetto bianco: chi con il secchiello dell’acqua santa e l’aspersorio, chi con il turibolo pieno di brace (mendicata in qualche casa) e tenuta viva con un’infinità di movimenti, perfettamente sincronici, che avrebbero dato lo spunto a Galileo Galilei di scoprire la legge del pendolo, se non l’avesse scoperta qualche secolo prima nel duomo di Pisa, osservando un lampadario (urtato casualmente dal sacrestano) che oscillava, appeso però all’estremità di un braccio di ferro, non di un gracile braccino. Chiedevamo, inoltre, che ci fosse retribuito pure il servizio ai vespri della domenica, prestato con i soliti paramenti e cantati a squarciagola (non c’erano ancora gli amplificatori) con le nostre voci bianche, tutt’altro che angeliche, per sostenere quelle piuttosto “nere” e affaticate degli anziani coristi. Non parliamo, poi, della nostra tensione continua nel tenere gli occhi sbarrati e fissi ai cartelloni dei salmi, che gli anziani del coro cantavano a memoria e ad occhi chiusi, senza alcun rispetto per le desinenze della lingua latina, ancora in uso nella liturgia della Chiesa del tempo. Infatti, a turno, un chierichetto doveva essere sempre pronto a togliere tempestivamente dal grande leggio il cartellone del salmo appena finito, per lasciare il posto a quello successivo, anch’esso ingiallito dal tempo e dalle dita, per nulla immacolate, dei chierichetti (anche delle passate generazioni). Se a volte il sincronismo veniva a mancare, immancabile e tempestivo arrivava lo scappellotto del sacrista sulla zucca del ritardatario, rimasto un momento incerto tra le parole cantate e quelle scritte sul cartellone del salmo, stampate a grandi caratteri neri. Lo scappellotto a volte arrivava più sonoro dei rintocchi della campana dell’Ave Maria del mattino, se il malcapitato aveva già avuto qualche difficoltà con il sillabario. Comunque, il servizio al vespro, diceva il Parroco, non poteva essere retribuito, perché neanche lui era retribuito per tale funzione della domenica pomeriggio. Così pure la processione funebre non doveva essere retribuita, perché doveva essere offerta in suffragio dell’estinto. La sepoltura era una funzione a cui tutta la comunità parrocchiale era tenuta moralmente a presenziare. Ma la morale, come si sa, è sempre molto elastica, per cui l’affluenza della gente era anche molto variabile, ma non doveva variare quella dei chierichetti, se non per gravi motivi.
A quei tempi i feretri erano portati a spalla dalla chiesa al cimitero, percorrendo la stretta e tortuosa Via Fontana, che d’inverno sovente veniva usata per il trasporto su slitta, ma anche per divertimento – naturalmente disapprovato in vari modi dai residenti – dei soliti spericolati discesisti su slitta, paurosi dell’acqua allo stato liquido, ma non solido, incuranti di mettere a rischio la loro e l’altrui incolumità. La via, quindi, a volte diventava una lastra di ghiaccio. Ma il rischio più grosso lo potevano correre i portantini. Bastava, infatti, che uno dei quattro scivolasse, gli altri tre lo avrebbero seguito, trascinati e travolti dalla bara sfuggita al loro controllo. Così, il rito funebre poteva trasformarsi in una tragicommedia, con i parenti in lacrime costretti a rincorrere il feretro, che scivolando avrebbe potuto travolgere parroco e chierichetti.
Non è certo che un fatto del genere sia mai accaduto, ma qualche residente di Via Fontana affermava che sì: forse, solo per scoraggiare o responsabilizzare quegli incorreggibili scavezzacolli, che preferivano percorrere quella via non da pretini seriosi, ma da spericolati e vocianti discesisti su slitta.
