SILVANO GREGOLI
Canberra, aprile 1995
Ormai manca poco alla partenza. Quattro anni d’Australia e il capitolo si sta già chiudendo.
Giunti a questo punto, è prassi comune procurarsi una serie di oggetti-ricordo.
Il primo è già pronto. Si tratta di una placchetta di plexiglas che imprigiona un Red Back di Canberra. Il Red Back è un piccolo ragno, grassoccio e molto velenoso, riconoscibile da un triangolo rosso vivo sul dorso nero. Quel ragno esala un ricordo triste. Un brutto giorno, David, il nostro enorme ragno di famiglia – un Huntsman, pure lui di Canberra – non si era più fatto vedere. Anche Anny Moore, la vicina veterinaria di piccoli animali, era preoccupata. Sei giorni di assenza sono tanti per un Huntsman. Anny aveva ventilato molte ipotesi. Aveva ovviamente scartato l’ipotesi che l’avessimo ucciso. Col tempo era riuscita a conoscerci meglio e aveva notato che il nostro processo di australizzazione avanzava veloce. Compresa la mutazione da un’istintiva aracnofobia a una salda e festosa aracnofilia. Nel caso di David, poi, chi avrebbe potuto volergli del male?
Anny non pensava a una fuga, e nemmeno a una malattia. Non era vecchio e l’aveva visto lei stessa, pochi giorni prima, correre su e giù per i muri che era un piacere. Senza contare che gli Huntsman sono ragni stanziali: quando adottano una casa, il legame con la casa si estingue solo con la loro morte. Forse il suo destino di ragno enorme ma non velenoso aveva incrociato quello di un Red Back, ragnetto intrigante e velenoso. Forse ne era nata una rissa. Oppure, peggio ancora, si era introdotto nella casa uno spaventevole Funnel Web di Sydney, e David aveva cercato di cacciarlo. Soprattutto in difesa delle bambine. Forse, nella zuffa, il Funnel Web era riuscito ad affondare i suoi denti a mezzaluna nell’addome di David e l’aveva ucciso
.
Povero David! Il Red Back plastificato che porterò con me mi ricorderà di te per sempre. Forse sei stato tu il ricordo più pregnante dei quattro anni australiani.
Il secondo ricordo, uno dei tanti, si trova in questo momento sul piano del buffet. Si tratta di uno di quei pesantissimi portafrutta di legno che avevamo comprato a Bungendore il giorno delle “cicale infernali”. Chi non l’ha mai sollevato non riesce a crederci. Pesa più lui che i dieci aranci Tarocco che porta. Ma non basta, non basta. Ne abbiamo molti altri, tanti…. Nessuno veramente soddisfacente.
D’accordo: mi sono procurato un boomerang aborigeno e alcuni grandi disegni aborigeni con tanto di firma. Ma mi resta il dubbio che il mercato dell’arte aborigena non sia sempre genuino.
Ho così deciso di recarmi in un negozio specializzato di Sydney alla ricerca di qualcosa che, nel mio futuro e nella mia futura dimora, emettesse onde spazio-temporali capaci di riportarmi, di tanto in tanto, qui, in Australia.
Non sto adesso a descrivere quello strano negozio nei dettagli. C’erano diverse sale, grandi, alte, polverose, abbastanza scure e colme di un insolito bric-à-brac.
Non è stato facile trovare il gestore, ma alla fine è apparso in un angolo, dietro a una scrivania. Sembrava intelligente, con una bella testa e probabilmente un bel cervello dentro. Di fronte a un individuo siffatto ho scelto la via diretta: cercavo un oggetto che emettesse, in eterno, delle onde spazio-temporali pregne di ricordi australiani. Il proprietario aveva capito subito, e con un gran sorriso mi aveva accompagnato in una saletta un po’ in disparte, meno polverosa delle altre e con molti oggetti di chiara origine magico-shamanica.
