Dalla postfazione di Mauro Ferrari
La raccolta di Silvano Trevisani si impone all’attenzione critica per almeno due motivi: da un lato mantiene viva la memoria di un poeta autentico come fu il tarantino Pasquale Pinto, “uomo città” (p. 50), acclamato da grandi nomi (e definito forse riduttivamente “poeta-operaio”) ma caduto poi in un ingiusto oblio – e di cui Trevisani fu amico e sodale – ma dall’altro, innegabilmente, mostra interessanti caratteristiche espressive e spunti tematici di attualità. Vero, la poesia, che secondo il mito nasce dall’azione della memoria, ha il compito di scrivere “ciò che resta”, nella lapidaria frase di Hölderlin: ciò che resiste al tempo più del bronzo, ma anche ciò che resta da dire dopo: quando la memoria si è spenta, quando tutto è stato detto, quando ciò che va ancora detto pesa come un macigno. Trevisani rincorre l’ombra dell’amico “scomparso alla città d’acciaio”, in cui l’acciaio è il riferimento concreto all’ILVA di Taranto, ma rimanda anche alla durezza e freddezza morale di una certa idea di modernità; la sua è una ricerca incessante delle tracce, sull’onda del ricordo: nella propria memoria, con vivide pennellate poetiche che sanno di tributo all’uomo oltre che al poeta; nelle figure e nei luoghi che egli frequentò; soprattutto (ed è ciò che vale di più), Trevisani riporta a galla l’umanità di Pinto, i problemi lavorativi e sociali che visse. Perché la poesia, piaccia o non piaccia alle anime belle, è sempre politica, anche solo implicitamente: tiene a galla i valori umani, scrive di una comunità, rifugge (no, anzi: deve o dovrebbe) dalle esternazioni sentimentali di un Io malato di protagonismo, che meno ha da dire e più parla e scrive. Ciò che non resta. In questi versi di minimale scarto dal parlato (il che vale soprattutto per la prima sezione, quella portante), che volutamente non esibiscono alcuna concessione alla melopea e alla regolarità tradizionale, Trevisani mostra come i problemi che cita e che travalicano l’aspetto economico e politico non siano stati risolti e quindi non vadano dimenticati, così come la figura di Pinto, che ne ha parlato e scritto: poesia appunto come memoria, al lavoro per mantenerci vivi e (un poco più) sani. Anche la seconda sezione, che non è un mero addendum o un riempitivo, concorre alla riuscita della raccolta: le voci emarginate delle figure che tutti noi vediamo nei contesti metropolitani vanno a creare un coro ideale che il destino comune affratella a Pinto, ma in fondo a tutti noi perché noi “siamo parte dell’umanità”; anche qui, sono voci e figure da non dimenticare e che ci ricordano, nelle loro pagine diaristiche e nelle loro esternazioni, di cosa sia fatta la realtà in cui siamo immersi. Qui i versi appaiono più levigati, se non cesellati, ma mantengono una forza asseverativa dirompente quanto più scabri e giornalistici nel dettato. “Avevo un marito se non sbaglio / ora ho la morte che mi veglia”, ad esempio, esibisce una quasi-rima di sconvolgente stridore, che basta a dare una immagine indimenticabile di una concretissima sofferenza, un male di vivere che non è riportabile ad alcun destino astratto. Anche sottovoce, nel pianissimo di chi parla da oltre il muro della nostra coscienza, queste poesie ci aiutano a ricordare.
Da Il poeta scomparso e altre storie (Puntoacapo Editrice 2024)
In trattoria
Preferisco le anguste mura
di una locanda da sfamarsi, e appena
in tavola divido il pane e uno sguardo
di donna che ne avrei mangiato
volentieri ancora. Mi ricordava lei
quando, nascosti dentro gli ulivi, tagliavamo a metà
la sua focaccia scura rimpinzata di cielo
e dei suoi baci.
E mi piace il rosso di un vino incolore
dalla caraffa rabboccata
chissà quante volte.
Te lo racconto perché a volte
ci capitavi a pranzo interminabile con Alda,
che fumava chilometri di versi,
e litigava con chiunque parlando
o tacendo di cose di poesia. Dell’umanità
tutto sapeva, niente. E ti diceva
uguale a lei della stessa pazzia. Lei se n’è andata.
