SILVANO GREGOLI
Esilio e spleen
Erano appena passati pochi mesi da quel primo giorno belga (1° febbraio 1967) e già andavo a guardare gli aeroplani.
All’aeroporto di Bruxelles c’era a quei tempi una lunga passerella scoperta – nota come il dito – che si spingeva nel cuore delle piste e che terminava in una grande terrazza all’aperto. Là i visitatori erano talmente vicini agli aerei da poterli quasi toccare. Quando gli aerei in manovra di parcheggio li centravano in pieno con il flusso dei loro reattori, la maggior parte dei visitatori si girava di spalle, ma alcuni habitué, particolarmente intrepidi, affrontavano di faccia quella bufera di pochi secondi con la stessa sovrumana espressione che hanno i passeggeri dell’otto volante nel momento in cui sprofondano nell’abisso.
Molte erano le ragioni per cui quella terrazza era sempre affollata, anche nei giorni di maltempo. Per esempio, se tu accompagnavi qualcuno all’aeroporto e lo abbracciavi e lo baciavi prima che scomparisse all’angolo della dogana, ebbene, a quei tempi la cerimonia degli addii non era ancora finita. Bastava infatti che tu salissi sul dito per ristabilire il contatto. Dal dito vedevi il pulmino che si avviava verso l’aereo. Correndo lungo il dito potevi anche fare segni visibilissimi ai passeggeri. Poi quelli scendevano e lì, tra gli scalini del pulmino e quelli dell’aereo, c’era sempre un gran sventolare di braccia cui facevano eco altrettanti sventolii dal dito e dalla terrazza terminale. I viaggiatori più ostinati continuavano a scambiare col dito segnali impacciati attraverso gli oblò dell’aereo. Dal dito si rispondeva con segnali altrettanto impacciati come se anche lì, sul dito, ci fosse una fila di oblò a mortificare con la loro ristrettezza l’ampiezza del gesto d’addio. Poi, quando l’aereo sfrecciatoti davanti in piena velocità era salpato verso il cielo, molti sul dito continuavano a fissarlo fino a quando veniva inghiottito dall’eterna cupola di nubi informi.
Io sul dito ci andavo verso sera quando dall’aereo dell’Alitalia scendevano gli Italiani. Mi passavano proprio davanti, mi sciamavano sotto, eleganti e abbronzati. Li sentivo lontanissimi quegli Italiani col soprabito inglese sotto braccio e la ventiquattrore nera in mano. Mi legava a quegli Italiani sconosciuti e ammirabili un sentimento di grande complessità dove non c’era solo ammirazione, invidia e una punta di autocompatimento. C’era in tutto quel trasporto una netta componente feticista centrata sulla ventiquattrore nera. La sentivo con gli occhi la morbidezza della pelle e, sempre con gli occhi, immaginavo lo scatto, ovattato e sensuale, delle due serrature di ottone.
C’era molta speranza e una punta di determinazione. La sentivo come una cosa a venire, inevitabile, quella ventiquattrore nera in mano mia, e mi vedevo scendere, soprabito inglese sotto il braccio, dalla scaletta di un aereo esotico sulla pista perfetta di una grande città del Grande Nord, di quel Nord affascinante a cui attribuivo tutte le perfezioni sociali, geografiche e climatiche e che, vivendo in Belgio, avevo appena sfiorato.
E così fu. O almeno così fu in parte perché sul formulario che stavo compilando con religiosa scrupolosità, al capitolo “Luogo della missione” c’era scritto: “Zurigo”.
Vista da Bruxelles, Zurigo non era certo il Grande Nord. Anzi, sarebbe bastato un minimo di obiettività per definirlo, se non proprio il Grande Sud, almeno il Sud. Eppure Zurigo evocava in me, al di là dell’efficientismo svizzero-tedesco tipico dei paesi nordici, anche una certa glaciale solennità. Vedevo a Zurigo grandi vialoni ghiacciati con candidi alberi irrigiditi dalla galaverna. Vedevo comignoli rivestiti di ceramiche azzurrine fumare tenuemente. Vedevo bambinelli biondi con vestiti colorati di lana grezza, preziosamente filata a mano, con guance soavi e occhi trasparenti, così diversi da quei mostriciattoli sporchi e infingardi che scendevano giù dalle Ripe seguendo il capo: il più nero, il più maligno, il più lesto, il più perfido, il più bacato. E poi vedevo ragazzine diafane con occhi sorridenti e capelli luminosi. Le vedevo sempre in controluce sì che, a pensarci bene, quell’immagine si confondeva quasi totalmente col primo archetipo “Madonna”, mentre si staccava in maniera clamorosa dal secondo archetipo “mamma”, più vicino, formalmente, alla ragazza grassoccia, pelosa, inguainata, vergine e truffaldina che popolava e ancora popola le nostre contrade.