«A essere sinceri» mi dice « questi artefatti non sono propriamente né australiani, né aborigeni. Potrei definirli come “indigeni peri-australiani”. Sono opere d’arte provenienti dalle numerose isole australiane che sorgono a nord dell’estrema punta settentrionale dell’Australia, appena sotto la Papuasia Nuova Guinea. In quelle isole cresce una pianta con un legno scuro e denso – iron wood lo chiamano – e con questo legno gli autoctoni fabbricano degli oggetti rituali abbastanza sorprendenti. Per esempio, questo è un “martello”» e mi mostra una statuetta lignea, 40-50 cm, pesante come il ferro, corpo ovale, appiattito e ornato di squame sui bordi, un lungo collo e sul collo una testolina con due occhi-conchiglie ben incastrati. «Prendono la statuetta per il collo e picchiano il suo corpo piatto sull’oggetto che vogliono battere: per esempio il manico del bulino con cui scolpiscono altri “martelli” o altre statuette rituali».
Una volta preso in mano e soppesato, quel “martello è subito diventato “un bell’oggetto”. Forse in futuro mi sarebbe anche stato utile: c’è sempre nella vita qualcosa su cui battere. Chiedo il prezzo, lui comincia a sospirare e poi spara una cifra. Un po’ di discussione e la cifra diventa accettabile.
Intorno al “martello” erano esposti numerosi altri artefatti, molto più lavorati e molto simili tra di loro. Proverò a descrivere quello che più degli altri aveva attratto la mia attenzione.
Le dimensioni erano quelle di un grosso quadro; il peso, tre o quattro chili. La forma era un ovale in verticale: una sorta di grossa foglia.
Il bordo dell’ovale era costituito da due esili coccodrilli. Uniti in cima all’ovale con le loro code, scendevano verso il basso arcuando i loro corpicini che finivano in due musetti armati di denti sporgenti e occhi furbi. All’interno dell’ovale stava accovacciata una donna, riconoscibile come tale solo perché portava due piccoli seni, tondi come scodelline appuntite. Aveva braccia e gambe dinoccolate, e con mani e piedi si teneva aggrappata all’interno dell’ovale coccodrillesco. Proprio come un saltimbanco si tiene aggrappato al trapezio.
Il problema era la faccia. La faccia non era sicuramente un viso femminile. Minaccioso era soprattutto il naso: sottile, adunco e volto all’ingiù come il becco di un avvoltoio. E anche la bocca era quella di un uomo, ma di un uomo particolare. Come dire? Di un uomo essenzialmente malvagio e uso alla pratica dei crimini più efferati. Per gli occhi, come sempre, due conchiglie bianchissime con fessure nere e seghettate. Dal mento della donna-uomo partiva la coda di un massiccio coccodrillo che andava a coprire il corpo nudo della stessa fino all’inguine, dove si appoggiava, feroce, la sua testa. Particolare: il bestione teneva nelle fauci un bambino dallo sguardo terrorizzato. La posizione del bambino era quella da cui nascono i bambini, ma il suo posizionamento era trasversale: metafora di un parto difficile e ricco di momenti coccodrilleschi?
Infine, sui due lati della parte bassa dell’artefatto, a forma di mezzaluna, apparivano quattro ganci lignei che sembravano aver poco a che vedere con l’impianto simbolico del tutto.
«A che serve questa meraviglia?» chiedo al venditore.
«Beh, lasci perdere i motivi artistici che sono messi lì solo per mostrare la bravura dello scultore. Lo scopo dell’oggetto e di possedere quattro ganci. A quei ganci gli indigeni appendono i sacchetti di plastica che galleggiano in mare e a cui attribuiscono proprietà magiche. In realtà tutta la complessa scultura serve esattamente a quello a cui servirebbero quattro chiodi infissi in un muro della capanna. Ma loro hanno tempo da vendere, arte da vendere e artefatti da vendere. E infatti noi li compriamo e poi li vendiamo a delle persone come lei, perché so bene che lei li comprerà. Stia tranquillo, in quanto a emanare onde spazio-temporali peri-australiane hanno tutte le carte in regola».
