L’eredità di Sándor – 1

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GABRIELLA MONGARDI

Introduzione

Se c’è uno “spazio” dove l’Europa unita già esiste, da secoli, questo è la letteratura: nella letteratura europea, la diversità delle lingue è un mero accidente, mentre unitari sono – dal Medioevo in poi -  temi, strutture, motivi ricorrenti.  E questo è vero non solo per quanto riguarda la letteratura della cosiddetta Europa Occidentale – non solo nei romanzi inglesi o francesi o tedeschi circola “un’aria di famiglia”: se si legge un libro “orientale” – polacco, o russo o ungherese che sia, si ritrovano le stesse situazioni, le stesse riflessioni, gli stessi valori, e  ne è la riprova: scrittore ungherese per nascita e per scelta linguistica, è stato di fatto cittadino d’Europa e del mondo, in parte sì per necessità storica, diciamo per cause di forza maggiore, in parte e forse soprattutto per “vocazione”, o meglio per un suo profondo bisogno interiore: perché anche Márai – come il conte Morstin, il protagonista di una novella di Joseph Roth [1]- può dire: «La mia vecchia patria, la monarchia [austroungarica, n.d.r.] era una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini. La casa è stata suddivisa, spaccata, frantumata. Là io non ho più nulla da cercare. Io sono abituato a vivere in una casa, non in una cabina».

