M come Morris

FULVIA GIACOSA

Robert Morris (1931-2018) è stato un gigante del secondo Novecento. Indipendentemente dai gusti di ciascuno, Morris ha dato avvio a svariate ricerche non solo con le sue opere ma anche con un’ampia serie di testi teorici. Fondatore del Minimalismo, è andato oltre la sua creatura sperimentando installazioni al chiuso o nello spazio naturale e aprendo la strada al Post-Minimalismo o “Antiform” e alla Land Art. Siamo – tra ombre e luci – nei mitici Sessanta ricchi di nuove ricerche che, pur condividendo la serialità Pop in quanto specchio della società di massa, hanno costituito un superamento sia dell’individualismo informale sia dell’iconicità chiassosa Pop, sostituendovi un’estetica fredda e impersonale. Il comune denominatore è l’uscita dal “quadro” inteso come spazio immaginario sulla bidimensionalità della tela. La nuova tridimensionalità porterebbe a parlare di “scultura” ma l’amico e collega Donald Judd preferisce la dicitura di “specific objects” e spiega nel 1965: “Le tre dimensioni sono lo spazio reale. Questo elimina il problema dell’illusionismo … Lo spazio reale è intrinsecamente più potente, più specifico di qualsiasi pigmento spalmato su una superficie piana”. In effetti lo spazio non è più “rappresentato” ma “vissuto” dello spettatore a cui non viene chiesto di leggere l’opera per avviare un processo interpretativo, ma di viverla e concluderla (come vuole il concetto di “opera aperta” di U. Eco, 1962). Le grandi installazioni minimaliste – si parla di “dismisura”- hanno forme geometriche semplici (travi, cubi, parallelepipedi, pavimentazioni) fatte di materiali industriali o dell’edilizia (ferri, acciai, lamiere, mattoni, legni), con scarsi interventi diretti da parte dell’artista che ne diventa lo scenografo. Il geometrismo non è quello eidetico del Neoplasticismo (Mondrian) ma quello instabile e fenomenico del concretismo secondo-novecentesco. Per di più sono oggetti che possono essere continuamente riutilizzati sancendo la morte di quell’aura che aveva da sempre esaltato l’unicità dell’opera d’arte: “Basta che l’opera sia interessante”, dichiara Judd con ironia provocatoria. Col Minimalismo l’arte diventa relazione spaziale (opera/ambiente) e temporale (opera/tempi di percorrenza) e condanna la contemporaneità consumistica (sono opere difficilmente mercificabili) di una società sempre più meccanicistica e disumanizzante. “The times, they are a-changin” cantava nel 1964 Bob Dylan: anche l’arte non può che essere del proprio tempo anzi in netto anticipo dei cambiamenti in essere. La svolta morrisiana avrà ulteriori sviluppi fino alla smaterializzazione concettuale.

