Bach e la relatività della cultura

Johann Sebastian Bach

Johann Sebastian Bach

ANTONIO VIGLINO

La relatività della cultura è una strutturalità ben nota a chiunque, filosofo o no, vi rifletta; invece le implicazioni di questo fenomeno vengono per lo più costantemente ignorate a causa dell’altro elemento strutturale della cultura stessa, cioè il pregiudizio.
Il notare che la consapevolezza dovrebbe imporre di abiurare il “credere di sapere”, già denunziato da Socrate, allo scopo di poter ben individuare i pregiudizi collettivi e propri, attività nella quale eccelleva Nietzsche, è però argomento tedioso.
Invece più interessante è esaminare singoli fenomeni delle alternanze della ondivaga cultura. E ciò, si premette, in base ai gusti personali dello scrivente.
Un primo esempio che si può portare, ben noto ai melomani, oppone Verdi a Wagner.
In Italia nel Risorgimento per motivi anche nazionalistici Verdi era idolatrato, tanto dai palchi quanto dal loggione, ed ancora oggi ha schiere di autorevolissimi estimatori. E però Verdi, che si rammenta si limitava a comporre la musica dell’orchestra, al di là di sue innegabili bravure tecniche ed anche tenuto conto del fatto che la conformazione operistica del bel canto alternava arie sentimentalistiche e didascalici cori ai meccanici recitativi di riempimento, davvero non pare che altro abbia fatto che portare sul palco le musiche delle bande di paese o comporre arie che oggi si direbbero “neomelodiche”. Wagner invece, nella sua concezione dell’Opera d’arte totale componeva musica e libretto, curava scenografie e finanche edificò il proprio teatro, il tempio di Bayreuth, e il tutto sapeva fondere in un continuum plastico, in un impasto musicale nel quale non è nemmeno concepibile la distinzione tra aria e recitativo; Wagner in effetti compose musica di una ingegnosità e maestosità tale da risultare incomparabile con quella di Verdi o di qualsiasi altro operista, Mozart incluso. Eppure Verdi è, oggi come ieri, amato da schiere di intellettuali e da chi mai un’opera dal primo al terz’atto ascoltò, mentre Wagner, pur essendo naturalmente da molti venerato, a partire proprio da Nietzsche che pur quando giunse ad odiarlo si inchinava alla sua musica (in specie al preludio del Parsifal), mai ebbe largo e diffuso seguito. Entrambi Verdi e Wagner sono fenomeni culturali, e di altissimo livello entrambi va da sé, però Verdi è nazional-popolare e piccolo borghese, si sarebbe detto mezzo secolo fa, mentre Wagner è elitario, anche solo perché più prolisso e impegnativo — la marcia dell’Aida o il Va pensiero entusiasmano anche i bambini, perché certo sono pezzi di forte emozione, il Parsifal è un monolito di quattro ore che ai primi ascolti suona ostico e noioso. Questo è un esempio di relatività della cultura.