Battesimo dell’aria
Così dunque, una sera d’ottobre, una ventiquattrore nera in mano, disdegnata la scala di pietra che portava al dito, m’infilai deciso nella strettoia dogana-controllo passaporti.
Al di là di quella strettoia mi aspettava il dito visto da fuori e nero di gente. Ebbene, nonostante l’inversione di prospettiva, quella lunga passerella sovraccarica di individui mobili e eccitati mi lasciava quasi totalmente indifferente. Scoprivo con stupore che gli uomini-aeroplano, a cui appartenevo ormai di diritto, che “i passeggeri” come sono comunemente chiamati quasi a sottolineare una loro caratteristica disponibilità al movimento, una loro intrinseca, aerea leggerezza, guardassero appena il dito. Mi sembrava adesso che i rari gesti scambiati col dito fossero in realtà dei generici segnali d’ansia perché infatti per noi passeggeri non c’era più soccorso. Avremmo potuto, certo, invertire la marcia e, correndo, aggrapparci a quel dito di cemento radicato nella roccia. Ma in realtà, caracollando tutti insieme senza parlare, la gola secca e le mani sudate, ci avvicinavamo inesorabilmente alla ventosa scaletta che scompariva oscillando nella pancia di quell’aereo oggetto, alto, fremente, e tutto scintillante di luminosità crepuscolari.
L’interno del Caravelle mi apparve subito terrificante. Per fortuna in quegli attimi interminabili che precedettero il decollo, popolati di tonfi e suoni lontani, avevo a portata di mano una valvolina d’aria, alta sulla mia fronte, tutta per me. Quella provvidenziale valvolina ossessivamente aperta, chiusa, socchiusa e orientata, era veramente l’ultima mammella di un mondo terrestre ormai lontano. Per lunghissimi minuti quell’aria che usciva in un getto ampio o filiforme, che mi asciugava il sudore del viso o delle mani, che mi rinfrancava o che irritava il vicino, fu per me e per molti di noi passeggeri il punto focale di ogni attività cerebrale ed emotiva. Poi, con un grande scrollone e con una decisione senza ripensamenti fummo trasferiti in uno spazio trasparente al di là delle nubi.
Ecco: quello era volare. Un altro passo di una tortuosa marcia che, attraverso Zurigo, mi avrebbe portato qui, contro questo muro fiammingo, era stato compiuto.
Alla ricerca di un letto
Zurigo, la città perfetta, regolata da un meccanismo di altissima precisione. L’aeroporto di Zurigo, un atterraggio soave, la dogana dell’aeroporto e, al di là della dogana, il luminoso Ufficio Informazioni. In questo ufficio tre signorine in uniforme ciclamino attendevano sorridenti noi passeggeri.
Da questa gran distanza, il ricordo di quella notte mi affiora spezzato come un sogno tenace, cento volte interrotto e cento volte ripreso. Ma l’ordito del sogno e il canovaccio della realtà si sono ormai intimamente ingarbugliati e confusi. La rivedo infatti quella signorina svizzera a cui esposi la mia richiesta in una lingua che non ricordo. La vedo così reale che sono indotto a diffidarne. La vedo senza dubbio sorpresa dalla mia richiesta: desideravo semplicemente “una camera d’albergo confortevole, non troppo cara e nelle immediate vicinanze del n. 21 della Niederhofstrasse”. E vedo l’occhio dapprima aggrottato farsi pensoso, e via via col continuo scuotere dei lunghi capelli dirmi, molto più chiaramente delle parole incomprese, che di camere d’albergo libere, in Zurigo, alle undici e mezzo di sera, con tre congressi in città, non ne avrei trovata nessuna e che non avrei trovato niente, assolutamente niente, nemmeno fuori città, in un raggio di 50 Km.