Effettivamente ero conquistato dalla forza ipnotica degli artefatti presenti nella saletta. Le cifre erano abbastanza toste, ma stavo rientrando in Europa con un martello di legno e con quattro ganci di legno il cui valore pratico era equivalente a quello di quattro chiodi, ma il cui valore simbolico, pittorico, antropologico, magico, terapeutico e incantatorio era molto più elevato.
Stavo per andarmene con gli ultimi acquisti, quando il proprietario mi guarda fisso negli occhi e mi dice: «Non vorrebbe ancora vedere un oggetto veramente fuori dal comune?».
«Come no?» gli rispondo. Cominciavo a credere in quel tipo.
«Mi segua.»
In un angolo buio della stanza, poggiato a terra su un lembo di tappeto stava il MinDimBit.
Per definire chi o che cosa fosse il MinDimBit non basta guardarlo in fotografia. Occorre anche descriverlo. Descriverlo? La sua forma, le sue sembianze, oppure l’intensissimo campo d’onde, di origine ignota, che emanava dal suo oscuro ricettacolo? Potenza dell’aggettivo! A distanza d’anni, se volessi trasmettere le emozioni del mio primo incontro con il MinDimBit basterebbe enunciare una prima nuvola di aggettivi “comportamentali”: minaccioso, ripugnante, torvo, sinistro, feroce, spaventevole, pericoloso, malvagio, abietto, maligno, temibile… E continuare con una seconda nuvola, “fenomenologica”: nanesco, peloso, giovane, vecchio, uomo, donna…
Ma il lettore curioso, oltre alle nuvole di aggettivi, ha anche diritto a una descrizione in piena regola. Partirò dunque dal basso e ne raggiungerò il culmine, a circa ottanta centimetri di altezza.
I piedi, dapprima. I piedi erano molto larghi, lunghi, nudi, umani, paralleli e facevano tutt’uno con lo zoccolo ligneo che li sosteneva e che comunicava loro una sensazione di incrollabile stabilità.
Le gambe – nude, corte, umane, ben tornite, flesse e divaricate – erano di buona fattezza, e conferivano al corpo un aspetto di giovanile baldanza.
La zona pubica – liscia e rigorosamente asessuata – serviva solo a sostenere una pancetta graziosa, arrotondata e con un ombelico simile a una ciliegina appiattita.
Sopra la pancetta, un torso dritto, verticale, che terminava molto in alto, all’altezza delle spalle, con due seni femminili, né belli né brutti, spioventi verso il basso e senza particolare funzione.
Le braccia, infine – lunghe, esili, arcuate – univano le spalle alle ginocchia e fornivano all’insieme nanesco un elemento di stabilità in più.
Tutto il corpo era liscio e di un bel colore cioccolato scuro. L’artista aveva arricchito la superficie corporea con grandi motivi ornamentali di color rosso: tondi, strisce, virgole…
Al di sopra del corpo, totalmente esente di collo, troneggiava una testa.
«Che cos’è questo orrore?» chiedo al venditore che mi osservava divertito.
«È un antenato. Una figura abbastanza tradizionale nell’arte primitiva. Ce ne sono di tutti i tipi. Maschili, femminili, protettori, saggi, pazzi, indemoniati… Ma questo qui è particolare.»
«Lo vedo bene. Il corpo è donna, ma la testa è uomo, anzi, diavolo, anzi, demonio. E inferocito anche.»
«Lei ha ragione, ma solo in parte. Il MinDimBit è donna, testa compresa. Guardi qui» e mi mostra il tergo del mostriciattolo.
Come vede, il corpo femminile è ben rappresentato e continua, al di sopra delle spalle, con un collo e una nuca decisamente femminili. Graziosi anche.»
A guardar bene, la parte posteriore del MinDimBit mostrava, dai piedi alla testa, l’anatomia di una giovane donna, quasi una bambina.