Sándor Márai infatti nacque a Kassa (oggi Košice, in Slovacchia) nel 1900, e come tutti quelli della sua generazione assistette a mutamenti storici radicali e sconvolgenti – ancor più radicali e sconvolgenti per un abitante dell’Ungheria appartenente ad una famiglia dell’alta borghesia sassone, che ha visto dapprima la finis Austriae, tra le due guerre mondiali il regime autoritario, conservatore, nazionalista dell’ammiraglio Horthy, infine il comunismo della Repubblica popolare ungherese. Come ci confessa lui stesso nella prima parte della sua autobiografia, Le confessioni di un borghese (1935), dopo lo smembramento dell’impero asburgico Márai si rese conto che il suo paese, chiuso nei suoi nuovi confini materialmente angusti (l’Ungheria era ridotta ad 1/3 del territorio precedente) e intellettualmente sempre più limitati, ormai gli stava stretto. Scrive: «Osservavo tutto – oggetti, paesaggi, essere umani – come se fossi un testimone oculare che vede ogni cosa per la prima e forse per l’ultima volta e sa che un giorno dovrà renderne conto ai posteri… Una cultura, o tutto ciò che in genere si definisce tale – ponti, lampioni, dipinti, sistemi monetari, versi, stava cadendo a pezzi sotto il mio sguardo. … Sentivo di avere un compito urgente, volevo ancora vedere qualcosa “allo stato originario”, prima che si compisse quel cambiamento indefinibile e spaventoso. Mi misi in viaggio».
Perciò, nel 1919, non ancora ventenne, Márai lasciò l’Ungheria per la Germania: prima Lipsia, poi Francoforte e Berlino. Nel 1923 sposò una ragazza di Kassa e si trasferì con lei a Parigi: voleva fermarsi per tre settimane e vi rimase sei anni, spostandosi però di tanto in tanto in altre capitali della cultura occidentale, come Londra o Firenze, e scrivendo articoli di giornale (“corrispondenze parigine”) redatti talvolta in tre diverse lingue e spediti un po’ dappertutto, per raggranellare qualche soldo [2]. Ormai poteva considerarsi a casa ovunque, e invece non si sentì più a casa in nessun posto.
Così alla fine degli anni Venti decise di tornare a Budapest, ma non lo fece per nostalgia, quanto piuttosto seguendo il richiamo imperioso della lingua in cui, dopo essere rimasto per alcuni anni in bilico fra il tedesco e l’ungherese, aveva deciso, una volta per sempre, di scrivere: scrivere per rendere quella testimonianza al passato disgregato che sentiva come un dovere, scrivere per dar voce ad un senso di spaesamento ormai definitivo. Sotto questo aspetto è inevitabile un confronto con Kafka: sia per la comune condizione di sradicamento (anche se originata da cause in parte diverse), sia per la necessità di “scegliere” la lingua in cui scrivere. Sembra impossibile, innaturale, ma neppure la madrelingua è un dato pacifico, per questi scrittori: le loro decisioni saranno antitetiche – Kafka opterà per il tedesco, Márai lo rifiuterà – ma le motivazioni della scelta affini: per entrambi la lingua della loro letteratura non è un dato naturale, ma il punto d’arrivo, l’approdo di un tormentato processo di identificazione.
A Budapest, città che aveva sempre trovato poco attraente, resistette per vent’anni, lavorando come un ossesso e pubblicando dozzine di scritti: saggi, liriche, drammi, romanzi, elzeviri e la monumentale autobiografia Confessioni di un borghese. Con l’eleganza innata della sua scrittura, diventò uno degli esponenti di spicco della letteratura ungherese: la critica lo definiva un maestro di stile, il pubblico lo adorava, i suoi libri andavano a ruba. Quando l’onda lunga del Nazismo occupò l’Europa determinando una nuova ondata migratoria verso occidente, Márai al contrario di altri suoi compatrioti illustri si predispose ad affrontare, tra le quattro mura della sua casa di Buda, «un esilio silenzioso nell’extraterritorialità della pagina bianca[3]». Ma nel 1948, dopo due decenni di reclusione volontaria in patria, quando in Ungheria fu abolita la democrazia parlamentare, lo scrittore abbandonò di nuovo il suo paese, questa volta per sempre, non senza però ribadire la necessità di vivere e operare nell’ambito della lingua materna.
Inizialmente venne ad abitare con la moglie in Italia, e precisamente a Napoli, città che Márai  considerava «una delle ultime in cui la parola civilitas possieda ancora un significato tangibile e quotidiano». Secondo la testimonianza di una sua amica, la scrittrice ungherese Zsuzsa Szönyi che lo accolse a Roma, Márai «imparò dagli italiani la leggerezza necessaria per lenire la nostalgia, la pesantezza magiara. Trascorreva il tempo a leggere e studiare. Era anche un formidabile nuotatore. Entrava in mare con tutti i tempi». Quattro anni dopo, per aiutare il figlio adottivo, che in America avrebbe avuto maggiori opportunità di diventare ingegnere elettronico, si trasferì oltreoceano. Dal 1952 al 1968 visse a New York, divenendo cittadino americano, ma di New York scrisse: «Città interessante. Peccato che non sia fatta per essere abitata da esseri umani». Così ritornò per undici anni in Italia, stabilendosi a Salerno. Nel 1979 si trasferì definitivamente negli USA, a San Diego, dove nel 1989, prima che cadesse il muro di Berlino, pose fine alla sua vita sparandosi un colpo di pistola.

Ciò che secondo me dà a Márai il diritto di essere inserito tra gli autori canonici della letteratura europea sono essenzialmente i romanzi scritti nel decennio 1932-1942 – Truciolo, Divorzio a Buda, L’eredità di Eszter, La recita di Bolzano, Le braci. Li esaminerò in ordine strettamente cronologico, perché a mio avviso in questo modo si evidenzia la netta linea evolutiva che caratterizza la narrativa di Márai , pur nella fedeltà ad un grande tema di fondo, molto impegnativo: l’analisi della passione umana alla ricerca della Legge che regola l’agire umano. Maturazione, evoluzione e contemporaneamente costanza, permanenza – tanti romanzi, un solo Romanzo, per così dire “a tappe”, radicato profondamente nel vissuto dell’autore e nell’esperienza storica del suo tempo, “il secolo breve” colmo di devastazioni e di stravolgimenti.