Robert Morris, nato a Kansas City, studia Ingegneria, Filosofia e Psicologia; quando si trasferisce a New York frequenta corsi di Scultura e Storia dell’arte e si appassiona ai ready-made di Duchamp: a lui si ispirano le opere “Box with the Sound of its own making” (1961) e “Fontana “(1963). La prima è legata a “Con rumore segreto” (1916) di Duchamp realizzata per i suoi mecenati americani, i coniugi Arensberg: si tratta di un gomitolo di spago chiuso tra due lastre metalliche che tintinna se mosso (pare che Arensberg, all’insaputa di Duchamp, abbia svitato le lastre e posto all’interno un oggetto sconosciuto che produce appunto un “rumore segreto”). Al misterioso ready-made duchampiano Morris sostituisce una scatola in legno contenente un nastro registrato dei rumori durante la fabbricazione della scatola stessa: il lavoro finito coincide con il titolo. Discorso simile può essere fatto per “Fontana”, identico titolo del duchampiano orinatoio capovolto e firmato Mutt (1916). Morris toglie ogni possibilità interpretativa alla sua “fontana” fissando al muro un’asta metallica a L rovesciata con un gancio a cui appende un comunissimo secchio per raccogliere l’acqua, dunque un oggetto che “dice che se stesso”. Oltre a queste opere poco note, Morris realizza dal 1961 grandi lavori entrando nel cuore del tema che lo interessa, ossia il rapporto oggetto-spazio-spettatore. In quell’anno Morris affida allo spettatore una installazione da vivere fisicamente: si tratta di “Passageway”, un lungo e stretto corridoio allestito nel loft di Yoko Ono; costretti a passare in questo claustrofobico passaggio tra rumori di battiti cardiaci e di un orologio, solo al termine i partecipanti si rendono conto che esso non conduce da nessuna parte. Nel 1964 Morris allestisce una mostra alla Green Gallery di New York con sette grandi forme essenziali in legno dipinto di un anonimo grigio, disposte in modo variegato: a pavimento, nell’angolo tra due muri o sospese in alto. Tre grandi travi a L sono state utilizzate l’anno dopo in un’altra mostra: una era posta di piatto, una poggiava su uno dei bracci della L e la terza stava in equilibrio su due estremità. Scrive Morris: “Il tipo di installazione ha acquisito, nella determinazione delle qualità particolari dell’opera, un’importanza che non aveva mai avuto prima. Una trave posta alle due estremità non è la stessa trave posta su uno dei due lati” e Rosalind Krauss, nella sua storia della scultura novecentesca pubblicata nel 1997, aggiunge: “La semplicità della forma non si traduce necessariamente in una uguale semplicità a livello di esperienza. Le forme unitarie non riducono i rapporti. Li ordinano.”. Questo tipo di lavori inizialmente sconcertano il pubblico ma hanno presso gallerie e musei un notevole successo anche se momentaneo e sostanzialmente concentrato in due o tre anni di mostre. Tuttavia non mancano le critiche per la “misura minima di contenuto artistico” (Richard Wollheim) che avrebbe distrutto l’arte stessa facendola confluire in teatralità e l’avrebbe privata della manualità (o techné) a cui era da sempre connessa. In sostanza il “peccato” minimalista consisteva nella distruzione dell’autosufficienza dell’opera d’arte. Nonostante le posizioni polemiche di alcuni critici, Morris prosegue le sue ricerche. Tra il 1963 e il 1965 tiene due personali alla Green Gallery dove espone lavori importanti: poliedri in compensato dipinto come “Corner piece” del 1964 (negazione del tradizionale modo di collocare le opere poiché posto ad angolo tra due pareti contigue, un ricordo dei “Controlievi” di Tatlin), e “Quattro cubi specchianti” del ’65 che riflettono lo spazio e il passaggio degli spettatori (come nel poverista Michelangelo Pistoletto in quegli stessi anni).  Nel 1966 espone le citate “Travi a L” alla mostra curata da McShine al Jewish Museum di New York; il titolo “Primary Structures” è spesso usato per indicare il Minimalismo USA, altrimenti detto anche ABC Art (Barbara Rose) e dilagato anche in Europa, dove si parla di riduzionismo estetico per l’azzeramento di significati iconici, simbolici, estetici. Esposte più volte con disposizioni diverse nello spazio, obbligavano il visitatore a zigzagare e girarci intorno. Nel catalogo della mostra scrive Mc. Shine: “Le dimensioni generalmente grandi dell’opera e la scala architetturale permettono allo scultore di dominare l’ambiente. A volte la scultura aggredisce lo spazio dello spettatore, o lo spettatore viene introdotto nello spazio sculturale. Spesso la scultura funziona ambiguamente, creando cioè un dislocamento spaziale per lo spettatore, con valori complessi. Poiché la maggior parte di queste sculture sono fatte per interni, è proprio la loro grandezza enorme, il loro assalto alla scala