Mythos dell’assenza e pensiero utopico in “Bitte, keine Reklame”

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Nel recensire “Bitte, keine Réclame (per favore, niente pubblicità)” (La Vela, 2024) di Mario Bonanno, vorrei incominciare da ciò che mi piace meno, l’introduzione alla citazione che egli generosamente fa di me, che recita: “Pure se impregnata di contenuti metafisici, la filosofia di cui si fa espressione Claudio Sottocornola non è disgiunta dal piano del reale”. A partire dai miei anni di liceo post ’68 ho sempre avvertito infatti che il giudizio di metafisico attribuito a un autore in età postmoderna non poteva che equivalere a una sorta di stroncatura del suo pensiero, da ricondursi a inspiegabili nostalgie prekantiane, quando non a ignoranza delle celebri Critiche. Ora proverò a spiegare perché tale controverso attributo non sarebbe da intendersi così (e non credo lo sia nemmeno nelle intenzioni di Bonanno), e lo farò non per una sorta di paradossale narcisismo che mi porterebbe a parlare di me invece che dell’autore sul cui pregevole volume intendo riflettere, ma piuttosto perché la premessa servirà a illustrare anche e soprattutto quel volume.

Ritengo infatti che metafisico non sia tanto un contenuto, ma un approccio, considerato che ogni nostra affermazione sulla realtà ne offre, in qualche misura, una lettura metafisica, laddove, ad esempio, esprimiamo una valutazione di essa realtà come plurale (ossia avente dimensioni diverse), come dualista (ossia come materiale e spirituale insieme), come integralmente spirituale o integralmente materiale. Poiché in tutti questi casi – mai avendo una esperienza esaustiva di tutta la realtà ipotizzabile – formuliamo un giudizio che va oltre l’immediatezza del dato, a favore di una sua interpretazione in senso pluralista, dualista, spiritualista o materialista, o al limite asserendo l’inconoscibilità del dato, in tutti questi casi siamo virtualmente tutti metafisici, formulando un giudizio di valore e non di fatto. Dunque, proprio perché tale termine – a questo punto – risulta indeterminato se riferito ai contenuti, a me pare più appropriato riferirlo all’approccio. Metafisico non sarebbe allora chi afferma la priorità dello spirito o della materia, ma chi fa della propria affermazione un diktat che boccia le altre posizioni, ed interpreta la propria esperienza del reale come esaustiva e il proprio paradigma cognitivo come atto a restituire univocamente il vero.

Sfrondato di questa dimensione totalizzante e anche intollerante, allora metafisico è solo il nostro mythos fondativo, categoria che desumo da Raimon Panikkar e di cui persino abuso, perché mi appare come la più idonea a restituire il senso postmoderno della conoscenza e, di riflesso, la speranza che essa non sia arbitrario vaneggiamento soggettivo, ma neanche catena omologante secondo il mainstream di turno. Ma che cos’è questo mythos fondativo? Come ho più volte scritto, consta di quell’insieme di esperienze originarie e primigenie, luoghi, persone, atmosfere, suoni, colori e ambienti, profumi e archetipi in genere, se vogliamo idee, ma incarnate esistenzialmente, che improntano il nostro immaginario, o inconscio, o vissuto, e che costituiscono la nostra prima esposizione e apertura al mondo, tanto che, privandoci di esso, del senso di ogni bellezza e valore verremmo privati.

Ecco il punto in cui il mio apparente sproloquio si riconnette a Mario Bonanno e al suo Bitte, keine Réclame, che a me appare, appunto, come una struggente metafisica dell’assenza, un’elegia vagamente battiatesca, ove DDR, Unione Sovietica, cortina di ferro e persino guerra fredda ricompongono lo scenario di una condizione di innocenza originaria perduta, un paradise lost ovviamente del tutto metastorico che sarebbe sbagliato cercare di confutare con le armi del dato o, almeno, della sua innegabile ambivalenza, e che è invece senz’altro assai meglio contemplare come luogo del mito, personale ma, forse, anche generazionale, e in qualche modo collettivo.

