DINA TORTOROLI
Il Fratello Arcesilao (ascoltato nella precedente puntata) ha un linguaggio elevato, ma non pecca davvero di astrattezza.
Al contrario, si preoccupa di far conoscere al proprio interlocutore dati della realtà “documentabili”, da quelli più spiacevoli a quelli più esaltanti.
È un esaminatore attento anche ai dettagli e usa espressioni molto appropriate ma originali, inconsuete ma senza preziosismi (consentendo pertanto una fedele traduzione in altre lingue).
La sua voce è attraente, perché ha un registro schietto ma sempre privo di fanatismi; ed è trascinante, perché rivela la partecipazione emotiva di una persona che mette in pratica i propri insegnamenti nel momento stesso in cui li impartisce: la stesura del suo “piano riformistico” getta, infatti, le fondamenta del nuovo sistema educativo con cui scalzare la deleteria “educazione insensata”.
Ritorno quindi alla Premessa del suo Piano, ai primi due paragrafi : «Coloro che, privi di lumi nello spirito e di entusiasmo nel cuore, non sono entrati nell’Ordine dei Liberi-Muratori che sotto un impulso di curiosità o mossi da un qualsivoglia interesse particolare, si trovano di solito poco soddisfatti e ne escono sovente; a meno che il piacere di condurre vita sociale o altre considerazioni non ve li trattengano. Ma ben altrimenti devono pensare quegli uomini che, più riflessivi, riconoscono ciò che vi è di utile, di grande, di rispettabile, in un legame universale, i cui fili partono da tutti i paesi, uniscono un gran numero di persone illuminate, la più parte di estrazione, fortuna ed educazione distinte, in una istituzione il cui fine è di condurre gli spiriti alla conoscenza di un creatore universale della natura, e dei rapporti originari di fraternità e di eguaglianza che esistono fra tutti gli uomini, con l’obbligo che ne deriva di soccorrersi scambievolmente, di lavorare per il bene dell’umanità, obbligazione che costituisce il tema sempiterno di tutti i riti, di tutti i discorsi, di tutte le azioni. Coloro che si rendono conto di ciò devono, malgrado il disgusto che reca loro qualche irritante frequentazione a cui sono costretti, malgrado vedano lo scarso utilizzo fatto finora di mezzi così grandi, così belli, così degni di ammirazione, cercare per quanto è loro possibile di mantenere in vita questa associazione, affinché, se non sono abbastanza fortunati da vedere il momento in cui essa potrà produrre tutti i frutti che vi è motivo di attendere, almeno i posteri si trovino in grado di impiegare uno strumento così prezioso da procurare la felicità per tutti gli uomini»*.
Questa voce, che induce a riflettere persino sulle molteplici attrattività esercitate da certe imprese e sulle motivazioni di coloro che vi si associano è straordinaria, però a me non giunge nuova.
È vero il contrario: io conosco bene questo suo tono autorevole, che mi è diventato sempre più caro, anno dopo anno, mentre dedicavo tutto il tempo eccedente le incombenze “normali” alla ricerca delle tracce di vita di “Giovanni Carlo Rafaele Pasquale Luigi figlio del Nob. Sig.r Conte D. Giuseppe Imbonati e della Sig.ra Contessa D. Francesca Bicetti de’ Buttinoni iugali, nato il giorno ventiquattro del corr.te [Mille settecento cinquantatre] … battezzato sotto condizione per dubio prudente del battesimo infertogli privatamente in caso di necessità …”**.