Truciolo

Truciolo narra la storia… di un cane: è una “snorrka”, una sciocchezza, una bagattella rispetto agli altri romanzi – ma rivela già, a sprazzi, la zampata (è il caso di dirlo) del grande moralista. Nel panorama della produzione letteraria di Márai, questo è un romanzo atipico, che nasconde il dramma sotto uno sguardo ironico e pungente. Lo stesso autore – nel primo capitolo, che funge da prefazione al lettore – fa sapere che l’ha scritto per divertimento: «Non si può pretendere da uno scrittore che se ne vada in giro perennemente in abito togato, che assuma sempre pose tragiche. Arriva un momento in cui non si ha più alcuna voglia di restare fedeli al genere umano e, sfidando lo sdegno dei profeti dal volto arcigno, si decide di scrivere la storia di un cane». Truciolo è, appunto, la storia di un cane, ma in fondo è anche l’autobiografia di Márai, che ride del mondo, della sua città, della sua gente, dell’ipocrisia del Natale, del consumismo e dei rapporti con i parenti. Ma ride soprattutto di sé stesso, della sua vita di scrittore, delle sue sventure, del suo carattere. Tutto avviene in un gioco di specchi tra il cane e il padrone, con il sospetto che Márai si rifletta ora nell’uno, ora nell’altro, o in tutti e due. Questa sospetto trova una conferma nella struttura del romanzo, che riproduce in scala rimpicciolita, con un minor numero di pagine e di capitoli, quella delle Confessioni di un borghese: all’interno di una narrazione organizzata grosso modo in ordine cronologico, i singoli capitoli sono dedicati ciascuno ad un tema, o se vogliamo ad una “tappa” dell’esistenza di Truciolo e ad una fase dei suoi rapporti con i padroni, tant’è che ciascun capitolo è contrassegnato da un titolo spesso altisonante e ironico, come “Spazio e tempo” “Giovinezza”, “Il macrocosmo” o “Psicanalisi”. Mai come in questo romanzo vale la regola che il grande scrittore non si riconosce tanto dalla complessità delle trame che inventa, quanto dalla raffinatezza delle parole che usa e dalla profondità dello sguardo che getta sulla realtà, anche la più comune e quotidiana, illuminandola di una luce che la trasfigura e la carica di significato. Qui la trama è esilissima e se si vuole banalissima, chiunque abbia un animale domestico potrebbe raccontare qualcosa di simile: l’acquisto di un cane, il suo inserimento nella vita di famiglia, le sue passeggiate per le vie e i parchi di Budapest, i problemi col cibo, con i visitatori, col postino… ma se ci mettessimo noi a scrivere ne potrebbe venir fuori al massimo un diario o una cronaca, mentre Márai  dissemina il suo scritto di riflessioni sul carattere, sulla lingua ungherese, sui rapporti interpersonali e via dicendo: costruisce insomma un vero e proprio romanzo, che sotto l’apparenza dimessa e semplice in realtà rivela già l’attento e acuto osservatore dei comportamenti umani, l’indagatore delle indoli e delle molle dell’agire umano; un romanzo che in realtà è già – come saranno poi le opere maggiori – un trattato sulle passioni, qui per ora in forma di “scherzo”.

Truciolo è il cane che “il signore” regala alla “signora” la vigilia di Natale, ancora sudicio di fango e paglia. Ha origini incerte e un bruttissimo carattere, morde e non conosce la disciplina: tutto ciò porterà alla dolorosa rottura tra il padrone e il suo cane. E solo troppo tardi il padrone, scrittore, scoprirà che i difetti di Truciolo sono anche i suoi. Ad esempio la disciplina. Il cane, certo, non ne ha. Ma cos’è poi la disciplina? Márai scrive: «Sarebbe impossibile spiegare che genere di disciplina ci possa mai essere nelle abitudini di uno che trascorre quattro o cinque ore della giornata in uno stato di attesa quasi angosciante e di palese inattività – si alza, passa da una stanza all’altra, poi si siede, dà un’occhiata ai titoli di prima pagina di un quotidiano, resta a lungo immerso nella vasca da bagno, tira fuori un libro, legge qualche pagina, nel frattempo ha cura di staccare il telefono, poi chiude a chiave la porta della propria camera e va su tutte le furie se qualcuno viene a importunarlo con una visita. (…) Vive in questo modo, arrotolando e fumando una sigaretta al minuto – fino a quando, finalmente, dopo quattro o cinque ore vuote e agitate, di inerzia, di esitazione, di irresolutezza e di attesa, va a sedersi alla scrivania con un’espressione disperata sul volto e, dopo aver sprecato altre due ore, verso le sei del pomeriggio o le quattro del mattino, riesce una buona volta a riempire una pagina, se va bene una e mezzo».