Altre processioni impegnative erano le quattro Rogazioni – con direzione i punti cardinali – che non venivano retribuite, perché, come ci spiegava il parroco, erano fatte a scopo penitenziale e di propiziazione di piogge giuste, mandate a tempo debito dal buon Dio, per avere buoni raccolti, nell’interesse delle nostre famiglie e non suo. Erano cantate dall’inizio alla fine in latino (sempre rigorosamente maccheronico e con qualche variante spiritosa o dissacrante di qualche burlone) con una lunga sequela di invocazioni e litanie di Santi, molti dei quali non figuravano neppure sul calendario di Frate Indovino, precursore del col. Bernacca, capostipite dei moderni metereologi. A volte, però, capitava che Giove Pluvio – forse offeso per non essere stato invocato anche lui – facesse venir giù una bella acquata improvvisa, tutt’altro che opportuna, accettata, però, dai rogazionisti con penitenziale rassegnazione, onde evitare eventuali ripensamenti dall’Alto. Ricordo che l’invocazione A fulgure et tempestate libera nos Domine era sempre quella più accorata e fatta con più alta intensità di voce – non ostante la lunga salita – quando si arrivava nei pressi della cappella di San Grato, protettore dei raccolti e degli agricoltori.
Sulla facciata della cappella e sulla pala dell’altare è raffigurato il Santo Vescovo di Aosta nell’atto di convogliare in un pozzo una violenta grandinata, mentre tiene con una mano il diavolo alla catena e con l’altra regge su un vassoio la testa (recuperata dal pozzo) di San Giovanni Battista, fatto imprigionare e poi decapitare da Erode per esaudire il desiderio della figlia di Erodiade, la bella Salomé, che ballando con seducenti e lascive movenze, aveva entusiasmato il patrigno, che era stato redarguito duramente e pubblicamente dal Battista per essersi preso la moglie del fratello.
Per la cronaca: ora il grande quadro è stato sostituito da una fedele riproduzione, perché l’originale è stato vandalizzato, forse, da qualche ragazzino “iconoclasta” (non so di quale generazione), che voleva colpire a sassate, magari a fin di bene, solo il diavolo (rimasto incolume). L’inchiesta non approdò a nulla.
Oggi il rito delle Rogazioni è caduto in disuso, ma meriterebbe di essere reintrodotto con la sola invocazione “A peste, fame et bello, libera nos Domine” da ripetersi dall’inizio alla fine della processione, visto che in questi ultimi tempi stiamo assistendo allo scatenarsi continuo della natura (inondazioni, terremoti, tsunami) e della cattiveria umana, come se il maligno fosse sfuggito alla catena di San Grato.
Un altro insuccesso “sindacale” della categoria chierichetti si verificava puntualmente ogni anno a luglio con la solenne e molto partecipata processione alla chiesetta di Sant’Anna, costruita nel 1763 in stile barocco francese e a mille metri d’altitudine, quando la Francia innalzava ancora cattedrali stupende e non i patiboli della ghigliottina in onore della Ragione, la dea una e trina nelle ”persone” della Libertà, Legalità e Fraternità, ignorando che la Seconda Persona della Divina Trinità, per averle predicate diciassette secoli prima, era finita sul patibolo della Croce, perché con quelle tre parole avrebbe potuto abbattere il dio Potere, da sempre il più venerato.
Alla fine, anche quelle tre sublimi parole furono ghigliottinate in nome della dea Giustizia, rappresentata dall’iconografia con la bilancia in mano (spesse volte truccata).
