FULVIA GIACOSA
A partire dagli anni Ottanta accanto a fenomeni di ritorno all’artigianalità pittorica che però sostanzialmente si esauriscono nel decennio (Transavanguardia, Neo-espressionismi, Graffitismi), si assiste ad una gran diffusione della fotografia e del video. Da allora le gallerie promuovono esposizioni esclusivamente dedicate alle nuove tecniche artistiche, si moltiplicano gli scritti storici sulla fotografia, nasce una nuova estetica e una nuova critica d’arte. La questione è quanto mai attuale: ai nuovi mezzi di riproduzione si rivolgono sia artisti della vecchia guardia sia soprattutto la giovane generazione nata dopo la II Guerra Mondiale.
La storia ormai secolare della fotografia dimostra che nel corso del tempo essa si è così tanto trasformata, tecnicamente ed esteticamente, fino a guadagnarsi una piena autonomia linguistica indipendentemente dalle tematiche affrontate. Si pensi alla funzione documentaria delle correnti artistiche dei Sessanta e Settanta, in particolare quelle in cui gli interventi privilegiavano luoghi lontani e difficilmente accessibili (Land Art) o quelle performative circoscritte per loro stessa natura entro una temporalità effimera (Body Art, Concettualismo comportamentistico). Nel primo caso la tecnica fotografica era messa al servizio di forme d’arte che erano destinate a modificarsi nel tempo per mutazioni naturali o addirittura a sparire del tutto; nel secondo caso happenings e performances, essendo forme assai vicine al teatro, vivevano nello spazio-tempo dell’azione e dunque necessitavano di mezzi testimoniali che fungessero da taccuini visivi. In entrambi i casi tuttavia scarsa importanza veniva data alla qualità dello scatto o della ripresa e infatti i risultati erano molto spesso approssimativi e sciatti. Oggi invece viene ricercata una perfezione “stilistica” oltre che tecnica: la fotografia diventa raffinatissima e i video non hanno nulla da invidiare alle produzioni cinematografiche. All’esclusivo “duro e puro” bianco e nero dei decenni precedenti, che consentiva effetti pittorici, si affianca in alcuni artisti più giovani il colore: si vedano personaggi come Thomas Struth che fotografa sale museali ponendo attenzione agli atteggiamenti degli spettatori che ne sono il vero soggetto o come Andreas Gursky, proveniente dalla prestigiosa scuola dei fotografi Brend e Hilla Becher a Düsseldorf, che realizza giganteschi “ritratti di luoghi”. La rivoluzione digitale inoltre consente di intervenire sull’immagine fotografica e video con manipolazioni in studio e appare una delle ultime frontiere; filmati di maggior complessità consentono, in fase di post-produzione, una resa ad alta definizione che implicano l’intervento di tecnici e professionalità disparate come per i lavori di Cindy Sherman che realizza fotografie e video sui modelli-mito della cinematografia presentando se stessa “in veste di”. Cambia anche radicalmente il meccanismo percettivo: con la pittura e la fotografia l’immagine è fissa e lo spettatore è posto in una situazione “statica” mentre nel video essa fluisce ininterrottamente. Altro dato interessante è la presenza nutrita di artiste donne che utilizzano abbondantemente tali media; le più note al grande pubblico sono sicuramente la citata Sherman e Shirin Neshat, protagonista della presente scheda. Infine molti artisti provengono da altri continenti come il sudafricano William Kentridge, la colombiana Doris Salcedo, il cinese Ai Weiwei, anche se è stato giocoforza per molti di loro il trasferimento in Occidente dove ancora è concentrato il mercato artistico.