In questo romanzo il padrone e la padrona di Truciolo non sono mai indicati con il loro nome, quasi a significare che i personaggi umani (oltre ai padroni del cane, alcuni loro amici e conoscenti, il postino, i vicini di casa, la governante) esistono esclusivamente in funzione dell’animale, che è il perno di tutta la narrazione. Inutile dire che Márai aveva probabilmente un riferimento letterario ben preciso, il romanzo breve Cane e padrone di Thomas Mann, ma si discosta radicalmente dal modello, rovesciandolo: mentre in Cane e padrone era rappresentata una  simbiosi tra l’uomo e l’animale, ossia tra ragione e istinto, in Truciolo viene raccontata e per così dire “dimostrata”, in senso geometrico, l’impossibilità di una relazione ‘costruttiva’ tra cane e padrone, a cui si sostituisce il rispecchiamento autoironico del protagonista (e alle sue spalle dell’autore) nel cane.

Truciolo è un inno all’imperfezione, la dimostrazione che «non amiamo tanto ciò che è bello, buono e virtuoso, ma piuttosto tutto ciò che è represso, imperfetto, irrequieto e che protesta digrignando i denti – tutto ciò che non è virtù e accondiscendenza, ma è invece imperfezione e ribellione». (Vittorio Macioce).

Divorzio a Buda

La città di Budapest (dov’era ambientato Truciolo), con la sua scissione in due metà, o per essere più precisi la parte alta e vecchia della città, ossia Buda, è anche lo sfondo del secondo romanzo, come ci è rivelato fin dal titolo: Divorzio a Buda. Forse è riduttivo definire Buda semplicemente come lo sfondo del romanzo: perché in vari punti, attraverso il camminare dei personaggi nelle sue strade, la città diventa quasi un personaggio del romanzo essa stessa, assumendo il ruolo di interlocutore muto o di specchio e stimolo alla riflessione: in particolare nel cap.2, quando il protagonista, fermo sul ponte sul Danubio che unisce le due parti della città – vecchia e nuova,  contempla da un lato la moderna Pest «che con respiro asmatico si affannava appresso ai soldi, alle gioie della vita, al potere», dall’altro la solennità familiare della tradizione che s’incarnava nel paesaggio di Buda, con il castello, i palazzi storici, la chiesa dell’incoronazione, i giardini, i quartieri vecchi. La contrapposizione tra passato e presente, la constatazione amara che «tutto era mutato» è un leitmotiv del romanzo.

