CLAUDIO SOTTOCORNOLA
Confesso che sono colpito dal destino ambivalente dell’estetica nella contemporanea civiltà occidentale. Da un lato, proprio perché civiltà dell’immagine, essa sembra avallare la massima considerazione per ciò che concerne la bellezza dell’apparire, dall’altro è sotto gli occhi di tutti l’abbruttimento del gusto collettivo, amplificato da mass e social media che finiscono con lo stabilire canoni estetici sempre più grossolani e volgari, che però si impongono come dominanti ed emarginano ogni vera bellezza dallo scenario pubblico. Non si tratta tanto di un mutare di mode e costumi, ma di una trasformazione antropologica in atto che appare dolorosamente irreversibile, e coinvolge alla fine non solo il senso del bello, ma anche quelli correlati del vero e del buono, determinando in tal modo un nuovo paradigma dell’umano, ovvero della sua forma ideale, e dunque del valore a cui tendere.
Per rintracciare una visione profeticamente anticipatrice di ciò, possiamo riferirci al grande lavoro svolto da Hans Urs von Balthasar, in particolare con la sua “Gloria. Un’estetica teologica” (1961-69), ove denunciò il declino e l’abbandono della bellezza da parte del mondo moderno, con le sue terribili conseguenze: “La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza” (dall’Introduzione). Il geniale teologo aveva dunque diagnosticato una sorta di relazione di causalità fra la nascita di un moderno mondo degli interessi e l’abbandono della bellezza nella esperienza collettiva di tale mondo. Evidentemente di quel mondo dominato dalla tecnica, trionfante in età moderna a seguito della rivoluzione scientifica, la cui massima espansione si è avuta nel sistema capitalistico occidentale, che ha improntato di sé il pianeta, anche con gli ormai noti devastanti effetti dei cambiamenti climatici in atto.
E perché tale mondo sarebbe stato abbandonato dalla bellezza? La risposta appare abbastanza scontata se riflettiamo ad alcuni snodi epocali del pensiero moderno stesso. La rivoluzione scientifica, con il suo metodo osservativo, empirico-matematico, portava necessariamente a considerare della realtà solo gli aspetti quantitativi, facilmente misurabili e condivisibili rispetto a quelli qualitativi, che dunque finirono relegati all’ambito della soggettività e dell’ininfluenza, anzi della più radicale arbitrarietà. Ma il colore rosso è solo una determinata lunghezza d’onda o è anche quella particolare condizione che associamo poi a un’emozione (per esempio, preferisco il rosso o il blu?). La filosofia classica riconosce esistenza alle qualità, quella moderna tende a negarla. Il mondo che ne esce è dunque solo un grande costrutto matematico-geometrico e considerarlo da questo punto di vista produce non pochi vantaggi oggettivi, perché non ci si perde – come temeva lo stesso Galilei – nella ricerca delle essenze, ma ci si concentra sulla relazione tra i fenomeni, in modo da porre quelli utili (per esempio a curare una malattia) e da rimuovere quelli dannosi (per esempio quelli che provocano la malattia). “Sapere è potere”, dichiarava nel ’600 Bacone, il profeta della nuova scienza, mentre il grande filosofo Cartesio costruiva un sistema in cui vigeva la più netta separazione fra materia e spirito, res extensa e res cogitans, tanto che il rapporto fra anima e corpo vi è praticamente concepito alla stregua di quello fra un pilota e la sua autovettura, e dunque risulta totalmente estrinseco rispetto a quello classico-medievale di anima come forma del corpo che, in quanto tale, riguardava anche animali e piante, ora ridotti a puri automi. Tale concezione del sapere come capacità tecnica influì senz’altro ridimensionando l’attenzione agli aspetti valoriali, qualitativi, ontologici ed esistenziali, soprattutto nelle successive rivoluzioni industriali che, fra ’700 e ’900, amplificarono l’uso di una ragione strumentale, per esempio, attraverso fordismo e taylorismo, in una razionalizzazione del lavoro di fabbrica dalle conseguenze spesso alienanti per l’operaio. Dov’è la bellezza negli scenari desolati delle periferie maleodoranti del Regno Unito all’epoca della prima rivoluzione industriale? O nella disumana e ripetitiva accelerazione di atti sempre uguali alla catena di montaggio, fra gli operai immigrati negli stabilimenti del primo Novecento in America?