In tal senso, ciò che mi affascina nella scrittura di Mario Bonanno (anche quando parla di musica e cantautori, ma qui anche di più) è – suo malgrado – un senso quasi doloroso della trascendenza, e mi spiego. Nella sua aspra, radicale e totalizzante critica all’esistente, egli è abitato da quella dimensione utopica, di derivazione francofortese, che nel paradigma del materialismo dialettico (evidente fonte di ispirazione per il Nostro) è il modo stesso di darsi della categoria di trascendenza, come dolorosa constatazione dell’assenza di senso e insieme, proprio perciò, di un senso che si dà ed esperisce come anelito, desiderio, superamento, in ultimo, attesa, forse inutile attesa, altro appunto.

Sulla falsariga di quanto detto, Bonanno mi appare anche come cultore della Parola, quasi in senso biblico. Trovo molto interessante che gran parte della sua attività di scrittore si sia concentrata in passato sulla esegesi della nostra migliore canzone d’autore e che anche qui, in un pamphlet fra sociologia, filosofia e attualità, egli inanelli innumerevoli estratti dei più disparati autori, analizzati con cura e, quasi, venerazione, come a trovare nella estrinsecazione del concetto e nella articolazione del discorso, una rivelazione sintattica che appunto redima l’esistente dalla sua inerte e spesso oscura fattualità, una sorta di epifania dello spirito che, per lui, non può che essere evidentemente altro che riscatto della materia (ma azzardiamo: forse della energia che l’attraversa?).

Anche in ciò si rivela la passione di Bonanno per l’altrove dell’utopia, forma mentis purtroppo tramontata fra le secche dei consumi, di social sempre più intrusivi, di media sempre più immorali. E la passione civile che emerge dalle pagine, lo stigma, l’insofferenza, persino l’invettiva che esprime tutto ciò, davvero ha qualcosa della profezia o della apocalittica biblica, anche se poi si declina più modernamente come nausea di sartriana memoria, ove il non-senso non ha però né il nome di Lucifero né quello del nulla esistenzialistico, ma piuttosto quello del capitale e della sua folle moltiplicazione.

Ricordo, molti anni fa, una puntata di “Che tempo che fa” su Rai3, ove Fabio Fazio intervistava una ormai anziana Rossana Rossanda (cofondatrice, fra l’altro, de “Il Manifesto”) la quale, facendo un bilancio della vita, esprimeva tutto il proprio rammarico per il modo sommario  in cui  veniva giudicato da molti il suo essere comunista, dopo la caduta del Muro di Berlino, venendo tale ideologia percepita ormai come irrimediabilmente associata a una gestione criminale, ancorché fallimentare, del potere, e commentava sottolineando come in realtà, entro il medesimo orizzonte dell’ideologia, convivessero sia lei sia Stalin, ovvero due interpretazioni di essa affatto difformi, non violenta la sua, sanguinaria quell’altra.

Ecco, credo che di fronte a un testo dichiaratamente schierato come Bitte, keine Réclame, sbagliato sarebbe giudicare in rapporto alle etichette politico-ideologiche, che ci porterebbero a perderne tutta la suggestione e l’enorme potenziale di denuncia, mentre più adeguato appare il lasciarsi andare sull’onda dello sdegno, ma anche della malinconia che, elegiacamente, ci trasporta in un mondo in bianco e nero che non c’è più, ma che molto può dirci in termini di motivazione, sogno, utopia e – perché no – progettualità esistenziale. Dove allora il passato continua a vivere nel presente, trasformandolo.