Ma dopo aver mentito per una vita intera.
Il magazzino ex Ilva
Una traccia di polvere m’insegna
una strada, nascosta tra maree di laminati
orme che vanno verso il magazzino, era qui
che viveva la tua rabbia da operaio
sempre qui che cadevano
stelle di acciaio fuso
e qui che le canaglie ti mandavano
a caricare secchi di energia, casse
di frammenti ilotici, frattaglie di albuminio
e la tua bile travasava in secchi di poesie
che ci andavi a innaffiare i giardini
di villa Peripato. Le grandi porte
si aprono al silenzio. Non c’è in reparto
che qualche volto lacero
disperso in un revamping mai finito
maschere di operai all’accatto
di un po’ di cassa ordinaria. Loro non lo sanno
che combattevi qui la tua battaglia
contro la vita, il sesso, la scrittura
inutile persino nominarti, non ti vedono
tra gli scheletri anneriti degli armadi
sprovvisti di utensili, arrugginiti,
era qui il mondo nuovo dove
finiva crocifisso
il popolo nato solo ieri
dagli espianti di ulivo in terra madre.
E ciò che ti dava da vivere tu lo odiavi.
l tempo del riposo
Livido mi allontano
dalla mia memoria, mi fa nausea
lo stridio delle gomme il non saperti
salvare dallo schifo di epitaffi
sagomati su scheletri di pietra
che ancora mi schiaffeggiano
come irridenti guappi da latrina.
Le tue metafore ardite dove sono?
dove fioriscono donne invetriate
che amano la modestia della verità
le parole pescare sulla sabbia
e si trastullano di dimenticanza?
I caùri le patelle le telline i paguri
le cocciche le zanchette le acquadelle
gli sbirri i gobbioni le lutrine
le agostinelle sono
le stelle ubriache del tuo firmamento,
acquatico e verginale
come il sesso infinito di una madre
in cui riporre il tempo del riposo
della rinascita alla vita
della vita.
Dialoghi di una barbona
(Roma, piazza Venezia)
I
Intorno alle cinque
per me è inverno, è tempo
di dormire già
se l’ultimo vino di cartone
mi ha sparato il suo requiem.
Mi faccio coi solfiti
perché il rosso in vetro costa
e posso anche tagliarmi se si rompe.
Lo nascondo sotto le gonne
come fanno le zingare
dove un tempo ero una donna
anche carina se non sbaglio.
Avevo un marito se non sbaglio
ora ho la morte che mi veglia
mi tiene compagnia e ogni sera
gioca a dadi col mio vino.
Ma durante la partita io già dormo
guai se qualcuno viene
a rovistare tra le mutande.
VI
Stanotte è inutile che vieni a passare
mi hanno portato via con l’ambulanza
dopo l’hanno ben disinfettata
perché dicevano i puzzoni ch’ero io
quel sentore di morte. Ma ora vado
in qualunque altro posto starò meglio
non chiedermi se è meglio dell’inferno
non ci sono mai stata ma se vuoi
ti lascio spazio accanto a me, ma stai tranquillo
che tutto quello che puzzava
era la terra, so solo che ora rido come matta
senza bisogno di bere e bestemmiare.
Le lascio a te queste incombenze, per adesso
solo tu sai che davvero c’era una donna
in quel saccone abbandonato nella piazza.
Ah! ancora insisti per sapere il nome
ma te l’ho detto, chiamami speranza.
Silvano Trevisani, giornalista professionista, già responsabile dei servizi culturali del “Corriere del giorno di Puglia e Lucania”, è redattore capo di “nuovodialogo.com”, responsabile del bimestrale di poesia Il sarto di Ulm (Macabor), collabora con giornali e riviste. Ha pubblicato oltre cinquanta volumi di arte, storia, economia, letteratura, poesia e narrativa. Ha curato saggi, monografie e antologie. È presente in antologie, riviste e siti web. Tra gli ultimi lavori: Alda Merini tarantina (Macabor 2019), l’antologia La guerra che è in noi (Macabor 2023), il thriller satirico Cosa sarei senza di me!? (Radici future 2013). Per la poesia ha pubblicato: Poesie (Amadeus 1995), L’altra vita delle parole (Nemapress 2012), Le parole finiranno, non l’amore (Manni 2020).
(A cura di Silvia Rosa)