Per restare in ambito musicale, ma passando all’aspetto esecutivo della musica vissuta, si possono prendere in considerazione le incisioni delle opere di quello che, senza ombra di dubbio giustamente, è considerato il genio assoluto della musica, J.S. Bach. Bach non compose opere liriche perché estranee al suo contesto, sebbene le Cantate profane prefigurino cosa avrebbe potuto inventare, ma per altro verso scrisse musica per ogni strumento, dalle opere vocali, cantate ed oratori, al clavicembalo, all’organo, ai concerti, e peraltro inventò il violoncello quale strumento solista, componendo quelle che da molti sono considerate la massima espressione della musica nel mondo occidentale tutto, le sei Suites per violoncello solo appunto. Ebbene, tanto le opere per tastiera quanto soprattutto le opere vocali salvo rare eccezioni non vengono eseguite come Bach le compose, ma come si suppone piacciano ai gusti contemporanei. Le Variazioni Goldberg, il Clavicembalo ben temperato, le Suites inglesi e francesi, le Toccate per cembalo e le Partite, furono da Bach composte sul clavicembalo, non sul pianoforte (che peraltro in allora non era ancora stato inventato), e però ai giorni nostri da molti decenni prevalentemente vengono suonati al pianoforte. La differenza tra clavicembalo e pianoforte, essendo il primo uno strumento che funziona attraverso il pizzicare le corde mentre nel pianoforte le corde sono percosse da martelletti, è abissale: premendo il tasto del clavicembalo si ottiene sempre lo stesso suono, a prescindere dalla intensità, dalle sfumature e dalle altre tecniche manipolative della pressione, mentre il pianoforte è così tanto sensibile alla pressione che è raro ottenere due volte l’identico suono usando lo stesso tasto. Il pianoforte è strumento romantico per eccellenza, che riesce a trasmettere una varietà amplissima di sensazioni ed emozioni a seconda del gusto dell’interprete, il clavicembalo invece è strumento puramente geometrico, pitagorico si può dire (Bach negli ultimi anni della sua vita aderì non a caso ad una associazione musicale di ispirazione filosofico-pitagorica appunto, per la quale compose l’Offerta musicale e l’Arte della fuga). La musica di Bach è adamantina, i rapporti tra le note e gli accordi sono stati stabiliti da Bach stesso in modo puramente matematico, le esecuzioni al pianoforte invece colorano le sue opere di venature di sentimenti che sono totalmente estranee allo spartito, e ciò sempre, inevitabilmente per il fatto di premere il pianista su tasti collegati a martelletti a percussione, anche quando cioè l’esecutore, come la grandissima R. Tureck o E. Koroliov, si sforzi di suonare il pianoforte senza inflessioni, come se fosse un clavicembalo. Bach, a differenza di tutti gli altri, o quasi, compositori, non voleva per nulla comunicare sensazioni od emozioni, entrambe manifestazioni psichiche per lui “troppo umane”, Bach voleva far ascendere al numinoso, tirare per i capelli l’ascoltatore e fargli volgere lo sguardo all’Assoluto — laddove il pianoforte invece è a tal punto intrinsecamente avviluppato alla sfera delle sensazioni che non può fisicamente rendere la dimensione celestialmente matematica degli spartiti di Bach. È cioè lo strumento stesso scelto che altera la musica di Bach, eppure, sebbene vi siano anche ai giorni nostri numerosi incisioni al clavicembalo, più numerose sono quelle al pianoforte, perché evidentemente al pubblico, nonché all’esecutore stesso, così piace.
Ma, sempre riguardo a Bach, il travisamento della sua musica è ancora maggiore per quanto riguarda le opere vocali, e come si sa proprio le Cantate sacre, unitamente alle Passioni, agli Oratori e alle Messe, costituiscono la parte più cospicua della sua produzione. La questione è molto semplice: ai tempi di Bach le donne in chiesa non cantavano, le voci di alto e soprano erano affidate alle voci bianche dei bambini — Bach fu per ventisette anni Thomaskantor a Lipsia, cioè direttore del coro delle voci bianche, e pure quindi insegnante nella scuola religiosa. La differenza di timbro tra le voci femminili e le voci bianche è profondissima: non si tratta di preferire quelle che piacciano di più, si tratta del fatto che gli spettri vocali siano radicalmente diversi. Non solo, ma l’eseguire le opere vocali di Bach con alto e soprano femminile, altera il timbro di metà delle voci, il che naturalmente implica lo stravolgere e compromettere il complesso dell’opera stessa, perché si distrugge l’armonia timbrica interna che Bach aveva concepito: in pratica accade che si esegua lo spartito per metà seguendo Bach, per l’altra metà trascrivendolo come arie di bel canto — si vuol dire: se suonare le Variazioni Goldberg al pianoforte, pur essendo questa già una trascrizione e non una esecuzione dell’opera, ha una sua unità nel senso che tutto lo spartito è reso in modo unitario e in sé coerente, invece l’eseguire Cantate e Passioni con parte delle voci aventi timbri diversi da quelli prefigurati altera in modo irrecuperabile l’impasto musicale, lo rende altro da cosa Bach volle, che a molti può piacere ma ad alcuni pare un monstrum. Eppure, ad eccezione delle incisioni di G. Leonhardt e N. Harnoncourt, direttori del primo e sublime ciclo integrale delle Cantate sacre in 60 dischi, praticamente tutte le esecuzioni delle opere vocali di Bach presentano voci femminili in luogo delle voci bianche, e spesso le più acclamate stelle dei palcoscenici. Anche in questo caso, è l’ambiente culturale che così preferisce, ovvero, detto altrimenti, oggi la cultura si priva del vero Bach e lo sostituisce con una trascrizione della sua musica più consona ai propri gusti. Entrambi i casi del pianoforte e delle voci femminili non sono cioè una mera questione di filologia musicale, ma attengono proprio all’essenza timbrica intima della musica: in altre parole, i gusti della cultura contemporanea snaturano Bach.
