“Ogni scrittore è un uomo, ogni uomo ha una storia con un’origine e dei perché. Questa è la mia storia, con le mie origini e i miei perché.”
[Jonathan Rizzo]
Con il contributo critico amichevole di Francesca Del Moro, Giorgio Linguaglossa, Gianpaolo Mastropasqua, Vittorino Curci e Gabriella Musetti.
Da Anamnesi famigliare (2017-2023) (Puntoacapo Editrice 2024)
Francesca Del Moro da madre sulla figura della madre
Una madre, un figlio, una morte, un senso di colpa. Un viaggio, Bologna e la Toscana, una gatta. Due poeti o sedicenti tali, diversamente disperati e attaccati tu all’alcol e agli amori incasinati, io al cibo, all’alcol ma meno e agli amori incasinati. Quanti punti in comune tra le nostre due storie. Le storie delle nostre speculari orfanità. Tu orfano di madre, che da adulto ti chiami sempre orfano. Io orfana di figlio, che per la mia perdita non ho neppure un nome. [...] La fine di tua madre ti porta via dalla tua dimensione poetico avventurosa, la fine di me come madre mi porta via dalla mia dimensione poetico-studiosa. Iniziano i nostri viaggi, il tuo rocambolesco, in treno, l’ansia di arrivare tardi. Il mio, regolare in macchina, sotto un sole ironicamente splendido, l’ansia di arrivare tardi. “Ed ora mi fa passare per favore? Posso andare a vedere mia madre morire per favore?”; “Ed ora me lo può passare per favore? Posso parlare con mio figlio, per favore?”. Arrivi e tua madre dorme. Ha avuto un ictus e non sarà più la stessa. Arrivo e mio figlio è morto. Ha inalato monossido di carbonio e non sarà più. Tu non hai più una madre, non come la conoscevi, io non sono più una madre, non come mi conoscevo. Tu rimani solo con la gatta nera cliché parigino, io rimango sola con la gatta bianca cliché magari di qualcosa ma non so cosa, simbolo di purezza e mia angela custode. Ci veglieranno, sagge più di noi, mentre combattiamo con i nostri sensi di colpa, con i ricordi, con la mancanza, e intanto continueremo a scrivere, a cercare di ricomporre la frattura. Un figlio lo contieni sempre, una madre ti contiene sempre, il dialogo non più possibile a parole dovrà trovare altre vie per continuare. Perché hai ragione tu e faccio mie queste tue parole: “Ho perduto tutto ma sono ancora in piedi con la penna in mano pronto senza paura a raccontare in faccia al mondo le verità mediocri che la vita reale ha da offrirci”.
*
01. Io Credo Tu Usi Soliloqui
(I.C.T.U.S.)
Dalla finestra della corsia d’ospedale
svetta la cupola del Brunelleschi.
Non potremmo essere maggiormente malati di fiorentinità.
Gigli amari m’ingialliscono le mani.
Appoggio la testa al vetro
stanco come un gargoyle di pietra
schiaffeggiato dalla pioggia a raffica.
Cerco la pace in una preghiera laica,
ma le mie parole sono sconnesse.
Le vedo opache,
non riesco ad afferrarle.
Così che neanche questa notte
il mio Dio mi comprenderà
e potrà salvarmi.
Sono condannato ad un’altra notte sconfinata
di cui non capisco lo scorrere del tempo.
*
Giorgio Linguaglossa da padre sulla figura del padre
[...] Jonathan Rizzo nella sua poesia post-edipica dichiara espressamente che ora che è diventato adulto, «ora che sono diventato quel pessimo uomo/di mio padre», è diventato anche il portatore di un significante, del significante del Padre che non c’è più, che è scomparso ma che rivive grazie allo scorrere del significante. Così come il significante viaggia, si sposta di continuo, così il viaggio di Jonathan non conosce pause, «il viaggio è lento come una cartolina», scrive nel testo; e continua: «forse sogno di volare. Trovare un bar con un bagno, ordinare da bere felicità liquida». Come in Amleto, anche in questa Anamnesi famigliare il Padre non c’è più, il Totem manca, è un buco vuoto, uno spazio bianco che non parla più neanche nei sogni o nelle allucinazioni ma che, in quanto vuoto, non è più un significante, anzi, è un ostacolo allo scorrere frastico dei significanti, è un significante forcluso. [...] Adesso Jonathan Rizzo finalmente può scriverne perché, diventato adulto, ha scoperto che il Totem non c’è più, può scriverne in poesia e in prosa perché quel significante adesso si è incarnato in lui. Il Totem è lui.
*
Mon Père
L’ora del padre
Quando avevo un padre beveva,
ma come tutte le persone che bevono,
non voleva bere da solo.
Allora ad un certo punto della notte,
ma forse sembrava notte solo a me bambino,
veniva a svegliarmi nel mio lettino,
piccolo brutto letto vuoto di bambino,
e passavamo la notte,
quella che a me bambino pareva essere la notte,
insieme ad ascoltare vecchi dischi.
Vecchi per un bambino.
Questo è il ricordo più prezioso
che ho di mio padre, la musica.
Ora che indosso gli stessi anni
di quanti lui non sapesse abitare
mentre beveva
e cambiava per sé gli LP volendomi con sé lì,
voltandomi le spalle stretto ai solchi neri di liquirizia amara,
carezza persa umana
nel gorgo scuro
dove non riusciva a stare solo.
Ora che sono solo e so che non ho nessuna famiglia
a cui fare sentire le canzoni che amo
e che mi rendono triste, troppo triste, sempre più triste
ad ogni nota blues.
*
Jonathan Rizzo, radici elbane, ha compiuto studi storici a Firenze e ha una formazione poetica parigina. Dello stesso autore: Un caso PoP per l’ispettore Iannacci, (puntoacapo 2022, pubblicato con l’eteronimo Jim Ritz).
(A cura di Silvia Rosa)