«Il problema non è la testa» continua rimettendo l’oggetto in posizione frontale, «è la faccia. E infatti non si tratta di faccia ma di maschera. Insomma, il MinDimBit è una statuetta lignea che rappresenta una giovane donna con una maschera sul viso. Una maschera d’uomo, come può vedere; con tanto di barba, occhi fiammeggianti, orecchie pelose e denti ferocissimi. Quella è la vera forza della statuetta. Il corpo serve solo a sostenere la maschera.».
«Ma, a che serve?»
«A far paura. Gli indigeni lo mettono sulla soglia delle loro case per tener alla larga i malintenzionati. Circolano leggende. Un malintenzionato aveva un giorno sfidato le onde infernali emesse da un MinDimBit di guardia a una capanna. L’uomo, un colosso, voleva rubarlo ma era caduto morto rinsecchito ai piedi della statuina di ottanta centimetri. Un altro aveva preso il MinDimBit e l’aveva girato verso l’interno della capanna. Non l’avesse mai fatto! Le braccia gli si erano rattrappite per sempre. Questi MinDimBit hanno una pessima reputazione.»
«E lei vuole vendermi questo pericolo pubblico?»
«Sì, certo; e so che il mio MinDimBit starà bene a casa sua. Lei non ne avrà paura, ma gli altri sì. Anzi, le renderà un grande servizio. Nessuno, nemmeno nel vostro mondo di razionalisti scettici, oserà fare del male a lei per paura di irritare quella cosa alta ottanta centimetri e avvolta in un campo elettromagnetico sconosciuto che si estenderà ben al di là della sua casa. Anzi, le faccio notare che è proprio ciò che lei cercava quando è entrato nel mio negozio. L’ho visto subito.»
«Prima mi mette paura, poi mi incoraggia a comprare il mostriciattolo. Devo dire che è proprio brutto. Un’orribile barba nera, fatta di fibre vegetali primitive, incornicia il suo mento. Spezzoni delle stesse fibre rossicce spuntano dal naso e dalle orecchie. Della stessa corda ruvida e scabra sono fatti i braccialetti ai polsi e alle caviglie. Mamma mia! Lei vuole vendermi questo coso?»
«Non voglio venderlo, voglio regalarlo. I MinDimBit non si vendono, nessuno ha mai osato farlo, perché dovrei farlo io? Non credo ai suoi poteri demoniaci, ma rispetto le tradizioni e glielo regalo. Lei mi ha già comprato un bel po’ di mercanzia e per me va bene così. Se riesce a tenerlo con sé per tutta la vita è meglio. Con l’abitudine diventano sempre più forti, sempre più protettori…»
Anche mia moglie sembrava interessata ad accoglierlo; l’intenso campo di attrazione mindimbitico aveva ormai catturato anche lei.
Giunti a casa abbiamo dovuto fornire delle spiegazioni alle figlie, di 13 e di 16 anni rispettivamente. Ce la siamo cavata raccontando loro che il MinDimBit era uno spirito gentile e protettore. La faccia in cagnesco gli serviva per spaventare gli spiriti cattivi. Quelle cose non esistevano, ovviamente, ma nelle antiche tradizioni esistevano. Non dovevano preoccuparsi, erano immagini mentali che appartenevano alla sfera del mito. Tanto più che al di fuori dell’Australia quel mostruoso nanerottolo non aveva più nessun potere. Per noi era solo un oggetto-ricordo, e l’aereo che ci avrebbe portato via da quel mondo stava già scaldando i motori.
Scende la sera. In pratica: dove metterlo? Non volevo metterlo fuori, in giardino. Un malintenzionato notturno se lo sarebbe facilmente messo sotto il braccio per sfasciarlo e bruciarlo un po’ più in là, nel bush, bevendoci sopra due litri di birra. Se non fosse morto prima.
Dopo vari ripensamenti, il MinDimBit è posto nella camera da letto, faccia rivolta alla porta finestra che dà sul giardino. Visto da tergo, il MinDimBit esponeva ai dormienti il tergo di una donnina ben fatta e dalle membra ben tornite. Dall’altra parte, il faccione spaventoso sbarrava l’accesso a ladri, assassini, serpenti e ragni velenosi.