E, più recentemente, dov’è la bellezza nella rivoluzione informatica per la quale sussisti solo in quanto rappresentazione digitale? Ecco il paradosso con cui abbiamo aperto la nostra riflessione e che vorremmo sviscerare. Nell’età aurea del divismo hollywoodiano, fra gli anni ’30 e ’60 del Novecento, un’aura di sacralità idealizzante circondava la star, un vero e proprio ologramma o paradigma di grazia, perfezione, eleganza, si chiamasse Greta Garbo, Marlene Dietrich o Marylin Monroe. Non stiamo parlando di tendenze estetiche, ma in primis esistenziali e ontologiche. In una forma, se vogliamo ingenua e un po’ barbarica, tuttavia la diva e il divo erano modelli proposti ad una emulazione verticale, tanto che il pubblico tendeva ad imitarne pose e atteggiamenti e, come testimonia Geoff King, celebre studioso del divismo hollywoodiano, in quel modello vedeva una magica riconciliazione di opposti, una superiore sintesi antropologica. Quel che si vuole con ciò evidenziare è che fondamento di tale virtuale emanazione non potevano che essere, in quel contesto, carisma e talento personale, naturale magnetismo e rigorosa professionalità, in una sorta di aristocrazia estetica per cui la diva era l’opera d’arte, tanto che Andy Warhol, il massimo esponente della pop art, ne trasse – di Elvis, di Marylin, Liz Taylor, James Dean e tanti altri – reiterate serigrafie bizantineggianti nella loro enigmaticità. La digressione mi è utile, passando da un ambito laico e profano a quello eminentemente spirituale del sacro, per mostrare le analogie che si possono cogliere fra la ieraticità maestosa di queste serigrafie dell’Assenza e la grande tradizione iconografica delle Chiese orientali che, come sappiamo, con le sue figure archetipiche e stilizzate, intende trasfigurare l’umano secondo una teologia della manifestazione che a tale umano conferisce, ancora una volta, ieraticità, maestosità, splendore, nell’orizzonte, peraltro, di una liturgia che della bellezza vorrebbe essere celebrazione e anticipazione piena. Si sono scelti due ambiti così diversi per mostrare che – sia pure in scenari completamente alternativi – la mozione idealizzante, verticale, di perfezionamento, con esigenze ascetiche dalle immani ricadute estetiche, ha prodotto una grande arte, entro una grande civiltà, espressione, prossima o remota, di una grande spiritualità.
Quando lessi per un esame universitario “Coming of age in Samoa” (“L’adolescente in una società primitiva”), pubblicato nel 1928 da Margaret Mead, fui colpito da alcune considerazioni della grande antropologa americana, che qui riferisco sommariamente. Vivendo a stretto contatto con le comunità di indigeni di quelle isole, in tempi ancora lontani da globalizzazione e internet, ella riferì di una vita degli adolescenti locali in qualche modo più libera e meno soggetta ai rigorosi divieti e restrizioni imposti agli adolescenti della civiltà occidentale di allora. Riscontrò una sorta di maggior serenità immediata in quei giovani, ma concluse che la grande arte e le grandi elaborazioni culturali, la grande interiorità presupposta dalla poesia e dal pensiero sistematico in Occidente non erano che il frutto di quei divieti e di quelle restrizioni, che, in certo qual modo, più adeguatamente sembravano orientare alla complessità.
Ne segue che, se destituiamo di complessità, e dunque di richieste esigenti e risposte adeguate, l’educazione e l’esperienza dei nostri giovani nella ipertecnologica società contemporanea, faciliteremo il loro ristagnare nei pascoli del confort, del consumo, della superficialità e irresponsabilità, fra sballi del sabato sera, stragi da overdose e alcool, scontro fra gang nelle grandi periferie urbane, dipendenza da social e cellulari. Ma il vero pericolo, soprattutto in tempi ove la pandemia, con l’utilizzo massiccio di didattica a distanza, ha ulteriormente impoverito l’offerta formativa delle scuole, è l’eclissarsi di consapevolezza personale e memoria storica, capacità di ascolto e di racconto, discernimento e stupore nella percezione del reale, per cui fanno tendenza l’ignoranza, l’incoscienza, la forza o l’avvenenza fisica, vissuti come strumenti di seduzione e di potere personale entro una antropologia beota.
Nell’era digitale, per i miliardi di paginate Facebook, Instagram, Twitter, contano solo i like e i follower, che sollecitano a un ammiccante richiamo, immediato ed epidermico. Ecco perché dobbiamo educare nei giovani non solo intelletti rivolti a operazioni tecniche, magari complesse (e aggiungiamo, a scanso di equivoci, necessarie), ma anche la sensibilità, come luogo della familiarità con il bene che si manifesta nel bello, e infine la volontà, come orientamento alla attuazione di tale bene. Ma chi oggi educa il cuore? Chi educa al bene? E dunque, dove sta ormai la bellezza?
Marko Ivan Rupnik, presentando il pensiero del grande teologo e filosofo russo Vladimir Solov’ëv, sottolinea che “l’idea che non è capace di incarnarsi come bellezza dimostra la sua impotenza. La bellezza è la carne del bene e del vero, ed è questa la cosa davvero straordinaria. Il bene, per essere veramente tale, ha bisogno di manifestarsi come bellezza” (Quando la bellezza giudicherà il bene, Agorà, 03.06.15). Ma questa è la bellezza della vita, che ha più a che fare con l’interiorità di un’anima che con l’estensione di una superficie, ed è in ultimo un effetto del rispetto ontologico che a tale vita dobbiamo, perché nessuno ci obbliga a scrivere poesie, ma tutto ci invita a quella poesia dell’esistenza i cui i maestri, occulti e nascosti, sono senz’altro più numerosi dei poeti acclarati.
(da Claudio Sottocornola, A che punto è la notte?, Oltre Edizioni, 2024, versione integrale pp. 13-19)