Cinquanta chilometri! Ma in che lingua mi giunge ora, da così lontano, quella sentenza inappellabile, secca come una frustata? Mentre uscivo dall’aeroporto di Zurigo, mentre mi avviavo sul piazzale dove stazionavano diversi taxi, riandavo col pensiero a situazioni passate, ben più difficili, tutte risolte con baldanzosa facilità. «Forza roccia!» dissi tra me e me entrando nel primo taxi libero, e sopraffatto da un fiotto d’ottimismo mostrai subito all’autista l’indirizzo. Quello mi fece un gesto d’intesa, diede un colpetto lieve ma deciso alla leva del tassametro e si allontanò dall’aeroporto con larghe curve maestose.
Stavo entrando nel cuore di Zurigo. Ero molto stanco per via delle passate ore di tensione, ma ora grazie alla morbidezza del cuoio cominciavo veramente a rilassarmi e quasi a addormentarmi. Prima però ebbi ancora il tempo di far capire all’autista che non era esattamente al n. 21 nella Niederhofstrasse che dovevo andare, ma che mi affidavo alla sua grande conoscenza della città per trovarmi una camera d’albergo libera e non troppo cara nelle vicinanze di quell’indirizzo.
Non ebbi modo di analizzare la complessa reazione dell’autista per via della gran fatica.
A questo punto il ricordo si fa straordinariamente insidioso. Per esempio, tra la partenza del taxi e il suo primo arresto, li avrò visti davvero quegli enormi vialoni notturni, quelle case colorate, quella nave fantastica in mezzo al lago, quelle vetrine scintillanti e tutte quelle meravigliose facce di passanti sereni e sorridenti?
Di certo ora c’è la fermata, il tassista che mi fa cenni; forse mi ha anche dato una scrollatina. E poi rivedo con straordinaria nettezza la facciata del primo albergo, con grandi vasi di pietra fuori della porta e sento l’aria fresca irrompere nel sogno e vedo il portiere dell’albergo scuotere la testa: «No, non c’è niente di libero qua. No, le ho già detto di no! No, nein, nix, nicht, raus!».
Fuori, il tassista mi aspetta, ha già capito, riparte macchinalmente… E di nuovo il fruscio del motore, e il ticchettio discreto del tassametro, e quel senso di pace come solo si prova sul sedile posteriore di una vecchia Mercedes quando si è stremati, quando l’autista ha un’aria rassicurante, quando è notte fonda e quando si sente che quello straordinario benessere durerà solo pochi minuti.
Ecco infatti la seconda fermata, la seconda scrollatina, la seconda folata d’aria e il secondo albergo. Maestoso questo, grande scalone tutto luci con un portiere italiano che mi dice: «No, niente, assolutamente niente. Ma come, lei non ha prenotato? No? Con tre congressi in città? Guardi, lei non troverà niente, assolutamente niente, nemmeno fuori città, nemmeno in un raggio di cinquanta chilometri!»
Avanti, trotterellando verso il buio della Mercedes. Il ticchettio del tassametro ora si sente fin da fuori per via della porta rimasta aperta. All’interno, la ventiquattrore nera si è trasformata in un solido cuscino. Mi pare di capire che l’autista parli e parli; e mentre lui parla, al di là dei vetri, Zurigo, la città perfetta, scivola e risplende silenziosamente.
Ecco la terza fermata (ma non sarà poi la quarta, o la quinta?) e la solita zaffata d’aria, sempre più gelida. Questo albergo è una modesta pensione ricoperta di legno, a gestione famigliare. «Datemi un letto, gentile Signora Svizzera. Possibile che in una città come questa non ci sia un letto?».
«Nein, nichts, nix Zimmer!»
Comincio a capirlo il tedesco. A una certa ora della notte, quando il sonno è diventato talmente profondo che puoi spalancare gli occhi, e camminare, e discutere senza disturbarlo, il centro cerebrale del linguaggio, sezione lingue straniere, viene stimolato da un’onda sconosciuta. Si capisce tutto. È certo infatti che quando entrai nel taxi e il tassista si voltò e, senza mettere in moto, mi parlò a lungo, io, finalmente, capii tutto.
Mentre il tassametro picchiava e quello parlava, io capivo che mi restava una sola possibilità, che lui mi ci avrebbe portato, certo, ma che era dall’altra parte della città, e che in ogni caso doveva avere il mio accordo. Parlando mi squadrava da capo a piedi e lo sguardo si soffermava sulla ventiquattrore nera, nuova fiammante, con le sue splendide serrature bronzee, efficienti e silenziose come le mascelle di due pastori tedeschi. Insisteva che la decisione doveva venire da me e che dovevo riflettere prima di dire di sì, vinto dal sonno. Questo lo ricordo benissimo e lo vedo, il tassista, cullato dal tassametro, serio, quasi severo, in attesa. No, forse non avevo capito la sintassi e le arcane costruzioni di quella lingua notturna, ma avevo capito che quel tassista era il chirurgo e io il malato. E il chirurgo mi parlava di un’unica possibilità, estrema, che non c’era altro, che era l’ultima spiaggia.