Cala la notte e con la notte il sonno. Il sonno profondo. Il sonno paradossale. Quello dove nascono i sogni, gli incubi, le idee bislacche e le metafore di un mondo sepolto…
Ma ecco che, in pieno sonno paradossale australiano, sono svegliato da un potente shshshshshshshshshshsh… Un sibilo; anzi, più che un sibilo, un soffio potente, un suono che ricordava la fuoriuscita di un gas o di un liquido da un impianto sotto pressione.
“Porca miseria, è partito un tubo dell’acqua!” mi dico e salto giù dal letto con gli occhi stralunati. Corro in cucina, vado nel soggiorno, apro le finestre del giardino (magari era saltato uno sprinkler dell’impianto di irrigazione) corro nella camera delle bambine, sveglio il cane… Niente. Ma il fruscio : shshshshshshshshshshsh…, continua. Sembra venire, attutito, dalla nostra camera da letto. Un tubo dell’acqua rotto in un muro, sotto il pavimento?
Poi, con un brivido: «Stai a vedere che è partito un tubo del gas!» mi dico parlando forte. «Qui saltiamo tutti per aria!» Corro da tutte le parti: nessun odore di gas.
Ritorno in camera da letto. Il rumore sembrava venire da sotto il pavimento e sotto il pavimento c’era il locale della caldaia, del bruciatore, del contatore del gas, dell’acqua…
Guardo l’ora: sono circa le tre di notte.
Esco fuori, nella notte australiana. Non ero mai entrato nello sgabuzzino della caldaia. La porta era accostata. Si sentiva uno shshshshshshshshshshsh… ma era lontano, occorreva localizzarlo. Facile da dire.
Alla luce della pila è tutto un correre di bestie a otto zampe svegliate dal sonno. Avevano tessuto delle ragnatele spesse come tappeti, forse per acchiappare i topi.
Devo capire da dove viene quel dannato rumore. Mi faccio coraggio, ma è il coraggio della disperazione, non voglio che salti in aria la casa. Perlustro gli angoli più disperati del ripostiglio. Nessun odore, nessun aumento dell’intensità del rumore… che sembrava invece provenire da sopra il soffitto. E sopra il soffitto del ripostiglio c’era la nostra camera da letto.
Ritorno in camera da letto: shshshshshshshshshshsh… È proprio da lì che viene. Anzi, non c’è dubbio: viene dalla zona davanti alla porta che dà sul giardino.
Bisogna rassegnarsi: chi soffia è il MinDimBit.
E così, invece della paura, sono sopraffatto da un’ondata di collera. “Quel bastardo!” penso. “Ha voluto regalarmelo. È riuscito a rifilarlo a un piemontese di passaggio che di MinDimBit non aveva mai sentito parlare. Adesso, per quel bastardo, i risvegli notturni a colpi di shshshshshshshshshshsh… sono finiti. L’ha passata a me la patata bollente!”
Pieno di collera mi avvicino al MinDimBit: la collera è il migliore antidoto contro la paura. Lo prendo per le spalle e lo giro verso di me. Ecco l’orrendo faccione. Mi viene voglia di prenderlo a sberle. Alzo la statuetta e la porto all’altezza dei miei occhi. A quei tempi avevo ancora delle riserve di selvatichezza per voler incrociare il mio sguardo con le dannate conchiglie del MinDimBit. Ce l’ho in mano e lo tengo ben saldo. Lo tengo per le braccine appoggiate alle ginocchia. Ce l’ho a distanza molto ravvicinata…
Eppure, non mi sembra che lo shshshshshshshshshshsh… arrivi da lì. Non mi sembra proprio che sia lui a emettere quello shshshshshshshshshshsh…
Sposto la malefica statuetta nel corridoio e ritorno davanti alla porta che dà sul giardino:
« Shshshshshshshshshshsh…» come prima.
Quindi non era il MinDimBit. Era qualcos’altro, ancor più misterioso e angoscioso.