Asseconderei ora una tentazione, residuo di un’abitudine alla docenza e ai suoi insopportabili intenti pedagogico-direttivi (fors’anche autoritari). Ma davvero il capitalismo è il peggiore dei sistemi economici che l’umanità ha creato? Certamente, come tutti i fenomeni in stato di declino e poi degrado, esso ha raggiunto oggi una condizione di marcescenza corruttiva e potenzialmente letale che ammorba l’umanità coinvolta, ma vi sono stati altri momenti e sentimenti, ad esempio nella Seconda metà del Novecento, dove esso è stato anche riscatto e sviluppo, liberazione di energie individuali e sociali, stimolo alla emancipazione personale, anche di minoranze. Mentre, d’altro canto, non può certo dirsi migliore o più riuscita l’antica economia schiavistica, o il servaggio medievale, o il sistema di caccia, pesca e raccolta preistorico. Credo che ognuno di questi sistemi abbia presentato opportunità e crepe, le quali ultime ne hanno poi determinato il superamento. Nessuno di noi oggi però vorrebbe vivere in un sistema schiavistico o servile, ed è probabile che, una volta superato – come accade per tutti i fenomeni storici – nessuno vorrà poi tornare a vivere in un sistema capitalistico ormai tramontato, di cui finalmente saranno emerse tutte le contraddizioni, ora già eclatanti del resto. Ma d’altro canto, dubito che chiunque abbia conosciuto il volto totalitario del comunismo storico voglia analogamente tornarci a vivere. Ciò che sostengo, al di là di un apparente ricorso al buon senso della strada, è tuttavia un dato ontologico: nella dialettica fra distopia (presente) e utopia (a venire) la verità sta purtroppo o per fortuna, in forme e modi diversi, sempre da qualche parte nel mezzo. È la storia del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, immagine della Storia e delle sue contraddizioni, ma anche dei suoi tentativi di sintesi, fragili, imperfetti, quasi sempre ingiusti, ma al momento unica risultante possibile di innumerevoli sforzi umani, che a quel risultato conducono come all’unica sintesi di cui si è stati capaci. Questo vale anche, più in generale, per la stessa vita umana e personale, in perenne bilico tra fallimento e sogno, su quella sottile corda da funambolo che è il banale quotidiano con la sua routinaria progettualità, da cui talvolta qualcuno precipita, per la evidente difficoltà a mantenere siffatto impegnativo equilibrio.

Leggendo “La società signorile di massa” (La nave di Teseo, 2019) del sociologo Luca Ricolfi, ho trovato alcune annotazioni di singolare interesse, relative alla tendenza sempre più diffusa fra i giovani, ma anche altre fasce più mature di popolazione, a non cercare lavoro, accontentandosi di sussidi pubblici o sostegni familiari. In una società ove i vincoli comunitari vengono meno, e a pochi interessa, almeno intenzionalmente, trascendere il proprio io empirico per realizzare qualcosa di più grande e di più bello che coinvolga la relazione con l’altro, a che pro lavorare se non è indispensabile alla sopravvivenza? Questa domanda, per estensione, potrebbe essere rivolta ad ogni individuo apparso sullo scenario della Storia, e la risposta sarebbe univoca se riferibile ad epoche e condizioni sociali ove il lavoro era prerequisito per sopravvivere. Ma diversamente – sembra osservare Ricolfi – gli individui si adagiano in una condizione parassitaria e letargica, ove contano consumi e piaceri spiccioli. La domanda che mi sono posto così spesso allora – se sia stato un bene o un male per gli schiavi egizi costruire quelle piramidi che devono essere costate loro sudore, lacrime e sangue – ha trovato, grazie anche a Ricolfi, una risposta, magari imperfetta e parziale, ma almeno orientativamente significativa. Ed è la seguente. Forse è stato un bene, perché al di fuori di ogni sistema, struttura o compagine sociale, ancorché assai lontana da condizioni di equità e giustizia, l’individuo diviene mera biologia auto-sussistente per poi indebolirsi anche come tale ed estinguersi, mentre nello sforzo condiviso egli costruisce non solo piramidi, o cattedrali, o ideali, ma anche sé stesso, la propria anima e il suo eventuale destino.

