FULVIA GIACOSA
Sul finire degli anni ’50 l’Informale volge al tramonto sia per ragioni interne (una certa ripetitività e un eccesso di autobiografismo solipsistico che esalta il dialogo tra artista-opera a danno del rapporto fruitore-opera), sia per ragioni esterne (le esigenze di un mercato che necessita di novità più adatte ai tempi). In tale frangente nascono tendenze di segno opposto come il New Dada che rappresenta un ritorno ad una figurazione attualizzata che tiene conto della società consumistica legata al boom economico del quale restituisce i caratteri scegliendo immagini di oggetti comuni, banali, prosaici. Fenomeno tipicamente americano – anche se non mancano esperienze europee simili come il Nouveau Réalisme – è una immersione nel mondo delle cose e, in tal senso, apre la strada alla Pop Art. Negli USA i protagonisti sono Robert Raushenberg e Jasper Johns, entrambi sostenuti dai critici Robert Allowey e W. C. Seitz che ne curano le mostre decretandone il successo.
Se si vuole cercare un antecedente occorre risalire al Dadaismo -come conferma il nome del movimento- dal quale vengono recuperate le tecniche del collage, dell’assemblaggio e dell’ objet trouvé, con l’introduzione diretta delle cose o attraverso la loro immagine stereotipata; in particolare rispolvera i ready-made di M. Duchamp, esposti con successo nella retrospettiva del 1963 a New York, anche se la nuova corrente esclude la ri-semantizzazione duchampiana spesso enigmatica e ironica, preferendo selezionare oggetti di forte impatto iconico rielaborati pittoricamente in grandi formati. È lo stesso Duchamp a chiarire le differenze nel 1962: “Quando scoprii i ready mades pensavo di eliminare tutto il vecchiume artistico. Nel new dada invece li utilizzano per scoprirvi un valore estetico. Gettai in faccia alla gente l’asciugabottiglie e l’orinatoio per sfidarli, e adesso li ammirano perché esteticamente belli! “. L’idea centrale del New Dada è infatti il riscatto estetico del banale, non l’ “indifferenza estetica” dell’artista francese. All’oggetto, ricoperto di pittura ancora gestuale in Rauschenberg o rappresentato con una tecnica raffinata in Johns, il New Dada toglie ogni funzione pratica e lo tramuta in icona domestica (“pop-olare”) del presente.
Jasper Johns (1930), dopo la separazione di genitori piuttosto disattenti nei confronti del figlio, cresce tra Georgia e South Carolina con i nonni e gli zii in una povera casa colonica. Fin da giovanissimo il suo sogno è diventare artista, così nel 1952 si trasferisce a N.Y. e si iscrive a un corso d’arte, facendo il fattorino e lavorando in una libreria per mantenersi. Nel 1954 incontra Rauschenberg e comincia a dipingere. I primi cicli di opere (dal 1955 a fine decennio) hanno per soggetto i “Bersagli”, i “Numeri”, gli “Alfabeti”, le Bandiere”, soggetti che gli hanno dato fama internazionale. Notato dal gallerista Leo Castelli, ottiene la prima personale nel 1958 con successo di pubblico e di istituzioni museali (il MOMA gli compera tre opere). I “Bersagli”, quelli con le freccette, sono oggetti comuni nelle case americane; il primo, “Green Target” (1955) è appena visibile nella tela completamente verde, quasi inafferrabile con gli occhi; altri, di grandi dimensioni, hanno calchi di volti in gesso come in “Target with Four Faces” (1955) dove il bersaglio è sormontato da 4 caselle contenenti ciascuna la riproduzione di una faccia tagliata all’altezza degli occhi. Ciò che spiazza l’osservatore è una serie di contrasti: il bersaglio, dipinto su una base di carta di giornale, è colorato in modo piatto mentre, in alto, le quattro facce a bassorilievo sono monocrome, inespressive e mancanti della parte superiore al naso. Inoltre il bersaglio, soggetto contemporaneo e banale, è realizzato con la tecnica raffinata dell’antico encausto romano: si tratta di mescolare pigmenti e cera fusa cui Johns aggiunge pezzi di giornale; è proprio la tecnica che, asciugando rapidamente, lascia ben visibili le pennellate e le spatolate sovrapposte. Ciò che l’artista vuole ottenere dallo spettatore è una riflessione sul “vedere”: solo la tecnica pittorica così ricercata distingue l’oggetto, che la mente conosce già, dalla sua imago pittorica. Ciò vale anche per le serie dei “Numeri” e degli “Alfabeti”: il loro soggetto è già scritto nei titoli, dunque l’artista ci chiede di concentrarci sul fare pittorico. Lettere e Numeri sono disposti in modo paratattico in strisce orizzontali in doppia fila, hanno colori prevalentemente primari (giallo rosso e blu) stesi con pennellate pastose, rapide, gestuali e dall’effetto tridimensionale. La serie più nota è però quella delle “Bandiere” americane. La prima, del 1955, è “White flag”: alla semplicità del soggetto corrisponde un processo