SILVIA PIO
La solitudine può essere piacevole, desiderabile, facilitatrice di poesia, arte, idee e benessere, e persino felice.
In questa specie di dizionario alfabetico vogliamo elencare alcuni concetti che possono renderla tale.
Ecco la lettera C.
CURA DI SÉ
Prendersi cura di sé non significa (solo) andare dal parrucchiere o dall’estetista, adottare una dieta salutista, seguire le mode in fatto di alimentazione e abbigliamento, e presentarsi sempre impeccabili in società.
Certo, possiamo considerare atti di cura di sé andare regolarmente dal medico e dal dentista, fare una vita ordinata con sufficiente sonno, esercizio fisico e cibo naturale. Persino concedersi piccoli piaceri. Purtroppo il limite che ci fa scontrare con i sensi di colpa, l’inadeguatezza e l’impressione di essere egoisti è appena dietro l’angolo, quando pensiamo che dovremmo occuparci della casa, dei figli, degli anziani, o di chi ha sempre bisogno di attenzioni più di noi, quando non pensiamo di meritarci nulla, anzi consideriamo un lusso che non siamo in grado di permetterci poter pensare per un poco solo a noi, soprattutto se siamo donne.
La cura di cui voglio parlare qui riguarda soprattutto quello che ci passa per la mente in modo che i pensieri siano sempre chiari, benigni e salutari nei confronti di noi stessi. Ecco perché ho associato questa attività con la solitudine. Se alcune attività di cura esteriore di sé si fanno molto spesso in compagnia, badare ai propri pensieri si deve per forza fare da soli, con costanza e disciplina, possibilmente lontano dalle situazioni di stress, stanchezza e tensione che spesso fanno parte della nostra vita (si veda BUEN RETIRO).
Per alcuni l’idea di essere consapevoli dei pensieri è aliena tanto quanto quella di poterli controllare, come se fossimo in balia di essi, come se questi ci fossero impartiti a mo’ di comandi ai quali siamo totalmente aggiogati.
È dimostrato che i nostri pensieri sono comandati dalla corteccia prefrontale (che ci appartiene, quindi sono comandati da noi stessi), che è la sede della coscienza e ci dà la capacità unica di osservare noi stessi. Quindi possiamo azionare il centro di comando della nostra mente usando l’antagonista del nostro cervello emozionale e silenziando il subconscio, cioè quei contenuti che rimangono sotto la soglia della nostra coscienza e sui quali abbiamo poco potere.
Prendersi cura dei propri pensieri significa, quindi, districarne la matassa aggrovigliata che ci riempie la mente, imparare a “vederli passare”, distaccarsi da essi, analizzarne il linguaggio e infine modificare le affermazioni che vi sono contenute quando sono per noi svantaggiose e non salutari.
Quante volte abbiamo accusato e persino insultato noi stessi con parole che non oseremmo mai rivolgere ad altri? Ci siamo sviliti, scoraggiati, arrabbiati. Abbiamo continuato a dire a noi stessi che “tanto non sono capace”, che “le cose vanno sempre male”, fino ad arrivare ad assurdità quali “sono più sfortunato/inetto/inconcludente (e così via) degli altri” (mi scuso per l’uso del maschile per includere anche il femminile) e all’uso irrazionale di “mai”: “non ce la farò mai, a me non succede mai, non cambierò mai, il pensiero non si può mai cambiare…”.
Quali vantaggi possiamo mai (qui ci va) avere da questo tipo di linguaggio interiore? Quali discorsi possiamo mai fare con gli altri quando parliamo così a noi stessi? Come potremmo mai essere d’aiuto a chi ne ha bisogno se trattiamo in questo modo noi stessi?
E qui torniamo ai sopracitati sensi di colpa e sensazione di egoismo. Se pensiamo che sia importante e doveroso prendersi cura dei nostri famigliari, delle persone nel bisogno, del luogo dove viviamo, del pianeta intero, dobbiamo prima prenderci cura di noi stessi.
P.S. Voglio citare una pratica spirituale chiamata “custodia del cuore” – in greco népsis (vigilanza) –, che richiede la verifica della relazione che teniamo con noi stessi e punta a liberare dai pensieri cattivi o passionali, e che può aiutare proprio in questo compito di controllare i pensieri.
Fu messa a punto dai Padri del deserto, cristiani rifugiati nei deserti di Mesopotamia, d’Egitto, di Siria e di Palestina tra il III e il VII secolo, che vivevano da eremiti in capanne, grotte, su colonne o alberi, e cercavano una vita di solitudine, di lavoro manuale, di contemplazione e di silenzio, con lo scopo di crescere spiritualmente.
(Foto di Bruna Bonino)
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