da: F. Kafka, Lettere a Felice 1912-1917, raccolte ed edite da E. Heller e J. Born, tradotte da E. Pocar, Mondadori, Milano 1972
Il primo presupposto per essere scrittori non è quello di essere desti, ma di obliare se stessi.
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Quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte.
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Scrivere in questo senso è uguale a un sonno profondo, cioè alla morte; come non si estrarrà un morto dal sepolcro, così non si può togliere me, di notte, dalla scrivania.
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Può darsi che il mio scrivere non sia niente, ma allora è certissimo e fuori di dubbio che io non sono assolutamente nulla.
da: M. Brod – F. Kafka, Un altro scrivere. Lettere 1904-1924, traduzione e introduzione di M. Rispoli e L. Zenobi, Neri Pozza editore, Vicenza 2007
Forse c’è anche un altro scrivere, io conosco solo questo, nella notte, ogni volta che la paura non mi fa dormire, conosco solo questo. E la dimensione demonica in ciò mi pare chiarissima.
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L’esistenza dello scrittore è davvero dipendente dalla scrivania; se vuole sfuggire la follia non deve mai allontanarsi realmente dalla scrivania, deve aggrapparvisi con i denti.
da: F. Kafka, Schizzi – Parabole – Aforismi, scelta, introduzione e note di G. Baioni, traduzione di A. Lavagetto, Mursia, Milano 1983
6 agosto 1914
Visto dalla prospettiva della letteratura, il mio destino è molto semplice. La capacità di rappresentare la mia vita interiore, così simile a un sogno, ha respinto tutto il resto fra le cose secondarie; tutto il resto si è atrofizzato in maniera spaventosa, e non cessa di atrofizzarsi.
Nient’altro, mai, può rendermi contento. Ora, però, la mia forza per quella rappresentazione è del tutto imprevedibile, forse è già scomparsa per sempre, forse tornerà a me ancora una volta, d’altronde le mie condizioni di vita non le sono certo favorevoli. Così vacillo, volo incessantemente sulla vetta della montagna, ma a stento riesco a sostenermi un istante lassù.
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25 settembre 1917
Temporanea soddisfazione posso ancora trarre da lavori come «Un medico di campagna», ammesso che ancora mi riesca qualcosa del genere (molto improbabile). Felicità però soltanto nel caso ch’io possa elevare il mondo nel puro, nel vero, nell’immutabile.
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Tutto ciò che fa gli sembra, è vero, straordinariamente nuovo, ma anche, in corrispondenza a questa impossibile pienezza del nuovo, straordinariamente dilettantesco, a malapena sopportabile, incapace di diventare storico; gli appare come qualcosa che spezza la catena delle generazioni, che per la prima volta interrompe, giù, in tutte le profondità, la musica del mondo, che finora si riusciva almeno ad intuire. A volte, nella sua superbia, ha più paura per il mondo che per se stesso.
(a cura di Gabriella Mongardi)