Per esempio, posso citare una situazione parallela a quella descritta dal Fratello Arcesilao (già di per sé un fatto rilevante), in cui il modo di comportarsi degli uomini è analizzato con altrettanto rigorosa osservazione delle cose reali, tesa (ed è ciò che più importa) al medesimo scopo, vale a dire alla consapevolezza della possibilità o meno di realizzare progetti virtuosi, cioè utili a tutti, in relazione alla realtà morale dei protagonisti: «La parola frate in quei tempi era proferita colla più gran venerazione, e col più profondo disprezzo; era un elogio e un’ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri riunivano questi due estremi perché senza ricchezze, facendo più aperta professione di umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio, e alla venerazione che possono venire da questa condotta. La considerazione poi data generalmente al loro ordine li poneva nel caso sovente di giovare e di nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi ostacoli, e quindi anche la varietà del sentimento che si aveva per essi, e delle opinioni sul conto loro. Varj pure e multiformi erano e dovevano essere i motivi che conducevano gli uomini ad arruolarsi in un esercito così fatto. Uomini compresi della eccellenza di quello stato che allora era esaltata universalmente, altri per acquistare una considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo, come allora si diceva, nel secolo, altri per fuggire una persecuzione, per cavarsi da un impiccio, altri dopo una grande sventura, disgustati del mondo, talvolta prìncipi o fastiditi, o atterriti del loro potere; molti perché di quelli che entrano in una carriera per la sola ragione che la vedono aperta; molti per un sentimento vero di amor di Dio e degli uomini, per l’intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa loro intenzione (perché quando si è persuasi d’una verità bisogna dirla; l’adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti) questa loro intenzione non era una pia illusione, l’errore d’un buon cuore e d’una mente leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi non sa o non considera le circostanze e le idee di quei tempi: era una intenzione ragionata, formata da una osservazione delle cose reali; e in fatti, con queste intenzioni molti abbracciando quello stato facevano del bene tutta la loro vita; anzi molti che sarebbero stati uomini pericolosi, che avrebbero accresciuti i mali della società, diventavano utili con quell’abito indosso». (Fermo e Lucia a c. di A. Chiari e F. Ghisalberti, pp. 56-57).
Le mie sensazioni di lettura a me basterebbero per intuire quale sia il nome profano del Fratello Arcesilao, ma ho il dovere di prendere in considerazione le congetture degli studiosi di professione.
Quindi faccio ricorso a colui che ha saputo valutare appieno il Mémoire e il suo autore***, il prof. Gian Mario Cazzaniga, che, nel saggio La religione dei moderni, dichiara: «Non tocchiamo qui il problema filologico della paternità. Sappiamo che Mirabeau pubblicava spesso con il suo nome testi che non aveva scritto […]. Il titolo del documento, che Lucas de Montigny descrive come scritto per mano di un copista, è il seguente: Mémoire concernant une association intime à établir dans l’Ordre des F. M. pour le ramener à ses vrais principes et le faire tendre veritablement au bien de l’humanité, rédigé par le F. Mi. nommé présentement Arcésilas en 1776. Il testo viene dunque attribuito ad un “Fr. Mi. ora chiamato nell’Ordine Arcesilao”, non altrimenti identificato (ed anche la “i” di “Mi” risulta di incerta lettura). Che Arcésilas possa essere il nome iniziatico di altri, ad esempio di Jacob Mauvillon, è possibile, anche se la datazione (“1776”) ci potrebbe portare non solo in Baviera alla fondazione dei Perfettibilisti, poi denominatisi Illuminati, ma anche ad Amsterdam ed alla frequentazione di logge olandesi da parte di Mirabeau. Nella attribuzione del testo un punto fermo da cui partire è costituito dalle analogie, quando non ripetizioni letterali, con numerosi passi del Libro V/ Capitolo 8 della Monarchie Prussienne, il cui titolo è “Sociétés secrètes & Illuminés”. È vero che anche questo capitolo potrebbe essere stato scritto da Mauvillon e poi corretto da Mirabeau, ciò che meglio spiegherebbe ripetizioni e varianti fra il Mémoire ed il capitolo della Monarchie Prussienne. Va rilevato come l’unica allusione geografica precisa nel Mémoire (“… In Germania, i fratelli lavoreranno per mantenere i diritti degli Stände …”) spinga a favore dell’attribuzione a Mauvillon, almeno in prima stesura. Va rilevato infine come il testo si presenti come work in progress, destinato ad essere lasciato in visione, in loggia o presso qualche fratello, per essere consultato ed emendato: “Dopo aver così stabilito i principi di questa associazione, azzarderò una bozza di regolamenti che ne conseguono, pregando i fratelli che verranno a leggerli di aggiungervi le loro osservazioni”. Anche questa natura di bozza aperta a disposizione dei fratelli sembra spingere verso una attribuzione ad un estensore indigeno, e dunque ulteriormente verso Mauvillon. In conclusione, ciò che importa è che Mirabeau abbia ripreso queste posizioni e le abbia pubblicate come proprie» [La sottolineatura è mia]. (La religione dei moderni, pp. 62-65).