realizzativo assai sofisticato -leggibile solo se visto dal vero- che permette di individuare ogni operazione, vale a dire lo strato sottostante con frammenti di giornale e stoffa mescolati con la cera liquida che solidificandosi ne conserva la traccia e la successiva verniciatura. Johns, come si diceva, spinge i fruitori dell’opera a concentrarsi sulla simulazione dell’oggetto, siamo dunque lontani dal prelievo dadaista tanto quanto dalla freddezza grafica della successiva Pop Art. Qui si fa pittura parlando della pittura (“il soggetto non è la bandiera americana bensì la pennellata o la fisicità della pittura”, dice Johns). In particolare la monocromia della “White Flag” rende con un’efficacia straordinaria il carattere unitario della composizione evidenziando inequivocabilmente che si tratta di pittura non di realtà. Questo vale per tutta le altre Bandiere di Johns, la più nota delle quali è “Tree Flags” (1958), sempre a encausto e composta di tre tele applicate su tre pannelli di legno sovrapposti dalla più grande sul fondo alla più piccola in primo piano, invertendo la tradizionale profondità prospettica e facendole sporgere verso chi guarda. La bandiera diventa un oggetto come un altro sul quale intervenire per privilegiare il suo essere tela, motivo geometrico, colore, composizione. Dice l’artista: “Mi interessa, di una cosa, il suo non essere più quello che era, il suo divenire altro da quello che è, m’interessa ogni istante nel quale uno identifica con precisione una cosa, e m’interessa il fuggire continuo di questo istante, mi affascina ogni momento del vedere o del dire o del lasciarsi andare a tutto questo“.
Tra i soggetti successivi (anni Sessanta) troviamo le “Mappe” degli Stati Uniti che, pur riconoscibili, possono apparire quasi astratte al primo sguardo. Prevalentemente ad olio sono una musica di colori sulla superficie della tela; il sostanziale rispetto della forma dei vari Stati crea una tassellatura di rossi blu e gialli che ci riporta all’ultimo Cézanne.
Intanto l’artista inizia anche a lavorare in tre dimensioni. Mi soffermo soltanto su due lavori, “Painted Bronze” (1960) e “Savarin Cane” (1961): la partenza è un ready made alla Duchamp ma qui l’oggetto è riformulato in immagine. “Savarin Cane” non è che un barattolo di caffè (Savarin è la marca) che gli informali come De Kooning abitualmente usavano per infilarvi i pennelli, presenti anche qui dentro il contenitore. Sembra quasi che Johns abbia voluto fare un omaggio a coloro che avevano fatto grande l’arte americana trasferendo nel nobile bronzo il calco di questo barattolo di caffè e i pennelli, poi colorati per assomigliare meglio alla realtà. Stesso discorso si può fare per “Painted bronze”, due calchi di lattine di birra “Ballantine” fusi in bronzo e decorati con scritte identiche a quelle vere per cui di primo acchito spiazzano chi guarda; esse diventano, per dirla con Boatto, una trappola visiva modernissima che evidenzia la profonda ambiguità di ciò che chiamiamo mondo reale.
Nei Settante e poi negli Ottanta si sussegue una quantità di opere ma qui non abbiamo lo spazio per parlarne. Peraltro l’artista passa anche lunghi periodi di inattività e dal 1995 si allontana dal chiassoso mondo artistico della metropoli ritirandosi in una tenuta su un’isola del Connetticut e tenendosi isolato da critici, giornalisti e galleristi (il motto “vivi nascosto” è rubato a Eraclito). La sua fama d’altronde è ormai all’apice e anche la Biennale veneziana del 1988 gli rende omaggio con il Leone d’oro. Chiudiamo con un’opera tratta da una serie iniziata nel 2012, “Regrets” (rimpianti) dell’anno dopo: erano morti da poco Rauschenberg (2008) e Twombly (2011) che erano stati più che compagni d’arte per Johns, ma starter è stata una fotografia del 1964 che ritrae Lucien Freud in totale disperazione su un letto sfatto; profondamente turbato da quella immagine Johns riporta su tela alcuni particolari della foto come i disegni astratti della coperta a patchwork e l’esile figura di Freud avviluppato su se stesso: l’esito è una resa quasi munchiana che rivela emozioni e sentimenti d’angoscia di Johns, lui che non aveva mai voluto fare quadri “autobiografici”, anche se in tutto il suo lavoro c’è sempre stata anche l’esistenza dell’uomo, tant’è che gli oggetti non sono mai “nuovi di zecca” ma usurati dal tempo e carichi di vita vissuta. Forse l’età avanzata lo porta verso il mondo dei ricordi e dei rimpianti. Scrive Boatto: “La soggettività dell’artista resta ma non è più centrale come nell’informale perché l’artista è totalmente proiettato sulla e nelle cose. L’arte diventa una sorta di “biografia realizzata” poiché la vita è una successione di incontri con cose materiali”.
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