Divorzio a Buda presenta già il modulo ‘classico’ della narrativa di Márai, ossia l’unità “tragica” di tempo, luogo e azione: il tempo è una notte di settembre, dal tardo pomeriggio all’alba; l’azione consiste essenzialmente in un dialogo tra due personaggi, preceduto da azioni ordinarie, abituali, quali rientrare a casa dal lavoro, o parlare con amici e moglie; il luogo è Buda, ma la scena è prevalentemente in interni – le case dove il protagonista lavora, abita, va in visita. I 18 capp. del libro si possono suddividere in tre sezioni, di 6 capitoli ciascuna: anche questa perfetta simmetria strutturale conferisce eleganza al romanzo. La prima sezione è occupata da un lungo flashback, che assolve la funzione di presentare, attraverso i suoi stessi pensieri e ricordi, il protagonista, il giudice Kristof Komives: la sua storia, la sua famiglia e il suo ambiente sociale borghese. Il giudice era nato all’inizio del ’900, in un momento storico dolorosamente intricato, a cavallo tra due secoli, alla vigilia di sconvolgimenti sismici (la caduta dell’Impero Austro-Ungarico); discendeva da una famiglia di magistrati, che si erano tramandati tale professione di padre in figlio da sette generazioni; era ancora giovane, ma «sembrava più vecchio della sua età, il suo aspetto era quello di un posato signore quarantenne dalle tempie ormai incanutite, e aveva anche messo su una notevole pancetta». Komives non era contento di questa sua tendenza ad ingrassare, e in generale le sue condizioni di salute erano per lui causa di una certa apprensione: da qualche tempo soffriva di capogiri terribili, ma il medico gli aveva assicurato che non aveva alcun disturbo organico: si trattava solo di un lieve esaurimento nervoso. Proprio questo, però, lo inquietava: perché Komives era una di quelle persone “tutte d’un pezzo”, per cui la nevrastenia era qualcosa di immorale; per lui una persona era “sana” o “malata”, ma in nessun caso “nevrastenica”. Egli riteneva di avere, come giudice, la missione di salvaguardare e conservare ad ogni costo la civiltà, la morale, ma dubbi radicali si insinuavano, suo malgrado, nel suo animo: Ma quella civiltà meritava davvero una difesa incondizionata…contenuto morale di quella civiltà da difendere ad ogni costo?1’ Quello creato da Márai è un personaggio straordinariamente moderno, strettamente imparentato con gli antieroi della letteratura novecentesca, dal Tonio Kröger di Thomas Mann allo Zeno Cosini di Italo Svevo, ma conserva ancora qualcosa di classico, non foss’altro che per il rigore logico-sintattico e la ricchezza lessicale della nitida lingua di Márai.

Nella seconda sezione del romanzo viene narrata una serata di Kristof: la partecipazione a quella che in piemontese si chiama “merenda sinoira” (la traduttrice conia il termine “merencena”), le conversazioni mondane tra gli ospiti, infine il ritorno a casa: è il quadro di un’esistenza normalissima, ordinatissima, in cui tutti i conti devono sempre tornare, e di cui il giudice, con il suo lavoro, si fa garante e custode. Ma negli ultimi sei capitoli, verso cui tutto il romanzo tende, succede qualcosa che mette in discussione tutte le certezze a cui il giudice restava ostinatamente attaccato: Komives, tornato a casa a tarda sera con la moglie, trova ad attenderlo un compagno di scuola, il medico Imre Greimer, di cui l’indomani avrebbe dovuto discutere la causa di divorzio dalla moglie Anna Fazekas, anch’essa conosciuta da Kristof in gioventù. Tra i due uomini si svolge un lungo dialogo, o piuttosto un monologo di Imre, che racconta all’amico giudice la storia del suo matrimonio e quale conclusione abbia trovato. Temi del dialogo: la vita a due, la competizione e la gelosia, la fatalità ineluttabile di una passione segreta e inesauribile, che cova come un incendio in miniera e finisce con il distruggere, con la sua forza dirompente e corrosiva per quanto repressa, l’equilibrio della vita coniugale. Quando, all’alba, il medico dopo la sua lunga confessione se ne va, Kristof, rimasto solo con il suo cane, contempla i famigliari addormentati e si prepara ad affrontare la nuova giornata, come se niente fosse successo – e così finisce il romanzo. Può sembrare una reazione deludente, banale, “poco romantica”: invece la definirei una chiusa estremamente coerente con il personaggio, e perfettamente in linea con l’understatement che rende la scrittura di Márai  così profonda e affascinante.

