ANTONIO VIGLINO
Si è da poco concluso il Torneo dei candidati, il super-torneo di scacchi per eccellenza, con l’esito della designazione dello sfidante del campione del mondo nell’incontro alla meglio delle dodici partite che si terrà l’anno prossimo. L’attuale detentore del titolo è il cinese Ding Liren, il suo sfidante, appunto il vincitore del Torneo dei canditati, è il diciassettenne indiano Dommaraju Gukesh.
Come si sa, almeno fino tutto il XX secolo gli scacchi erano dominati dai giocatori russi, o meglio sovietici giacché ad esempio M. Tal, il mago di Riga, così come T. Petrosjan e lo stesso G. Kasparov erano nati in quelle che oggi sono Repubbliche ex-sovietiche. Nell’ultimo decennio il re degli scacchi è stato M. Carlsen, norvegese; ed in verità senza ombra di dubbio lo è ancora, poiché, pur avendo per noia rinunziato al titolo di campione del mondo, che ha detenuto per una decina d’anni, batte ancora pressoché qualunque avversario nei tornei cui partecipa. Carlsen è un super-genio degli scacchi, così come lo furono Kasparov, Karpov, Fischer, Borvinnik, Capablanca, Alekhine, Steiniz, Morphy e pochi altri; un gradino al di sotto vi sono quelli che oggi sono detti i super GM (grandi maestri), che pur essendo ovviamente estremamente geniali nel gioco non hanno quel livello di padronanza e spietatezza che contraddistingue i campionissimi. Gukesh ha solo diciassette anni, ma la freddezza e la precisione chirurgica con cui ha disputato il Torneo dei canditati lo proiettano alle falde dell’Olimpo, il tempo dirà se potrà scalarlo.
Il genio negli scacchi sconta sì naturalmente anni di studio, di allenamento della memoria, nonché ore ed ore, ai giorni nostri, passati davanti agli schermi del computer, ma in effetti dipende puramente dal talento naturale, precisamente dalla profondità delle capacità di visualizzazione. Tutto cioè dipende dall’intensità del talento naturale: ci sono giocatori che nascono grandi maestri e mai potranno ascendere a punteggi più alti che i 2600 punti ELO, altri il cui limite è quello di Maestro Internazionale o di maestro, o anche sì super GM ma senza poter ambire assurgere al ruolo di campione imbattibile: appunto tutto dipende dal dono di natura — e questo fatto, cioè la gratuità delle capacità scacchistiche, lo descriveva già S. Zweig nella sua Novella degli scacchi, dove si narra del campione del mondo degli scacchi che era al contempo inetto per ogni altra vicenda della vita quotidiana. Ed in effetti si può dire che in qualunque ambito sia così, cioè che i risultati che uno possa conseguire nel campo in cui versa dipendano essenzialmente dal grado di apertura che la natura gli concesse; solo che nel mondo degli scacchi questa gradualità è coglibile con maggior facilità.
Per altro verso, a qualunque livello di capacità di gioco gli scacchi sono da considerarsi come estremamente stimolanti per la mente; vale a dire che questo gioco senza dubbio può aiutare ad acquisire una capacità di visione delle situazioni a partire da un certo distacco. Gli scacchi non sono solo arido calcolo di sequenze di varianti, sono altresì imprevedibilità ed intuizione: ed infatti ogni manuale di scacchi distingue la strategia dalla tattica. Già solo il possedere in qualche recesso della mente questa distinzione può essere utile come regola di giudizio: la strategia è appunto la visione del quadro d’insieme, il proporsi un obbiettivo di lungo periodo e il perseguirlo lentamente ed assiduamente, come può essere alla scacchiera il fissare una debolezza nel campo avversario, ad esempio un pedone arretrato, per poi far convergere su questo obiettivo le direttrici d’attacco, oppure il decidere per l’arrocco lungo sul lato di Donna allo scopo di attaccare violentemente l’arrocco sul lato di Re dell’avversario. La tattica invece è lo sfruttare la situazione contingente che appare sulla scacchiera, magari in conseguenza di un errore avversario, o per circostanze fortunate: sacrificare un pedone o un pezzo per poi innescare una sequenza forzata che conduce allo scacco matto, o ad un vantaggio materiale cospicuo. Dei due grandi avversari degli anni ’80, Karpov era strategico, ed era detto il pitone per come lentamente soffocava e quindi paralizzava la posizione avversaria, Kasparov invece riusciva ad elucubrare attacchi mirabolanti basati su sacrifici e mosse eclatanti. Ma, va da sé, tattica e strategia sono solo due modi di vedere la posizione, e si debbono integrare vicendevolmente: un piano strategico di lungo respiro può essere contemplato doversi attuare ad un certo punto mercè un tatticismo, così come l’esito di un colpo tattico può essere un vantaggio decisivo sì ma di natura posizionale. Molti sostengono l’opportunità di far apprendere il gioco di scacchi ai ragazzi nelle scuole, perché questo gioco insegna appunto a misurarsi con situazioni reali che richiedono decisioni concrete — laddove oramai la tendenza è quella di delegare tutto al telefonino, vuoi alla “sapienza” mainstream di Wikipedia vuoi alla calcolatrice tuttofare.