«Ma sì, certo, cosa aspetti?» gli risposi in una lingua ancestrale, somma di tutte le lingue del mondo. E il taxi partì veloce per l’ultima corsa notturna.
L’Esercito della Salvezza
Amici miei lontani, e voi, casette fiamminghe di mattoni scuri alla cui vista mi sono infine rassegnato; e voi ancora che dietro alle mie spalle, al di là di questo muro, avete sovente ingarbugliato le vostre storie con le mie, accompagnatemi nella discesa agli inferi. Facciamola insieme quella lunga corsa attraverso la città perfetta, col tassametro che batte indiavolato, con l’autista che accompagna le curve con leggeri piegamenti di testa, con la ventiquattrore nera che manda fuggevoli barbagli. Ecco, vedete che non è un sogno? Attraverso il finestrino mi pare proprio di aver letto Niederhofstrasse. Una strada magnifica, soffusa di una tenue luce lunare. Il n. 21, un portone monumentale inquadrato da due massicci lampioni, mi è sfrecciato davanti in questo momento.
È struggente la bellezza di questa città che avrei voluto possedere, la mia prima notte di missione all’estero. Ma il taxi fila via veloce, e già le strade si fan più scure e le case più melanconiche e le siepi più arruffate.
Dobbiamo essere arrivati, non si sente più niente. Il tassametro tace, ormai lontano, appagato. Davanti a me c’è un gran portone ovale di lamiera ondulata illuminato da due lampadine. Nel portone si apre una brutta porticina e al di là di quella porticina una signora dagli occhi di lucertola mi tende un asciugamano, un pezzo di sapone e un boccettino di shampoo contro i pidocchi. «La valigetta può lasciarla qui; la ritirerà dopo la doccia».
Ma sì, prendila! Prendila questa mia ventiquattrore nuova fiammante, col biglietto aereo andata e ritorno, col programma della riunione che sta per cominciare fra poche ore al 21 della Niederhofstrasse, col benvenuto del Rettore e l’invito al banchetto. Appoggiala là, su quei borsoni, su quei tasconi, su quelle bisacce. E tu, corridoio verde, avanti: portami ai lavatoi!
Lo shampoo contro i pidocchi sprigiona un’infernale puzza di zolfo. Ne avevo proprio bisogno: il profumo francese “for men” che avevo appena comprato al Tax Free Shop dell’aeroporto di Bruxelles cominciava a stomacarmi. Ecco: vedete? Non ho più pidocchi. Ora posso entrare, ora sono ammesso al dormitorio principale dell’Esercito della Salvezza di Zurigo, ultima spiaggia di un’umanità vagabonda e derelitta. Ah, ah! Che fortuna ho avuto a non prenotare l’albergo! Sono sveglio, sono vivo, sono fresco, non ho più il minimo parassita e esalo un sottile profumo luciferino. Ho ritrovato i miei vestiti, il mio passo elastico e la mia valigetta che ora compie al mio braccio complicate evoluzioni.
Il dormitorio è sicuramente alla fine del corridoio. Attraverso la porta socchiusa fuoriesce infatti il tipico frastuono dei dormitori principali degli Eserciti della Salvezza di tutto il mondo.
Sono nel cuore di un immenso capannone: una stazione abbandonata? un mercato coperto riadattato? un hangar per aerei transcontinentali? Il soffitto a botte, altissimo, è costruito con elementi opachi e trasparenti, alternati. Le stanze, senza soffitto, sono ricavate con divisori mobili di legno e plastica, alti circa lm80, spessi due centimetri e risonanti come pelle di tamburo. Migliaia di passeri sciamano stridendo attraverso le fessure dei lucernari verso innumerevoli nidi ricavati negli incavi della volta.
Deve essere magnifico questo dormitorio visto a volo d’uccello. Deve apparire come un cruciverba o come uno di quei labirinti stampati su riviste enigmistiche.
Davanti alla mia stanza, così come davanti a tutte, sfila, in un incessante andirivieni, l’Anti Zurigo. Tutti gli esemplari più bislacchi di una fauna lunatica e sfilacciata, tutte le macchie della città perfetta sono state concentrate qui. Il Grande Amministratore provvede a tutto.
