GABRIELLA VERGARI
«Pronto, Mariolina?»
«Sì, chi parla?»
Che il numero sul display non fosse tra i memorizzati faceva poca differenza perché mia zia, per nulla pratica di cellulari e altri simili diavolerie tecnologiche, non registrava di norma i contatti, non teneva conto della cronologia e non intendeva stare in alcun modo dietro alle moderne corbellerie.
«Il nome non importa,» proseguì brusca la voce all’altro capo «importa invece che tu…»
«Ah no, mi dispiace,» la sentii trillare risentita «così non andiamo da nessuna parte e non ascolterò nessun messaggio, senza prima conoscere il suo nome. Non me ne voglia, ma è proprio una questione di rispetto ed educazione, almeno a casa mia.»
«Allora faccia conto di chiamarmi… Antonio.»
«Ha visto, Caro,» proseguì a questo punto lei «che ci voleva? Così va molto meglio. E poi si tratta di un nome bellissimo. Lo festeggia per S. Antonio da Padova o S. Antonio Abate?»
«Ascolti…» grugnì l’altro con un tono di cui, dal momento che mi trovavo a portata d’orecchio, non potei non notare l’innegabile aggressività.
C’era proprio qualcosa che non andava, in quella storia, e cominciai a fare cenno alla zia di riagganciare subito.
Per tutta risposta, presa dal compito di impartire, come al suo solito, un paio di lezioncine di galateo e bon ton al suo rozzo interlocutore, lei mi tacitò veloce con un rapido gesto della mano.
«È davvero un cafone» mi sussurrò tuttavia in confidenza, poggiando la destra sul microfono per non farsi sentire, prima di lanciarsi in una dotta dissertazione sulla distinzione tra i due Santi, miracolosissimi entrambi, uno però impegnato nella lotta all’eresia, l’altro nell’anacoresi, tanto da essere considerato il fondatore del monachesimo.
La competenza agiografica era un po’ il suo cavallo di battaglia, fin dal tempo della tesi di laurea magna cum laude e bacio accademico in fronte, e non le pareva vero di poterla spendere non appena le si presentava l’occasione.
«Perciò, Caro Signore,» concluse dopo una tirata di un cinque minuti buoni «mi permetto di consigliarle di approfondire la cosa. Facciamo, così, quand’è che festeggia l’onomastico? Il 13 giugno o…»
«Senti, Befana del cazzo…»
La violenza dell’ingiuria mi colpì come uno schiaffo.
A dispetto di quel che mi sarei aspettato, mia zia si limitò invece a tirare un respiro più profondo, stringere le labbra e strizzare gli occhi, segno inequivocabile del suo affilare le armi, prima di partire lancia in resta: «Senta figliolo, Antonio Caruccio o comunque si chiami, i suoi modi sono del tutto inqualificabili. Io non so chi le abbia impartito, con così scarsi risultati, l’educazione ma so per certo, avendo fatto la maestra per più di quarant’anni, che insultare il prossimo denota soltanto la propria indiscutibile debolezza di carattere.
Non gliel’hanno insegnato che non è con le urla che si ottiene ragione? Perciò adesso, da bravo, ricominciamo daccapo, con la cortesia e il garbo dovuti, e io mi sforzerò di mettere una pietra sopra le sue volgari intemperanze.
Allora, cos’è di tanto urgente che doveva dirmi?»
Sempre più perplesso della piega assunta da quella strampalata conversazione, mi disposi anch’io ad ascoltare il seguito, sospeso tra la curiosità e l’allarme. Non avevo la minima idea di ciò che ne sarebbe sortito, né di quello che il fantomatico Antonio potesse volere da mia zia, donna di specchiate virtù e ancor più virtuosi costumi.
Ancora una volta la invitai a chiudere e ancora una volta lei scacciò via con la mano le mie insistenze come levandosi di torno una zanzara fastidiosa.
Dopo una pausa che mi parve un secolo, la voce dall’altro capo chiese, sempre arrogante ma con una punta di incertezza in più: «Parlo con Mariolina Sparti?»
«Certo che no, mio Caro, sono Mariolina De Benedetti»
«O porca puttana…» sbottò l’altro, dileguandosi nell’oceano delle onde elettromagnetiche.
«Ha riattaccato» mi guardò sconcertata la zia, quasi l’avessero privata di un giocattolo difettoso eppure tutto sommato divertente.
«E menomale…» commentai, tergendomi non solo metaforicamente la fronte.
«Mi sa che aveva sbagliato numero» constatò lei delusa, girando e rigirando il cellulare come se le potesse dare i chiarimenti desiderati.
«Uhm, mi sa di sì» le feci eco.
«Chissà che avrà voluto…»
«Nulla di buono, zietta, nulla di buono» le ribadii, con dolcezza.
«Già, nulla di buono» annuì pure lei con lentezza, scuotendo il capo. «C’è davvero della gente incredibile al mondo. Meglio perderla che trovarla… solo mi dispiace che adesso non sapremo mai il giorno dell’onomastico del nostro Antonio » concluse mesta, con una voce piena di rammarico.
«Pazienza, mia cara, vorrà dire che ce ne faremo una ragione…» chiosai per consolarla, accarezzandole la mano con tenerezza infinita.
E come avrei potuto non farlo?
(Il racconto è tratto dall’antologia Voci sul filo, a c. di C. Consoli e L. La Rosa, Algra Editore, Catania 2023)