Fin dalla prima lettura di queste pagine, mi ha colpito la precisazione del Professore: «[documento] che Lucas de Montigny descrive come scritto per mano di un copista», poiché mi ha fatto pensare all’eleganza della grafia dell’Imbonati, che facilmente può suggerire a chiunque l’operato di un professionista; inoltre, “Mi” potrebbe voler dire Milanais, e la “i” potrebbe essere di incerta lettura, perché di dimensioni ridottissime, come spesso si riscontra negli autografi imbonatiani.
In ogni modo, mi dispiace che il prof. Cazzaniga non abbia aggiunto un proprio commento.
Io non riesco a rinunciarvi, perché non posso credere che un fondamentale documento massonico fosse affidato a un “copista”, a meno che non fosse anch’egli un Adepto.
Basta leggere il titolo delle parti in cui quel testo è suddiviso, per convincersi che mai e poi mai avrebbe potuto essere fatto conoscere a un profano:
– Premessa
– Princìpi dell’Associazione riservata dei Fratelli
– Regolamenti dell’Associazione proposta: Capitolo I, Regolamenti generali // Capitolo II, Qualità del recipiendario // Capitolo III, Doveri cui si impegnano i membri dell’associazione / Articolo Primo: Doveri generali / Articolo secondo: Doveri dei Fratelli del grado inferiore / Articolo Terzo: Doveri dei Fratelli del grado superiore.
Non potendo ripudiare le mie sensazioni, ho voluto consultare la pagina dei Mémoires biographiques, littéraires et politiques de Mirabeau (tomo 2, disponibile in rete), segnalata dal professor Cazzaniga, nella speranza di trovare qualche altro elemento per me significativo; e non sono stata delusa: «Plusieurs passages du recueil de Vincennes, les prefaces de deux ouvrages publiés par Mirabeau en 1784 et 1788, et une multitude de lettres dont nous sommes dépositaires, preuvent qu’il avait formé à Amsterdam, à Rotterdam, à Leyde, à Dordrechta d’étroites liaisons non seulement avec des savans et des gens de lettres, mais encore avec beaucoup de citoyens qui, adonnés comme lui aux études politiques, s’occupaient surtout des spéculations d’une philantropie très-active. En France, il était entré de bonne heure dans une association de Franc-Maçonnerie. Cette affiliation l’avait accredité auprès d’une loge hollandaise; et il paraît que, soit spontanément, soit pour répondre à une demande, il songea à proposer une organisation dont nous possédons le plan, écrit non pas de sa main, car nous n’avons à ce sujet qu’un très-petit nombre de notes autographes tout-à-fait informes, d’ailleurs, mais de la main d’un copiste que Mirabeau s’est attaché, et a beucoup occupé pendant plusieurs années, et que probablement aura plus tard mis en net le manuscrit dont il s’agit. Ce travail nous paraît être l’oeuvre de Mirabeau: on y trovera ses opinions, ses principes, son style, d’autant plus reconnaissable qu’il ne chercha jamais ni à le déguiser, ni à lui donner de la variété. Ce n’est pas là, nous l’avouons, un ouvrage approfondi, ni un morceau d’un mérite supérieur. Mais nous croyons que, comme nous, on y remarquera le but le plus noble, les intentions les plus bienfaisantes, les vues les plus justes; qu’on saura gré à l’auteur, fugitive et caché, de cette sorte d’expiation volontaire qui le vouait au service de tous, pour compenser ses torts envers quelques-uns; qu’enfin on verra avec un étonnement mêlé d’intérêt, cette prevue nouvelle de la force et de la générosité de caractère de cet homme, plein de passions bonnes et mauvaises, qui demandait à de philantropiques meditations de quoi se distraire de ses angoisses domestiques, de ses remords, et de ses dangers imminens»****.