Accanto alla porta finestra c’è una cassettiera con tre cassetti. Apro i tre cassetti uno alla volta. All’apertura del terzo, quello in basso, lo shshshshshshshshshshsh… raddoppia di volume.
C’è in quel cassetto qualcosa che soffia molto forte, in mezzo alle lenzuola e agli asciugamani. Da irrazionale, la paura diventa razionale. Ma allora il MinDimBit e il suo donatore non c’entrano per niente! Il problema è nel cassetto! Una carica di dinamite che sta per scoppiare preceduta da un segnale acustico molto lungo per allontanare i presenti? Un mostruoso animale, una di quelle specialità sconosciute come si trovano solo in Australia? Se comincio a togliere lenzuola e asciugamani per metterlo a nudo, cosa troverò? Mi salterà addosso soffiando e sibilando?
L’ho poi svelato, il mistero. Il percorso è lungo, ma è facile da capire.
Eravamo agli inizi degli anni 90. In quel tempo, niente cellulari, niente e-mail, niente computer, niente Skype, niente Whattsapp, niente Internet. Tra Australia e Europa i contatti erano difficili. Il telefono aveva costi proibitivi. Lo si usava solo per annunciare una morte, o una nascita. Le compagnie avevano il Fax o il Telex. I privati, ogni tanto, mandavano un telegramma. I giornali arrivavano ingialliti, con notizie di governi già caduti, di uomini già morti. L’Australia era veramente il Down Under.
Perfino le radioline non prendevano le stazioni europee. Come tutti sanno, le onde elettromagnetiche non seguono la curvatura della Terra; si perdono nello spazio. Ma c’erano eccezioni. Alcune lunghezze d’onda, rimbalzando tra la superfice della Terra e la ionosfera, coprivano lunghe distanze. Non arrivavano fino in Australia ma le emittenti di Radio France International che coprivano le colonie francesi nel Pacifico facevano prodigi con i loro ripetitori: a volte un segnale emesso a Parigi, dopo esser rimbalzato fra strato e strato, veniva captato da un ripetitore, aumentato di intensità e rilanciato nell’aria. Il sogno era di ricevere in Australia un segnale radio, sia pure raschiante e smorzato, ma proveniente dall’Europa. Alla velocità della luce.
Hong Kong era una tappa privilegiata nei voli tra Bruxelles e Canberra, e a Hong Kong vendevano delle radioline della Sony molto speciali. Si trattava di oggetti ad altissima tecnologia, specializzati nella ricezione delle onde ultracorte, le migliori per superare grandi distanze. Oggetti complicati da usare. Molto costosi. Erano venduti con un manuale di utilizzo che sembrava una tesi di dottorato. Nessuno ci capiva niente, ma molti li compravano.
L’ho fatto anch’io. Ci ho provato. A Canberra ho tirato in giardino delle antenne filari di lunghezza precisa, messe nella direzione indicata. Niente. Solo un va e vieni di suoni rochi, come soffi extraterrestri.
Poi, un giorno, chissà perché, la radiolina si era chiusa in un ostinato mutismo. Per svegliarla avevo provato con tutti i bottoni, li avevo schiacciati tutti, a uno a uno, a due a due, avevo provato tutte le combinazioni, ero rimasto sui vari bottoni per diversi secondi. Niente. La radiolina giapponese acquistata a Hong Kong aveva esalato l’ultimo respiro.
L’avevo lasciata in giro per casa. Poi qualcuno, nel fare le pulizie, l’aveva spostata da una stanza all’altra. Alla fine, era atterrata sulla cassettiera della camera da letto, e dal piano della cassettiera nel terzo cassetto in basso. E lì, a forza di cambiare le lenzuola era finita sul fondo del cassetto. Più nessuno sapeva che fosse lì.
Eccola lì adesso, sul fondo del cassetto vuoto. Fremeva e soffiava come un drago. Il mistero dell’angoscioso shshshshshshshshshshsh… era finalmente svelato.
Rimaneva da capire perché si fosse svegliata proprio nel cuore della prima notte in compagnia dell’inquietante ospite.