Ecco, il sistema economico-sociale in cui provvidenza o destino ci hanno posti, a me pare il luogo ove è lecito puntare alla felicità, mediante l’esercizio della virtù, e se ci accade di nascere schiavi in Babilonia, lì dovremo adoperarci per la nostra liberazione, mediante il più alto grado di consapevolezza di cui siamo capaci, e una vita ad esso conseguente, ovvero relazionale e sociale, perché tali siamo e ci avvertiamo strutturalmente. Dunque posso ritenermi da un lato più ottimista dell’autore di Bitte, keine Réclame, perché continuo a credere che da ogni angolo di mondo si può vedere il cielo, dall’altro forse più pessimista, perché il nodo che io vedo nella Storia pertiene in primis a una condizione umana radicalmente ambivalente, e segnata da una propensione al male (pensiamo anche solo alle guerre in corso), di cui capitalismo, schiavismo, ma anche comunismo storico, sono solo transeunti ma necessari epifenomeni, perché senza un sistema sociale non potremmo vivere, e l’uomo sarebbe solo lupo all’uomo. E questo lo avevano capito, in diverso modo, non solo Hobbes, ma anche Machiavelli e Guicciardini.

Sempre però dobbiamo lottare per l’umanizzazione dell’umano e, al tramonto di un’epoca, tardo impero romano o tardo capitalismo che sia, consolante può essere il pensare che non è la scenografia a fare la nostra bravura di attori, ma la nostra performance che, anche in un’epoca di crisi e di degrado, può essere ottima, se contribuisce a generare – ancora come voleva Battiato – “l’alba dentro l’imbrunire”, ovvero le condizioni per un nuovo inizio. Anche se tale inizio – lo intuisce bene Emanuele Severino – non sarà un nuovo capitalismo, né un nuovo comunismo storico, ma una tecnocrazia, probabilmente digitale, che forse, nel suo pieno sviluppo, potrebbe farci rimpiangere entrambi. Eppure – lo prefigura proprio il grande filosofo – nel pieno di tale apoteosi tecnologica l’essere umano avvertirà la fragilità della bolla efficientistica in cui sarà precipitato e – di nuovo – si aprirà al senso, alla domanda, in certo qual modo, a una sorta di saggezza zen dove l’umano potrebbe rifiorire. Ma se ogni lungo cammino incomincia sempre con un primo piccolo passo, allora tale moto verso una prima almeno embrionale consapevolezza non può che essere e darsi in una sintesi culturale, ove coscienza e mondo facciano unità, alleanza, armonia.

E a tal proposito mi piace annotare qui alcune osservazioni che Mario Bonanno svolge in chiusura del suo saggio, a favore della propria, non secondaria, pars construens: “I nostri tempi richiedono dunque l’aut-aut. È una questione di vita o di morte dell’anima. Rassegnarsi allo statuto di burattini oppure, forse, contare sulla forza disalienante della cultura […]. La cultura, dunque. Come possibile istanza liberatoria dalle maglie atrofiche di un presente da fantascienza avverata. […] Si tratta di operare attraverso un capillare intervento contro(in)formativo che restituisca il cittadino alla consapevolezza e all’autonomia concettuali. […] Si tratta dunque, una volta di più, di non lasciarsi tentare dalle mezze misure, e muovere in direzione ostinata e contraria (De André)”.

Ringraziamo allora Mario Bonanno perché attraverso ma anche al di là della riflessione che ci regala, egli ci trasmette una condizione di integrità intellettuale che oggi manca e da sola vale la lettura integrale del saggio, e mi ricorda le parole di John Proctor, protagonista accusato di stregoneria in “The Crucible” di Arthur Miller, ambientato nel Massachusetts puritano del 1600, che, rifiutandosi alla complicità con i delatori, dichiara: “Non mi presto al vostro gioco. Nel prezzo richiesto per la mia salvezza non è compresa la mia complicità”.