Nell’anomala formulazione “s’est attaché et a beucoup occupé”, riferita a un “copiste” (che Mirabeau avrebbe assunto mentre era prigioniero e poi fuggitivo e nascosto) io ho avvertito una specie di vaga ironia di chi ha ravvisato una ben diversa realtà; e mi hanno ingolosito le non poche carte, scritte con la medesima grafia del Mémoire, custodite tra “la moltitudine di lettere” di cui Lucas de Montigny era “depositario”.
Per ora, non sono in grado di sostenere nulla di preciso, ma posso accennare al fatto che da quelle carte francesi – (“Fonds Mirabeau” à la Bibliothèque Paul Arbaud à Aix-en-Provence) inaspettatamente raggiunte, come dirò –, nel Luglio scorso, ha preso l’avvio una prima fase di un settore di ricerca seducente, nonostante mi intimidisca, in quanto la consultazione dei documenti più utili comporta un esilio non breve, reso problematico dalla situazione oscura e sconvolgente in cui mi trovo ormai da un anno.
Mi vedo inoltre obbligata a concludere più rapidamente di quanto avrei voluto il resoconto degli ultimi eventi della vita dell’Imbonati, alcuni dei quali comprovati da incontrovertibili testimonianze, altri soltanto da indizi, ma talmente numerosi da assumere, a mio parere, il valore di prove.
Quanto al Mémoire, dovendo interrompere ora il discorso, voglio almeno aggiungere una considerazione, suscitata dalla convinzione di Lucas de Montigny, che se ne potesse attribuire la paternità al patrigno, dal momento che in quelle pagine si ravvisano suoi “principes, opinions e style”.
A me pare ovvio che i “principes” di Mirabeau coincidessero con quelli di Arcesilao, in quanto entrambi Liberi Muratori; invece, considerando il tempestoso registro linguistico delle Lettres de Vincennes, mi pare che sulla concordanza dello “style” ci sia molto da obiettare.
E’ vero che bisognerebbe sapere che significato Lucas de Montigny attribuisse a quel termine, ma io non riesco a credere che la voce di Mirabeau-“Uragano” potesse improvvisamente trasformarsi in quella di una persona capace di un eccezionale autocontrollo.
A questo proposito, viene in mio soccorso il professor Sergio Romagnoli.
Nel volume Atti del Convegno Manzoniano di Nimega si trova non solo il testo della sua relazione, intitolata Lingua e società nei “Promessi Sposi”, ma anche della discussione che ne seguì.
Ebbene, al prof. Peternolli, dell’Università di Groninga, desideroso di avere ulteriori chiarimenti sui “quattro linguaggi” a cui Romagnoli aveva “accennato”, “trattando dell’incontro di Renzo con l’Avvocato Azzeccagarbugli”, risponde: «Mi devi scusare se non sono stato chiaro. Preso dalla foga del discorso, ho parlato di quattro linguaggi: il linguaggio di Renzo, a livello contadino, il linguaggio avvocatesco, ammiccante, accattivante di Azzeccagarbugli e, quindi, due altri linguaggi che propriamente sarebbero due linguaggi morali. Volevo dimostrare la sostanziale somiglianza, il rapporto stretto che il Manzoni istituisce tra la realtà morale del personaggio e il suo comportamento linguistico. Volevo dimostrare, insomma, che Renzo ed Azzeccagarbugli non possono intendersi, non tanto perché appartengono a due ceti sociali diversi, quanto perché appartengono, alla fine, a due realtà morali diverse, delle quali i diversi comportamenti linguistici sono il riflesso» [il corsivo è mio]*****.
Il professor Romagnoli si occupa del linguaggio dei “personaggi” della storia, ma nulla vieta di considerare lo stretto rapporto tra il comportamento linguistico dell’“autore implicito” di essa e la realtà morale del presunto “autore reale” come criterio in base al quale procedere a una accettabile attribuzione di paternità.
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*Gian Mario Cazzaniga, La religione dei moderni, “Appendice”, p. 77.
** “Fede del suo Battesimo” rilasciata al Conte Carlo Imbonati [al quale “abbisognava” per accedere al Decurionato di Como] “ex Palatio Archiepiscopali Mediolani hac die 5 Mensis Aprilis 1776” (citata in riparazione del tentativo di Alessandro Manzoni di cancellare un’esistenza in modo talmente risoluto da concretizzare ciò che si temette potesse accadere nel momento stesso in cui essa ebbe inizio).