Non nego di aver ventilato ipotesi poco ortodosse. Per esempio, mi era frullata l’idea che le onde spazio-temporali emesse dal MinDimBit fossero della famiglia delle onde ultracorte. E che quindi il MinDimBit, desideroso di entrare in contatto con il suo nuovo padrone, avesse scelto di comunicare con me tramite l’altoparlante di quel gioiello di tecnologia giapponese morto per sempre. Lo spaventevole shshshshshshshshshshsh sarebbe dunque stata la voce della magia nera papuasica che cercava di entrare in contatto con me.
Ho sudato parecchio, ma alla fine, ho trovato una spiegazione. Improbabile, tirata per i capelli, ma razionale.
Leggendo il manuale di istruzioni ho scoperto che la radiolina poteva essere messa in un sonno profondo (deep sleep) per svegliarsi poi a un’ora stabilita di un giorno, di un mese e di un anno pre-programmati. Nel mio cieco toccar bottoni di qua e di là, e per un caso meramente fortuito, l’avevo dunque programmata a svegliarsi alle ore tre di quella famosa notte.
Semplice, vero?
Squallido, ma plausibile.
Plausibile, ma squallido.
Peccato.
***
Post-Scriptum
Nizza, novembre 2024
Sono passati trent’anni da quella notte, e il MinDimBit non ha mai smesso di emettere onde spazio-temporali australiane. È stato lui a dirmi di aggiungere questo PS.
Eccolo lì, infatti, in un angolo del mio soggiorno di Nizza che dà sul mare. Non ha preso una grinza. Nessuna ruga, nessuna screpolatura, nessun forellino d’insetto.
Non così io. Anzi, la mia faccia, col tempo, si sta sempre più avvicinando alla sua. Non in ferocia, non in baldanza guerriera. In… in… non trovo la parola esatta… Diciamo “repellenza”.
Dalla sua prospettiva, guarda impassibile la Promenade des Anglais e la vecchia Nizza proprio lì sotto. Ma non mi sembra molto coinvolto.
Altre cure…
Non è solo. Intorno a lui, nell’ingresso dell’appartamento, ci sono altri artefatti con tucani e coccodrilli, irti di ganci lignei che non sorreggono alcun sacchetto di plastica trovato in mare. Il governo di Macron li ha dichiarati fuori legge.
C’è la statua lignea di una donna pacioccona che allatta un grosso bambino. Un altro capolavoro, minimalista e senza coccodrilli, rappresenta una donna aggrappata al solito trapezio ovale. Nella parte bassa, due lunghi ganci per appendere i sacchetti di plastica più grandi, che Macron odia.
Dappertutto vedi occhieggiare delle sclerotiche bianchissime, durissime, limpidissime.
Come le invidio! Il giorno in cui perderò i miei occhi vorrei che mi trapiantassero due di quelle conchiglie.
Il mio rapporto con il MinDimBit si è molto rappacificato. Non mi fa più paura, e forse non me l’ha mai fatta. Shshshshshshshshshshsh a parte.
Devo ammettere che ultimamente mi prendo con lui delle libertà che non dovrei. Per esempio, se rientro da una passeggiata con il cane, mi tolgo il berretto e lo metto sulla sua testa. Non gli sta nemmeno male. Io so che la cosa non gli garba, ma lui me lo permette fin quando io mantengo, ancorato nel fondo della mia coscienza più profonda, l’impegno di non darlo a nessun altro e di non distruggerlo.
Un giorno, su Internet ho visto degli oggetti di Papuasia Nuova Guinea – reperti della Valle del Sepic – molto simili a lui. Anche loro li chiamavano MinDimBit. A leggere, sembrava che fossero molto rari; preziosi, anche…
Ho visto come un’ombra passare nei suoi occhi.
Sta’ tranquillo, MinDimBit: non ti vendo.
Anzi, se sei d’accordo, se ti va, potremmo anche farci cremare insieme.
QUI la versione francese
QUI la versione inglese