“MÜRAC”: mostra fotografica a Pontebernardo

giacosa-05FULVIA GIACOSA

L’ Ecomuseo della Pastorizia di Pontebernardo, piccolo ma curatissimo borgo dell’alta valle Stura, ha inaugurato il 6 luglio una mostra fotografica di Luca Giacosa che si può visitare gratuitamente in luglio e agosto nei fine settimana dalle 15 alle 18 e ancora da settembre a dicembre nell’ultima domenica di ogni mese (tel. 347211837. Sito: ecomuseopastorizia@vallestura.cn.it).

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Luca Giacosa è nato ad Alba nel 1982 e si è dedicato alla fotografia dopo essersi laureato presso l’Univesità del Galles a Newport in Documentary Photography. Tuttavia l’aspetto prettamente documentaristico degli inizi ha lasciato presto il posto a una ricerca alternativa in grado di oltrepassarne i limiti narrativo-didascalici in favore di una maggiore assolutezza dell’immagine, come testimoniano le ultime esposizioni in Italia e all’estero (Gran Bretagna). La scelta di Pontebernardo come luogo espositivo è pertinente con i temi di fondo della sua attuale indagine sulle condizioni di vita delle comunità alpine sempre più fragili dopo anni di spopolamento e ora minate anche dai cambiamenti climatici che incidono negativamente sulle attività pastorali. Anche i castagneti che per molto tempo avevano sostenuto l’economia del territorio non sono più sufficienti a sopperire alle necessità degli abitanti. Di questo ci parlano le fotografie realizzate nella vallata alpina che l’autore conosce bene perché ci ha vissuto per una decina d’anni (a Sambuco) creando una serie di relazioni con i pastori locali o gli immigrati in cerca di lavoro. L’occhio sensibile del fotografo certifica una vicinanza sincera a problematiche attuali: l’interazione tra uomo e ambiente, tra attualità e tradizioni nonché  l’emarginazione sociale di piccole comunità (tema già presente negli anni di frequentazione dell’Università e successivamente  in una serie di lavori sulla vita di montagna che ricorda certe pagine di Il mondo dei vinti di Nuto Revelli).

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I soggetti dominanti dell’attuale esposizione sono gli alberi, soprattutto i castagni con le loro cortecce che paiono sculture e le loro chiome ricche di foglie, alberi secolari i cui frutti sono necessariamente selezionati per il commercio con inevitabili scarti delle castagne meno pregiate (questo significa il termine dialettale mürac che dà il titolo alla mostra). Essi diventano personificazione vegetale di quel senso di abbandono che aleggia ancora sulle borgate nonostante i pochi “resilienti” che qui hanno deciso di continuare a vivere. Alcune immagini tracciano le stradine e le case della borgata viste dall’alto e disegnano percorsi geometrici quasi astratti. Non mancano, a ribadire miseria e solitudine contro cui chi è rimasto (in alcuni casi “tornato”) lotta coraggiosamente, interni di case abbandonate da decenni, travi di soffitti crollati, lastre d’ardesia inutilizzate, un camino spento in disuso, scarti di grate ferrose, oggetti poveri come una valigia con logore maglie di lana, vecchi fiaschi di vino ormai vuoti, insomma avanzi di un passato senza più vita  immobilizzati nell’istantaneità dello scatto che un attimo dopo consegna inevitabilmente l’immagine ad un tempo trascorso facendosi memoria.

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Ma c’è di più: ciò che abbiamo elencato viene isolato dal suo contesto reso invisibile da un nero profondo e assoluto che attornia le cose e finisce di traslare i soggetti – i soli visibili grazie alla luce epifanica del flash – in un altrove immaginario, un vuoto carico del mistero delle tenebre. Le rigogliose fronde degli alberi si illuminano di una luce propria, sfavillante come le stelle notturne e nel loro balenio paiono incedere verso di noi a portare luce su un mondo morente fatto di ricordi emozioni racconti.  Le foto, scattate appunto in notturno, vi si sprofondano rinunciando allo sguardo diurno che tutto comprende a partire dallo spazio fisico per privilegiare il frammento, portatore di senso, che ci interroga sul nostro vedere e invita a personali riflessioni. Dice l’autore  in un’intervista: “l’oscurità aiuta a essere ciechi per poter vedere con occhi nuovi”, un monito per noi che siamo diventati troppo miopi (ristretti in un eterno presente) e incapaci di cogliere l’arcano dentro il tangibile: le immagini  di Luca sono invece  contemporaneamente nascondimento e rivelazione.
Negli ultimi anni l’autore si è interrogato sulle finalità della fotografia contemporanea sia sul piano concettuale che tecnico. Certe scelte formali (il B/N, il formato quadrato che fissa l’immagine in uno spazio metafisico e immoto, l’assenza di figure umane) aggirano la narrazione tradizionale che “disegnava” il visibile con forme, luci, ombre, volumi, e lasciano il posto a un approccio laterale, emotivo e interrogativo che esclude soltanto risposte “indifferenti” da parte dello spettatore.
Convinto che“le fotografie si creano, non si catturano”, va in una direzione alternativa rispetto a quella ancora pienamente novecentesca di un grande fotografo come Cartier-Bresson per il quale tutto ruotava intorno all’istante decisivo connaturato all’idea di “cattura” del reale (“Il fotografo – diceva – deve tendere agguati, fare la posta alla sua preda … rendersi invisibile per poi sferrare l’attacco”). Oggi la fotografia è innanzi tutto specifico “linguaggio”, inventivo e insieme auto-riflessivo come gran parte dell’arte contemporanea (già indagato da Roland Barthes, Susan Sontag, Rosalin Krauss). Lo scatto “puro”, la sua istantanea trasparenza che un tempo giustificava la veridicità della fotografia, si è rivelato nel tempo fragile. Lo statuto estetico che ormai essa si è conquistata ha matrici concettuali e richiede una vera e propria “progettazione” dell’immagine al fine di rendere “consapevole” l’atto del vedere del fruitore.
Le fotografie di Luca mi sembra stiano in tale solco e ci aiutino a cambiare il modo in cui guardiamo il mondo.

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