Finora si sono detti gli scacchi un gioco, ma in verità non solo per nulla solo un gioco; per alcuni sono uno sport: mentale sì, ma la fatica fisica di condurre partite di torneo di quattro o più ore senza perdere la concentrazione anzi cercando di escogitare soluzioni vincenti non è inferiore alla fatica del correre gare pedestri; oppure si possono gli scacchi a buon diritto definire una forma d’arte, perché in effetti la bellezza di certe combinazioni tattiche o di certe vedute posizionali è sicuramente un frutto del puro ingegno. Kasparov ebbe a dichiarare che gli scacchi, sia che li si consideri gioco, sport o arte, sono comunque una delle attività più violente e feroci: il fine dichiarato è infatti dare lo scacco matto, cioè l’uccidere il Re avversario, con qualunque mezzo lecito.
Gli scacchi assai di frequente sono stati assunti quali motivi conduttori o sono comparsi come camei in molti testi letterari e in pellicole cinematografiche, dal Settimo sigillo di Bergman, dove il cavaliere, Max von Sydow, gioca appunto a scacchi con la morte, a 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, dove il computer di bordo, Hal 9000, gioca spesso a scacchi con l’equipaggio. E proprio i computer hanno sempre più negli ultimi decenni giocato, interagito, e quindi concorso a modificare l’ambito scacchistico. Se fino all’inizio degli anni 2000 i super GM potevano competere con i motori scacchistici, al punto che si organizzavano match tra umani e macchine, oramai i programmi, a maggior ragione poi se supportati da hardware di peso, sono inaffrontabili da parte degli uomini. Questo perché i computer non commettono errori, e sono in grado di sfruttare con il bruto calcolo ogni minima e insignificante leggerezza nel campo avversario; ma non è più solo così, perché oramai l’intelligenza artificiale escogita da sé nuovi e inusitati approcci posizionali, come gli improvvisi attacchi del Bianco con il pedone sulla colonna h contro molte varianti della Difesa di Gruenfeld — il motore scacchistico AlphaZero ha giocato per mesi ininterrottamente da solo, imparando strategie e tattiche in base alle proprie partite, per crearsi così un proprio stile di gioco. Per altro verso i programmi scacchistici oramai sono aspetti fondamentali della preparazione dei giocatori, sia in piccolo i giocatori da circolo sia i grandi maestri impegnati nei più prestigiosi tornei. Il modo in cui sono i computer sono sfruttati è per lo più la preparazione delle varianti di apertura, calcolate, ad alto livello, fino a buona parte del medio-gioco. E in questa prospettiva la sagacia di un maestro sta nell’evitare la preparazione dell’avversario e nello scegliere varianti che, sebbene teoricamente minori, siano state non indagate a fondo dall’avversario, allo scopo di ottenere una sfida a viso aperto — cosa che ha fatto spesso Gukesh nel Tornei dei candidati.
Molti ululano che i computer abbiano inaridito le partite di scacchi, ma non è per nulla così: i programmi scacchistici sono semplicemente un mero supporto portato dal mutare dei tempi, opinare diversamente è come dire che le guerre contemporanee siano meno dolorose di tutte quelle che hanno costituito la storia del mondo occidentale solo perché le armi sono più sofisticate.