Pure quella processione, ci spiegava il parroco, doveva essere fatta da noi inservienti gratis et amore della Nonna di Gesù, la seconda patrona della nostra parrocchia, già dedicata nel 1848 alla S.S.Trinità, con lo scopo di assicurarle dal Cielo (da tutte e tre le Persone Divine) il massimo di protezione e di aiuto, tenuto conto che la vita di montagna a quei tempi era molto grama e precaria. Comunque sia, la vecchia mulattiera che portava alla chiesetta di Sant’ Anna era ancora più lunga e più erta di quella che potava alla cappella di San Grato, ma anche più dura da percorrere, nel mese di luglio, specialmente per noi chierichetti, in cota nera e rocchetto bianco, con in testa quello che a turno portava la croce e doveva pure cantare e pregare senza sosta, sospirando la fermata di rito, a metà del percorso, davanti al pilone dedicato alla Madonna del Monte Regale. Una volta arrivati alla meta, dovevamo ancora servire la messa, ascoltare la predica (per l’occasione anche più lunga del solito) da in piedi, perché le poche panche erano occupate dalle persone più anziane, aventi più diritto e necessità di noi. Intanto a noi chierichetti era passata anche la voglia di ridere e di scherzare, come ci capitava durante le funzioni, non ostante gli immancabili scappellotti che risuonavano sulle nostre zucche (ancora semivuote) da parte di Tunìn, espertissimo campanaro, che, con certi rintocchi della campana dell’Ave Maria, faceva capire di chi era la passò, cioè se era passata ad altra vita l’anima di una donna o di un uomo. Ai funerali, poi, riusciva a suonare da solo tre campane contemporaneamente, passando dall’una all’altra corda in movimento, come Tarzan faceva con le liane. Ma il meglio di sé lo dava alle feste solenni, quando suonava, come nessuno sapeva fare, la budütta, un allegro motivetto, sovente variato dal suo estro musicale (da giovane aveva suonato la tromba in una banda), battendo le mani su tre tavolette, collegate con fili di ferro al batacchio di tre campane, diverse per dimensioni e suono. A volte permetteva a qualcuno di noi (per premio) di assistere all’esecuzione del suo concertino, che la nostra maestra chiamava “tribaldina”. Questo termine – mai trovato in nessun vocabolario di lingua italiana, forse, perché scomparso insieme ad essa –, quando mi frulla in testa, ha sempre il potere di richiamare, magicamente, agli orecchi della mia mente, il coro delle voci argentine e saltellanti di gioia del trio campanario. Quando poi dal venerdì alla domenica della Settimana Santa le campane dovevano tacere per non disturbare Colui che doveva risorgere, Tunìn faceva il giro del paese per annunziare le funzioni di quei tre giorni, azionando la tařavela (crepitacolo), una tavola simile ad un tagliere, fatta per produrre un rumore sgradevolmente crepitante, facendo battere sulle due facce tondini di ferro, sagomati a rettangolo, mediante movimenti rotatori impressi con forza alla tavola con due mani.
La tařavela da molti anni non viene più usata nella Settimana Santa. Presto sparirà anche dalla memoria di chi l’ha sentita crepitare e magari sparirà anche dal vocabolario piemontese assieme al suo significato figurato, riferito ad una donna un po’ troppo ciarliera, che usa la lingua senza riflettere, come la tařavela che Tunìn, a dire il vero, non amava troppo “suonare”, sicuramente perché mortificava la sua professionalità campanara. Su nostra richiesta, a volte, l’affidava alle nostre deboli mani e gracili braccia, ma con scarsi risultati. Allora la riprendeva lui, e la sbattacchiava con forza quasi rabbiosa, senza più aspirare dalla cicca di trinciato, che teneva pendente e spenta all’angolo della bocca sdentata (troppo lontano il dentista e troppo caro).
Non ostante le nostre “paghe” restassero sempre inchiodate al “minimo sindacale” e alla sola messa, granda o bassa che fosse, non abbiamo mai pensato lontanamente di fare sciopero: non conoscevamo neppure la parola. Anzi, facevamo a gara a chi arrivava prima a toccare la porta della sacrestia per avere diritto a servire messa. A volte, però, sul traguardo sorgevano dispute, che neppure il sacrista con il suo arbitrato riusciva a sedare. Allora per evitare discussioni, che rischiavano a volte di far ritardare la messa e per evitare a quelli che avevano il sonno più duro di non arrivare mai a toccare per primi il traguardo, il parroco, d’accordo con Tunìn, decise di fare i turni. Le dispute finirono, però, diminuì anche il numero dei ragazzini presenti alla messa mattutina dei giorni feriali.