***A questo proposito, è doveroso ricordare che, dopo aver citato il Mémoire, in cui ai membri dell’associazione si raccomanda di “impegnarsi a far pervenire le conoscenze utili fino alla classe del popolo”, il Professor Cazzaniga dichiara: «Questa ridefinizione del lavoro culturale prefigura la nascita dell’intellettuale militante, una identità che segna un filone preciso dell’illuminismo radicale e che non a caso ritroveremo in una pagine dell’Esquisse di Condorcet (nona epoca)… », e, analizzando il documento, avverte: «Il rapporto dell’Associazione con l’istituzione massonica è quello di ricondurla alle sue origini, obiettivo che le minoranze di solito si pongono quando non sono d’accordo con i dirigenti dell’organizzazione di cui si fanno parte… E quali finalità si propone il ritorno alle origini? … Ad un primo livello si combatteranno i pregiudizi con la diffusione dell’istruzione … per un avanzamento culturale e tecnologico che investa anche le masse popolari. … Ad un secondo livello si scoprirà il secondo principio, cioè la correzione dei governi e della legislazione, sulla base dei diritti naturali, della ragione umana e di una gradualità progressiva con cui realizzare questi mutamenti». Constatazione finale: «Possiamo allora vedere in questo documento una sorta di nascita ideale della futura società segreta politica che, figlia degli Illuminati di Baviera, troverà nel primo Ottocento le sue forme storiche sul terreno della lotta per l’indipendenza nazionale…» (La religione dei moderni, pp. 65-70).
**** Mémoires biographiques, littéraires et politiques de Mirabeau, écrits par lui-même, par son père, son oncle et son fils adoptif, Lucas De Montigny, Paris 1834, Tome 2, p. 198.
Traduzione parola per parola: “Parecchi brani della raccolta di Vincennes, le prefazioni di due opere pubblicate da Mirabeau nel 1784 e 1788 [Doutes sur la liberté de l’Escaut e Aux Bataves, Sur le Stathoudérat], e una moltitudine di lettere di cui siamo depositari, provano che egli aveva creato ad Amsterdam, a Rotterdama, a Leyda, a Dordrecht stretti collegamenti non solo con studiosi e letterati, ma pure con molti dei cittadini che, consacrati come lui agli studi politici, s’occupavano soprattutto delle analisi di una filantropia molto attiva. In Francia, egli era entrato presto in una associazione di Massoneria. Questa affiliazione l’aveva accreditato presso una loggia olandese; e pare che, o spontaneamente, o per rispondere a una richiesta, egli pensasse a proporre una organizzazione di cui possediamo il piano, scritto non di sua mano, poiché a questo proposito non abbiamo che un numero molto piccolo di note autografe completamente informi, peraltro, ma di mano di un copista che Mirabeau ha assunto, e tenuto molto occupato per parecchi anni, il quale probabilmente avrà in seguito messo in bella copia il manoscritto in questione. Questo lavoro ci sembra opera di Mirabeau: vi si trovano le sue opinioni, i suoi principi, il suo stile, tanto più riconoscibile in quanto egli non cercò mai né di mascherarlo, né di conferirgli varietà. Non è questo, lo ammettiamo, un lavoro approfondito, né un pezzo d’un merito supremo. Ma crediamo che, come noi [li ravvisiamo], vi saranno ravvisati lo scopo più nobile, le intenzioni più benefiche, le opinioni più giuste; [e crediamo] che si sarà grati all’autore, fuggiasco e nascosto, di questo genere di espiazione volontaria che lo votava al servizio di tutti, per compensare i suoi torti verso pochi; che infine verrà riconosciuta con uno stupore misto d’interesse, questa nuova prova della forza e della generosità di carattere di quest’uomo, pieno di passioni buone e cattive, che chiedeva a meditazioni filantropiche di che distogliersi dalle sue angosce domestiche, dai suoi rimorsi e dai suoi incombenti pericoli”.
*****Atti del Convegno Manzoniano di Nimega (16-17-18 ottobre 1973) a c. di Carlo Ballerini, Libreria Editrice Fiorentina, 1974, p. 16.