 

L’eredità di Eszter

Una splendida dimostrazione di questo understatement è il terzo romanzo, L’eredità di Eszter, che è un capolavoro di sobrietà e leggerezza, a tutti i livelli, dalla struttura narrativa alla fisionomia del personaggio principale. Si tratta di un romanzo breve e lineare, composto di venti capitoli di poche pagine ciascuno, per lo più costituiti da una sola sequenza narrativa (scena); si presenta come un resoconto privato, una sorta di diario “a posteriori”, perché la voce narrante è quella stessa della protagonista, Eszter, che nel primo capitolo – una sorta di preludio al romanzo – ci informa che «una voce, contro la quale si sente impotente, la esorta a descrivere gli eventi di quella giornata» di tre anni prima. Eszter non è più giovane, ha una salute malferma e sente vicina la morte, ma prima di morire vuole narrare la storia di quel giorno «in cui Lajos venne per l’ultima volta a trovarmi e mi spogliò di tutti i miei beni»: narrare equivale a conferire un senso all’esistenza; è questo il suo dovere, compiuto il quale potrà aspettare tranquillamente la morte, perché non ha più niente da aspettarsi dalla vita.
Anche il lettore, dopo questa premessa, in un certo senso non ha più niente da aspettarsi dal romanzo, perché sul piano delle azioni ne conosce l’essenziale, ma la bravura di Márai sta nell’aprire sempre nuovi scenari narrativi, nel dilatare il tempo grazie a continui flash-back, accumulando una tensione che cresce e non ci abbandona fino alla chiusura del libro. Il primo “avvenimento” del romanzo è l’arrivo a casa di Eszter, un sabato di fine settembre, di un telegramma «che rassomiglia ad un libretto d’opera»; l’ultimo, la domenica verso mezzanotte, la lettura di una lettera recapitata alla destinataria vent’anni dopo, e non per un disguido postale… In mezzo, si distende il racconto di una giornata fatale, decisiva, dai preparativi al momento culminante, il dialogo a quattr’occhi tra Eszter e Lajos, il solo uomo che lei abbia amato – e che aveva sposato sua sorella, ora morta. Nel riferire questa giornata Eszter in realtà ripercorre tutta la sua esistenza, in maniera apparentemente anarchica, seguendo le libere associazioni dei ricordi suoi e degli altri partecipanti a quella giornata: oltre a Lajos, che ne è il mattatore, i suoi figli e nipoti di Eszter Eva e Gabor; la sua attuale compagna Olga e il di lei figlio Bela; la vecchia Nunu, una lontana parente diventata governante e protettrice di Eszter; Laci, fratello di Eszter e cognato di Lajos, gli amici Tibor e Endre, notaio.

Il romanzo, come un concerto vivaldiano, a momenti in cui tutti i personaggi fanno sentire la loro voce alterna duetti o assoli: in ogni caso è la dimensione dialogica a prevalere, ed è attraverso il dialogo o il monologo che il lettore riesce a ricostruire la storia e la fisionomia dei vari personaggi. In primo luogo Lajos, il teatrante che mente «come urla il vento, con una specie di forza primordiale, con allegria indomabile»; Lajos che esercita sugli altri un fascino il cui effetto è paragonabile solo a quello di un sortilegio o di un terribile veleno, Lajos l’imbonitore, il falsificatore; e ovviamente lei, Eszter, la donna di carattere d’altri tempi, capace di donare fino in fondo, di rinunciare a tutto, di spogliarsi di tutto, con un distacco totale da sé e dalle cose, per amore. Il personaggio di Eszter, nel panorama della letteratura europea, va ad arricchire la galleria ideale in cui si collocano la Griselda di Boccaccio, don Chisciotte di Cervantes, l’idiota di Dostoevskij: tutti esempi di quelle virtù passive – la mitezza, la pazienza, la rinuncia, il distacco, l’umiltà – oggi così inattuali, di cui parlava Carlo Ossola in un articolo nel domenicale del SOLE 24 ORE, “Bontà in bancarotta”. Scrive Ossola: «La nostra epoca, affascinata dai miti di Ulisse, dagli emblemi della sapienza attiva, ha un po’ dimenticato le virtù passive, la pazienza, la rinuncia, il distacco, la pura perdita di sé. Non la presa, ma la resa, la déprise (come ricorda Roland Barthes), la Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer, l’abbandono, il distacco, la silente Abgeschiedenheit di Meister Eckhart, il “lasciarsi andare al riposo di sé da sé” (potremmo tradurre), il “far vuoto” e silenzio dentro e d’intorno». Ecco, Eszter è un perfetto esempio di questa Abgeschiedenheit, di questo saper prendere congedo innanzitutto da se stessi; gli altri personaggi del romanzo fanno per così dire “da spalla” ai due protagonisti, sono il coro che ne accompagna, ne sostiene o ne commenta l’azione o la riflessione.