Ma la funzione che non è mai stata oggetto di rivendicazioni “salariali”, era quella del Venerdì Santo, il giorno delle Tnebře (Tenebre), che a noi ragazzini piaceva tanto per ciò che capitava appena il campanone aveva dato i trai bot, le tre del pomeriggio. Era l’ora in cui Gesù aveva esalato l’ultimo respiro sulla Croce, mentre le tenebre, simili a quelle della notte, erano calate sulla terra, il velo del tempio di Gerusalemme si era squarciato a metà e un tuono, mai udito prima, aveva fatto tremare il mondo dalle fondamenta. Era iniziata una nuova era: quella del dopo Cristo, quella in cui viviamo da oltre duemila anni, mentre le altre ere, iniziate nel sangue, sono finite nel sangue. A ricordo di quel giorno e di quell’ora, ai più giovani era dato il compito di riprodurre, in qualsiasi modo, il terremoto – quello che seguì l’esalazione dell’ultimo respiro del Dio fattosi uomo per amore della sua più bella e imprevedibile creatura terrena, dotata di libero arbitrio (libertà di scelta) nell’uso della ragione, degli istinti, dei talenti, della coscienza e dei sentimenti, concessi in misura diversa e imponderabile – all’ordine di Fuarsa Giüdé ! (Forza Giudei!) impartito a gran voce da Tunìn, poco prima di andare ad attaccarsi alla corda del campanone. Allora in chiesa calavano le tnebře (si spegnevano le luminarie, i lüstr) e contemporaneamente iniziava la čabra: un pandemonio infernale prodotto con ogni sorta di strumenti a fiato e a percussione, tale da superare in decibel la più sfrenata delle corride televisive. Terminava solo quando il fiato e le forze si erano esaurite e qualche zoccolo era andato in frantumi. Le pie donne, intanto, erano uscite in anticipo dalla chiesa per salvare timpani o forse per segreta disapprovazione, che però è mai arrivata dalle autorità ecclesiastiche.
Poi, anche questa particolare “liturgia” è caduta in disuso da molti decenni.
Certe tradizioni, comunque, anche se vivono solo più nella memoria di qualcuno, vanno rispettate e onorate al pari dei nostri antenati, perché da esse sale la linfa che nutre il nostro presente, il nostro essere individuale e collettivo. Non sono, dunque, un pattume del passato da non rimestare o da buttare, perché, nella storia del genere umano, il nuovo è sempre stato generato dal vecchio, come succede nella formazione dei coralli. Musei e monumenti, infatti, sono stati inventati dall’uomo per ricordare a se stesso ciò che è stato, per prendere coscienza del presente e per progettare il futuro.
Rifugiarsi, a volte, nel museo della propria memoria (magari nell’ angolino riservato all’ infanzia “ancor se triste”) è un ottimo espediente per non guardare al presente che ci opprime o al futuro che ci angoscia, mentre per i poeti diventa una fonte d’ ispirazione.
In fin dei conti, la čabra era una “sacrosanta diavoleria”, concessa ai più giovani, da chissà quante generazioni. Era l’atto finale di una funzione che iniziava con la processione sul sagrato, con i chierichetti impegnati a portare in processione i simboli della Passione, tra i quali il gallo in testa (il più ambito e assegnato da Tunìn al più bravo) per ricordare il triplice rinnegamento di Pietro e in coda la borsa dei trenta denari (forse il prezzo di un agnello al tempo di Gesù) per ricordare il tradimento di Giuda. Succedeva che qualcuno la rifiutava o la portava con l’asta sulla spalla (neanche fosse stata una zappa) e a muso lungo per il malumore, che poi sfogava da vero Giüdé con la čabra.
Da molti anni, ormai, anche quella processione del Venerdì Santo sul sagrato della chiesa non si fa più: è sparita con la čabra (capra), forse così chiamata perché il cornuto quadrupede (da noi un tempo il più numeroso) era usato come simbolo del demonio anche dall’iconografia medioevale.
Un’altra tradizione, scomparsa da anni, ma ancora viva ai tempi della mia infanzia, era quella dei Bërligùn: una mascherata notturna fatta nel periodo di Carnevale da esuberanti giovanotti. I quali, sfruttando l’elemento sorpresa, si mettevano a scorazzare per tutto il paese, nelle prime ore della notte, con sonagliere alle caviglie, come tanti scatenati berlicche (diavoli) in libera uscita e saltellanti come se avessero i carboni ardenti sotto i piedi, sempre pronti a fare sberleffi e scherzetti (a volte anche –acci). Quando entravano nelle case, senza chiedere permesso, andavano a bërlicò (piluccare) qualcosa dai piatti di chi cenava o le castagne bianche che borbottavano nella pentola, sempre presente sulla stufa dalla mattina alla sera. L’esultanza luciferina dei Bërligùn arrivava alle stelle, quando da qualche piatto riuscivano a sgraffignare una balüa, una specie ballotta cucinata con carne caprina, fatta affumicare nel condotto del camino per essere conservata e consumata nel periodo di Carnevale. Naturalmente le castagne, le balüe o altre berte (refurtive gattesche) si fermavano, neanche a dirlo, nel gozzo di quegli affamati senza cena e senza educazione, che prontamente dovevano essere soccorsi con un bicchiere di vino: anche se non era quello della festa, poteva andare bene quello del ğön-übřì, quello del giorno lavorativo. (La bizzarra denominazione potrebbe derivare da un ipotetico diurnum oprilem del latino parlato).