D’altra parte la musica di Bach ai suoi tempi non era percepita come opera geniale, bensì era fruita dai fedeli nelle chiese di Lipsia, e dagli studenti o dai committenti delle opere non sacre (fu F. Mendelssohn che nel primo Ottocento scoprì la Passione secondo Matteo e la portò ai trionfi che merita); e per altro verso tanti altri come Bach componevano cantate e musica per organo, ma oggi solo alcuni di essi sono considerati, e lo sono più che altro da specialisti del settore. Allo stesso modo, Wagner e Verdi erano sì certo ammirati e finanche venerati da ristrette cerchie, ma non erano ancora i geni universalmente riconosciuti che oggi sono.
Come disse Guicciardini, contemporaneo del più noto Machiavelli, la storia la si può valutare solo quando non si è più in essa coinvolti; così solo tra un secolo si potrà vedere se della musica rock resterà qualcosa a indicare i nostri tempi: a livello latu sensu compositivo probabilmente resteranno i Pink Floyd, per gli altri gruppi e solisti dipenderà dai gusti che si affermeranno; e lo stesso vale per la musica pop e per quella che si usa dire commerciale — si spera si conservino gli idilli vocali di Mina e Battisti. Cosa non sarà dimenticata, ma al contrario sarà sempre più apprezzata, si è convinti, è la musica di Philip Glass, compositore statunitense che muovendo dal minimalismo ha oramai esplorato ogni ambito compositivo, scrivendo per ogni strumento e ogni concerto e creando opere liriche di grandissimo impatto — si può ritenere che Glass sia una reincarnazione contemporanea del genio di Bach, che semmai mitiga la ineguagliabile purezza del maestro tedesco in un contesto che sconta tre secoli di grandi compositori e di esplorazioni musicali.
Comunque qualcosa resterà, e sarà considerato la cultura del passato che al contempo alimenterà la cultura del futuro presente, questo è un aspetto; l’altro è che in ogni caso la musica che oggi si ascolta è la cultura attuale. Non si deve cioè pensare che ciò che non piace ai più, o agli intellettuali, debba essere considerato paccottiglia di intrattenimento mero; il punto non è se lo sia o non lo sia (per millenni gli uomini si sono interrogati su cosa fosse Arte, se fosse oggettiva o soggettiva, poi Heidegger in un saggio ha dato chiarimenti sul tema, ma approfondire questo aspetto è secondario rispetto a cosa si vuole dire). È bensì vero che le testate dei quotidiani online riportino sistematicamente e quotidianamente come prima notizia i risultati delle partite di calcio rispetto qualsiasi altro fatto accada nel mondo, e che i fatti di cosiddetta cultura giacciano a fondo pagina, ma daccapo non è per nulla questo il punto: nel Settecento le masse vivevano nel proprio mondo di stenti e nell’Ottocento i passi avanti della società erano stati minimi, eppure da questi secoli ci giungono monumenti che non si sono più nemmeno lontanamente avvicinati — e, si noti, finalmente questo è il cuore delle cultura, Bach e Wagner non furono per nulla elitari sapienti chiusi in castelli inargentati: Bach componeva per i fedeli delle chiese di Lipsia, Wagner scriveva avendo di mira la redenzione degli umili, cioè la loro musica rispecchia intrinsecamente il modo di vivere globale del tempo in cui essi vissero, proprio come oggi, proprio come sempre.
Ciò che si è voluto, dire, insomma, è che la relatività della cultura dipende per lo più semplicemente dal fatto che a causa dei pregiudizi che uno creda di sapere, spesso ci si preclude, per disposizione d’animo, di apprezzare cose che invece potrebbero arricchire l’anima.