Il racconto procede con la ferrea, rigorosa essenzialità di un teorema geometrico, o di un sillogismo. Data la premessa: «Gli amori infelici non finiscono mai», con il suo corollario: «Nella vita esiste una specie di regola invisibile per cui ciò che si è iniziato un giorno prima o poi lo si deve portare a termine, in un modo o nell’altro», ne consegue che Eszter non può dire di no a Lajos. Il romanzo è la dimostrazione, in senso matematico, di questo “teorema”: non c’è niente di superfluo, nessuna mossa inutile, nessun giro a vuoto: ogni personaggio, ogni dialogo è finalizzato a questo scopo, condurre al C. V. D., quod erat demonstrandum.  Lo si potrebbe anche paragonare ad una partita a scacchi, dove apparentemente il re nero (Lajos) dà scacco alla regina bianca (Eszter). Infatti, dal punto di vista dell’avere, del possesso, hanno la meglio gli altri, il genio della menzogna e i suoi compagni, gli approfittatori che le prendono tutto, perfino le marmellate e i fiori; ma Márai  ci impone di vedere le cose da un altro punto di vista, quello dell’essere e del dare. Da questo punto di vista la vera vincitrice è Eszter, perché alla fine è lei che sopravvive alla sorella che le aveva con l’inganno rubato il marito, è lei che ottiene quello che voleva (il ritorno di Lajos), è lei che vive una giornata che dà senso alla sua esistenza e la guarisce dalla paura della morte, è lei che racconta, perché “vede la cicogna” della sua vita [4], ne riconosce il disegno e la compiutezza. Nel racconto di Eszter-Sándor le passioni si sono ormai decantate ed hanno messo a nudo quello che conta, la legge dell’esistenza e ciò che vi dà senso, e questa chiarificazione è per noi – potremmo dire, parafrasando il titolo – l’eredità di Sándor.
La conclusione è superlativa, in pianissimo: tutto il breve capitolo 20, e in particolare l’ultimo capoverso, con il vento che porta notizie da lontano e Eszter che si addormenta, spalancando un altro mistero. Questo passo si può accostare al 18° capitolo del Castello di Kafka: anche lì protagonista si addormenta proprio quando sta per raggiungere il suo obiettivo, l’incontro con uno dei “Signori” del Castello; anche lì la conclusione rimane aperta…
Márai si rivela insomma un manierista: come insegna la storia dell’arte, manierista è quell’artista che dipinge “secondo la maniera” dei classici – si pensi ad un Pontormo rispetto a Michelangelo, o a Tasso rispetto a Virgilio, o a Bandello rispetto a Boccaccio, per esempio – introducendo comunque qualche innovazione, che non è un essere da meno rispetto al modello, ma appunto un sintomo della modernità, della particolare sensibilità manieristica.

1 – CONTINUA 

QUI la seconda parte della mia lettura  


[1] J.ROTH, Il busto dell’imperatore, in ID., Il mercante di coralli, pp.159 ss., Adelphi, Milano 19916

[2] S. MÁRAI , Le confessioni di un borghese, Adelphi, Milano 2003, p.368

[3] cfr. M. D’ALESSANDRO, Le peregrinazioni di un borghese, in appendice a S. MÁRAI , Le braci, Adelphi, Milano 1998,p.179

[4] è la metafora usata da Karen Blixen nel racconto Le strade della vita, in K. BLIXEN, La mia Africa, Feltrinelli, Milano 199618