Nelle sere dei Bërligùn per la strada centrale del paese e le contrade laterali si trascinavano con difficoltà anche altre due maschere, che facevano gruppo a sé, ma erano mal “sopportate” dagli sfrenati e impertinenti diavolacci. Erano il corpulento e sciancato Carvò (Carnevale) e la macilenta e lunga Cařesma (Quaresima): marito e moglie continuamente in lite per le solite beghe coniugali e, per di più, svillaneggiati dai berlicche, che a volte arrivavano ad essere impudichi, non con la Vecchia, ma con le matütte (signorine), protetti com’erano dal “diritto di consuetudine” in vigore in quel particolare periodo dell’anno. Il Carnevale terminava sul sagrato della chiesa con un grande falò, nel quale veniva bruciato un simulacro impagliato di Carvò, mentre la macilenta e lunga Caresma, con le mani protese verso il marito in fiamme, si struggeva in “sospiri, pianti e alti guai”, portati in cielo dai vortici delle fiamme che illuminavano, per una volta all’anno, i pregevoli affreschi sulla facciata della chiesa.
Poi, anche quei diavoli di Bërligùn sono spariti. Hanno preferito, non si sa per quale ragione, rimanersene al caldo a casa loro, forse perché, ad un certo punto, hanno capito di non essere più competitivi con i loro sosia terrestri (diversamente mascherati), che intanto avevano imparato a farne una più di loro.
Ora non volteggiano più le fiamme del rogo che, rompendo le tenebre nell’ultima sera di Carnevale, esaltavano la Divina Trinità dipinta sulla facciata della chiesa, mentre divoravano Carvò (rimpinzato di paglia) come fosse un eretico e un sedicente frate dell’Ordine degli “Zoccolanti” leggeva, ad alta voce, i capi d’accusa elencati nella sentenza, stilata sul modello (nientemeno) di quelle emesse dal domenicano Tommaso di Torquemada ai tempi della Santa Inquisizione.
Però, anche alcuni dei miei “brigatisti” – che a volte agivano singolarmente o a gruppetti, specialmente nelle operazioni più ad “alto rischio”, per non dare nell’occhio – hanno rischiato di finire processati da un altro tribunale d’inquisizione, quello parrocchiale e poi magari di essere condannati agli “arresti domiciliari” per chissà quanti giorni.
Non avendo l’età per fare i Bërligùn, ma tanta voglia di fare anche loro qualche scherzo da Carnevale, una volta, dopo il rosario della sera in chiesa, invece di ritirarsi prontamente in casa come volevano i genitori, i più scavezzacollo sono andati a farne uno nientemeno che al Parroco. Hanno attaccato un osso alla maniglia del campanello a corda, il quale avrebbe dovuto suonare all’interno della canonica tutte le volte che un cane, randagio e affamato, avesse tentato con un balzo di addentarlo.
Quegli impertinenti e “anticlericali”, però, non sono mai venuti a conoscenza dell’esito della loro “geniale bravata”, né hanno commesso la dabbenaggine di chiedere al Parroco che fine avesse fatto lo stinco (già ben spolpato) di maiale. Per loro fortuna, il tribunale d’ inquisizione parrocchiale non entrò in funzione, grazie alla solidarietà silente di quelli che non avevano partecipato all’impresa, perché altrimenti i ciařaméi (chiacchieroni) sarebbero stati espulsi dalla brigata, né avrebbero avuto la possibilità di passare ad un’altra, dal momento che nel nostro piccolo paese ce n’era solo una e neanche troppo numerosa.

(Continua)

(La) Prea della mia infanzia I. La Prea e l’Ellero

(La) Prea della mia infanzia III. Tra ieri ed oggi