intima, che porta implicitamente una critica sociale. I collezionisti e anche i musei non hanno per lo più lo spazio necessario a queste opere”. Da qui la critica al sistema dell’arte, in opposizione agli artisti pop che lo blandivano. Nello stesso 1966 Morris pubblica sulla rivista “Artforum” una serie di importanti saggi sulla scultura. Dal 1967 inizia una serie di innovativi lavori e cambia i materiali utilizzati, non più rigidi ma morbidi come strisce di feltro che, sotto la forza di gravità, diventano cedevoli e assumono, un po’ come la vita, forme non previste e provvisorie: esse infatti vengono lasciate cadere a terra secondo la legge di gravità (un’eco del concetto dadaista di “caso”) o appese al muro. Per tali composizioni Morris ha coniato la dicitura “Antiform” (diventata una vera e propria corrente detta anche Post-Minimalismo cui partecipa una nuova generazione di artisti non-figurativi). Altra strada intrapresa da Morris a partire dal 1970 e che determina la nascita della Land Art è la realizzazione di opere nello spazio aperto, quella che Susan Sontag chiama “arte nello spazio allargato”. La Land Art si configura come “presa di possesso estetico” di un luogo. Inizialmente è soprattutto una forma di rifiuto del sistema “drogato” dell’arte poiché si tratta di operazioni difficilmente ingabbiabili e per di più non permanenti, anche se il mercato farà soldi con la vendita di disegni, progetti, fotografie e video. A partire dai Settanta, con la nascita dei primi movimenti ambientalisti, prevalgono motivazioni sociali e culturali: la consapevolezza che il normale rapporto uomo-natura si sia rotto e che all’arte spetti il compito di rimarcare la gravità di tale situazione. Si aggiunga la diffusione dei testi di Lévi-Strauss nei circoli artistici e un interesse per l’antropologia. Morris studia i resti preistorici: grandi pietre, labirinti e osservatori astronomici sono lo starter di molte sue opere e di alcuni viaggi tra cui quello in Perù nel deserto di Nazca (1975). È del 1971 “Observatory”, realizzato in Olanda e ispirato a Stonehange (un cromlech-osservatorio astronomico neolitico): l’opera originale di Morris non esiste più ma è stata ricostruita due volte, nel 1974 (Philadelphia) e nel 1977 (Olanda). Si amplifica qui e in genere nelle opere del decennio il rapporto dell’installazione con la durata della fruizione. Senza addentrarci nella descrizione puntuale, in sintesi si tratta di due cerchi concentrici separati da un fossato, realizzati con terra, legno, blocchi di granito e acciaio; l’anello esterno è un terrapieno collegato a quello interno con quattro aperture, una delle quali funge da ingresso. Lamine d’acciaio a “V” sono posizionate in corrispondenza della posizione del sole durante gli equinozi, mentre una quarta apertura inquadra il sole ai solstizi. Percorrere orizzontalmente il luogo (la visione aerea delle fotografie inficia l’esperienza diretta, ha messo in guardia Morris) comporta un iniziale spaesamento per la vastità del paesaggio, “sublime” direbbe un romantico, rispetto ad un minuscolo “sé” centripeto. “Esiste qualcosa nell’arte preistorica che ha un certo fascino -dice- per la rispondenza che l’ arte ha ai cicli della natura – il tempo, gli edifici orientati, magari in direzione di una stella, o di un sole … La complessità delle funzioni di certe costruzioni neolitiche è quello che mi affascina”. Altre realizzazioni degli anni ’70 si concentrano sulla forma del labirinto: quello  circolare in legno realizzato per l’Istituto d’Arte Contemporanea di Philadelphia del 1974 (“Philadelphia Labyrint”) chiaramente ispirato al pavimento della cattedrale di Chartres sostituisce l’antica funzione salvifico-religiosa con  un laico percorso iniziatico volto a  trovare se stessi; quello alla Fattoria di Celle nei pressi di Pistoia (“Labirinto”, 1982), in cemento e marmo serpentino a strisce orizzontali come nelle chiese pistoiesi, solo dall’alto rivela la sua forma a triangolo equilatero, mentre a terra le alte pareti impediscono la percezione complessiva che sfugge continuamente; oltretutto, l’ingresso è tale da consentire il passaggio ad una sola persona per volta e termina su un muro cosicché si è obbligati a tornare indietro; il “Labirinto” di Pontevedra in Galizia (1999) è in lastre di granito locale alte due metri ed ha una forma sinuosa; esso è collocato in una zona ricca di reperti preistorici (tra cui un labirinto inciso su roccia) che avvicinano l’oggi al lontano passato sotto l’egida di un simbolo dedalico senza tempo, fatte per durare, “idee dure come le pietre”.

Nel loro insieme le sue opere sono state un punto di riferimento imprescindibile per tanti artisti del secondo Novecento.

 

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