Ora mi viene in mente una delle tante storielle cuneesi, della Cuneo ai tempi dei Savoia, con Torino capitale, tutta pizzi e carrozze e una Cuneo montanara, tutta gozzi e zoccoli. E il sindaco di Cuneo eternamente in agitazione per una prossima visita del Re d’Italia di passaggio verso i suoi territori di caccia. E la vergogna di presentare a Sua Maestà e alla sua corte imparruccata quel migliaio di storpi, di gobbi e di gozzuti. E allora il solito viaggio-lampo a Torino per prendere in prestito, all’insaputa del Re, qualche migliaio di Torinesi con le loro dame e le loro carrozze, e chiudere i Cuneesi in cantina e così, il giorno della visita del Re, questi mormora all’orecchio del sindaco esultante: «Ma che bella gente! Complimenti Signor Sindaco! Certo che ne avete fatta della strada voi di Cuneo! E che belle carrozze!»
Ma ecco che dalle finestrelle dei seminterrati giungono, portati dal vento, crescentimugolii, e mani deformi si protendono e spazzano l’aria, e immensi gozzi appaiono alle inferriate al grido «Ai soma peu ‘d cò noi!» «Ci siamo anche noi, Maestà; per carità non ci dimentichi, fa piacere anche a noi ricevere un po’ di complimenti dal nostro Re…»
Così mi viene il dubbio che la vera Zurigo sia proprio questa, in questo capannone. Che sia stata chiusa lì dal Grande Amministratore per presentare ai turisti di passaggio una città perfetta, popolata di personaggi sorridenti, ma irreali ed effimeri come ologrammi.
Poco fa è arrivata una banda musicale al gran completo, completamente ubriaca, travolgente, e lo spazio sonoro del capannone è stato sconquassato da ciclopici Bum! Pa! Bum! Pa! e da squilli di numerose trombette sfasate.
È proprio una gran festa quella che ci viene offerta stanotte dall’Esercito della Salvezza di Zurigo. E certo non fu un caso se tutto ciò avvenne pochi minuti prima delle sei del mattino. Perché alle sei in punto del mattino, dai due campanili della mastodontica cattedrale gotica addossata al dormitorio, otto possenti campanoni, mossi da otto enormi funi d’acciaio si misero a sventolare col fragore dell’uragano: Dooon! Dooon! Dooon! Dooon!… Ecco il gran finale, l’apoteosi, l’inno alla gioia! «Ricordati – dicevano – ricordati di questa fantastica notte! Non lasciarla svanire!»
Avvenne a Zurigo, una notte di ottobre. Quello sventolio di campane mi accompagnò a lungo, fino all’arrivo di un autobus giallo che in venti minuti mi condusse a pochi passi dal n. 21 della Niederhofstrasse, ancora silenziosa sotto le stelle.
***
ADDENDUM
Lo scritto precedente ha debitamente illustrato come è si è svolta la mia prima notte di “missione” a Zurigo.
Mi accorgo adesso che sarebbe opportuno illustrare anche la seconda.
Dopo la mia prima notte a Zurigo, passata nei soccorrevoli locali dell’Esercito della Salvezza, verso le otto di mattina raggiungo finalmente il numero 21 della Niederhofstrasse dove stava per iniziare la settimana di formazione allo Spettrometro di Electron Spin Resonance della ditta Varian di Zurigo.
Iscrizione. Incontro con altri partecipanti tra cui, unica donna, una ragazza italiana di Roma. Discussione con gli organizzatori su come trovare, per me, una stanza d’affitto per il resto della settimana. Detto fatto. Poche telefonate ed ecco nome e indirizzo di una modesta affittacamere nei paraggi. Nell’ora di pranzo, incontro con l’affittacamere, pagamento anticipato dell’intera settimana e consegna della chiave.
Uffa! Avevo finalmente un letto! La sera, con un gruppetto di neo-colleghi, tra cui la ragazza italiana, decidiamo di passare una serata nei locali della famosa Langstrasse. Si fanno le ore piccole, si mangiano salsicciotti arrostiti molto gustosi, si fanno quattro salti di danze tirolesi, si beve molta birra, poi si rientra. In taxi, in quattro: io, la romana, un francese e un olandese.
Deponiamo prima la romana all’ingresso del suo albergo (lei lo aveva prenotato un mese prima), poi ci dirigiamo verso l’albergo dell’olandese, prenotato pure lui. Ma non ci arriviamo perché costui vomita nel taxi. Il tassista, furibondo, comincia a sbraitare in tedesco che vuole
«Mille Franchi Svizzeri» per danni e perdita di lavoro. L’olandese, per terra fuori del taxi, continua a vomitare, poco implicato nella discussione.
Il tassista telefona alla polizia. Arriva una camionetta con due poliziotti. Ci parlano in inglese-tedesco, ci chiedono diverse cose… chissà? Poi cercano di parlare con l’olandese coricato per terra che ride, vomita, ride e fa dei gesti poco fraterni al loro riguardo. I due poliziotti lo strattonano, lo girano come un sacco, vogliono da lui «Mille Franchi Svizzeri», poi uno dei due comincia a prenderlo a calci. Di intensità crescente. Io e il francese, parzialmente alcolizzati, ci guardiamo e spinti da un insopprimibile gesto di fratellanza saltiamo addosso al poliziotto. Il francese gli sta sulla schiena e gli stringe il collo, io gli prendo un braccio e glielo torco dietro la schiena. Il militare ci scrolla via entrambi come due mosche e sbraita nel suo telefono d’ordinanza. Tempo un minuto e arriva una camionetta con altri quattro agenti della Polizei. Senza tante cerimonie ci imbarcano entrambi sul furgone cellulare. Perdiamo di vista l’olandese più di là che di qua.
Posto di polizia. Documenti di identità. Ci chiudono in due celle separate in attesa del commissario. Il commissario arriva in piena notte, tutto assonnato. Comincia a interrogare me.
«Cosa ci fate a Zurigo?»
«Vuole che le racconti cosa facciamo a Zurigo in due parole o nei dettagli?»
«Nei dettagli.»
«Gli atomi – gli dico – sono costituiti da un nucleo massiccio intorno a cui orbitano gli elettroni.» Mentre parlo, l’assistente del Commissario prende nota per il verbale. «Gli elettroni sono tutti dotati di uno spin. Noi studiamo gli spin degli elettroni, e a Zurigo c’è una multinazionale che vende degli strumenti che se ne occupano. Gli spin possono essere di due tipi: spin up e spin down, retti dalla statistica di Maxwell.»
«Ma cosa mi sta raccontando!» mi urla in inglese il Commissario.
«Ma è lei che ha voluto che le raccontassi nei dettagli!»
Di nuovo in cella.
Passano tre o quattro ore di sonnolenza sulla panca di ordinanza. Poi, finalmente, all’alba, un poliziotto mi apre, mi restituisce i documenti e mi sbatte via dal commissariato in malo modo. Nessuna conseguenza penale. Probabilmente qualcuno aveva telefonato alla Varian e avevano capito che noi eravamo li per acquistare, per conto delle nostre istituzioni, quei costosissimi Spettrometri e che forse era meglio chiuderla lì. Chissà cosa hanno scritto sul verbale? Spin up e spin down? Forse solo che due giovanotti avvinazzati si erano lasciati trasportare… Forse solo che l’olandese aveva, alla fine, sganciato i Mille Franchi Svizzeri?
Questa è la storia, succinta, della mia seconda “notte di missione” a Zurigo. Non meno avventurosa della prima. Appena un po’ più squallida.
Ci è andata bene. Molto bene. Avrebbero potuto farcela pagar cara. Siamo stati salvati dallo spin degli elettroni e dai Franchi Svizzeri.
Le notti seguenti furono finalmente tranquille nel letto poco comodo dell’affittacamere. Morale della favola: quando ti sposti in aereo da una città all’altra “per lavoro” e atterri in tarda serata nella città di destinazione con soprabito inglese sotto braccio e una ventiquattrore di pelle nera in mano, è sempre meglio aver prenotato una camera d’albergo.
***
SECONDO ADDENDUM
A Zurigo, nel 1967, tutte le scritte rivolte ai passeggeri di mezzi pubblici erano scritte nelle tre lingue della Confederazione Svizzera: tedesco, francese e italiano.
Solo una era scritta in una sola lingua: VIETATO SPUTARE PER TERRA.
(Racconto pubblicato in: E laggiù, Mondovì, Ed. Il Belvedere, Mondovì 1990 (esaurito). Qui rivisitato e aggiornato)
QUI la versione francese
QUI la recensione di Gabriella Mongardi