Shirin Neshat nasce nel 1957 a Qazvin (Iran) prima della rivoluzione khomeinista: “sono nata senza velo”, dice. Tra i ricordi d’infanzia vi sono le lunghe camminate con la madre nella bellissima terra che farà da sfondo ad alcune fotografie. Nel 1974 si reca a New York per frequentare l’Università di Berkeley. Essendo scoppiata la rivoluzione iraniana nel 1978 non potrà ritornare nel suo paese fino al 1990; quando ciò avviene trova l’Iran irriconoscibile, in particolare per le leggi restrittive nei confronti delle donne costrette allo chador che lascia scoperti solo il volto e le mani, private d’ogni diritto, situazione che perdura tutt’oggi come dimostrano le cronache recenti. Neshat decide di documentare la realtà attraverso l’attività artistica, inizialmente attraverso la fotografia e in seguito il video e il cortometraggio. Mettiamo subito in chiaro un aspetto a cui l’artista tiene in modo particolare: il suo scopo non è una condanna senza appello della situazione, piuttosto è lo sforzo di comprensione di quanto è avvenuto ed avviene in quel paese nei confronti dell’identità femminile. L’artista non ha mai rinnegato la sua doppia appartenenza culturale, occidentale e orientale, ha invece voluto narrare, mostrare, porre domande e cercare risposte al problema della posizione della donna nell’una e nell’altra realtà. Questo desiderio di comprensione va dunque al di là di una lettura stereotipata del mondo musulmano, scava nella sua storia e nei suoi valori culturali e religiosi e pone una questione di identità della donna islamica, ovunque si trovi nel mondo. Neshat è ben consapevole che l’arte non è in grado di risolvere problematiche complesse ma sicuramente sente il dovere di porle all’attenzione del pubblico. La sua sensibilità si è così tradotta in immagini che sono di una particolare intensità poetica. D’altronde con la poesia del suo paese, antica e recente, ha sempre avuto una relazione particolare; lo dimostra uno dei suoi primi lavori ormai famosissimo, “Women of Allah”, che l’hanno impegnata per quasi cinque anni (1993-97). Si tratta di una serie di scatti in bianco e nero di donne velate (in molti casi lei stessa) in posizione frontale e ravvicinata rispetto allo spettatore, con volti, mani, piedi coperti di versi in farsi di poetesse iraniane censurate dal regime. Non nega certo le condizioni difficili della donna e del suo ruolo sociale nell’Islam sciita, ma per le sue donne e il mondo a cui appartengono chiede disponibilità, apertura culturale, vicinanza umana, in un paese nel quale esse devono fare i conti con atti di sottomissione e di violenza. La forza comunicativa delle immagini rivela contemporaneamente i riti di massa del suo paese e la critica sociale al mondo islamico da parte di una donna ormai abituata al vivere americano ma piena di nostalgia per la terra natia. Tra le tante fotografie del ciclo c’è un “Untitled” del 1995 particolarmente toccante che ritrae Shirin velata con un bambino tra le braccia: il contesto delicato è però smentito da un fucile posto a terra, nero sul telo bianco, che si nota solo dopo uno sguardo non frettoloso. Spesso le immagini e ancor più i filmati sono impostati su elementi contradditori: sacro e profano, vita e morte, ribellione e acquiescenza, emancipazione e regressione, forza e fragilità, sensualità e freddezza, Est e Ovest. L’artista ribadisce il proprio bisogno di comprendere l’Iran odierno ed evitare la percezione stereotipata che di esso ha la civiltà occidentale. È evidente lo sforzo di “guardare oltre la superficie” e senza pregiudizi nel suo essere divisa tra due mondi. Parlando del velo imposto alle donne si chiede: “Come un semplice pezzo di stoffa è realmente capace di dettare e imporre limitazioni?”.
Dopo questo ciclo fotografico Shirin ha privilegiato il video anch’esso rigoroso nel bianco (le lunghe e candide camicie degli uomini) e nero (le monacali vesti delle donne): i temi sostanzialmente nascono dalle stesse istanze che avevano ispirato “Women of Allah” ma certamente il medium scelto accresce sia il valore documentario sia la partecipazione emotiva degli spettatori, anche grazie alle musiche che accompagnano le immagini e le storie narrate. In molti lavori Shirin è protagonista, quasi a volersi “denudare” di fronte al pubblico: il suo volto diventa iconico, i suoi movimenti cadenzati, lo sguardo penetrante. Dice in una delle tante interviste che concede con generosità: “le fotografie hanno una monumentalità che mi limita. Mi interessa invece l’aspetto narrativo del film, come anche la parte coinvolgente della musica che lo accompagna. Vorrei continuare a trattare argomenti difficili come le complessità sociali, politiche e religiose del mio paese trasmettendo delle emozioni. Mi interessa altrettanto rappresentare l’esistenza costante nei dualismi est-ovest, donna-uomo, dentro-fuori, visibile-invisibile, senza mai tralasciare l’idea della bellezza e il legame tra arte e vita”. Tra i video più noti ricordo “Soliloquy” e “Turbulent” che le hanno fruttato il Leone d’Oro e successivi premi alla Biennale e al Festival del Cinema di Venezia. In entrambi i lavori sono utilizzati due schermi: in “Soliloquy” (1999) il pubblico si trova infatti tra di essi ed è costretto a scegliere quale guardare; sul primo schermo una donna avvolta nel chador nero cammina in una città orientale e giunge ad una moschea, nel secondo schermo un’altra donna nero-vestita girovaga in una megalopoli occidentale e raggiunge una chiesa cattolica; dopo questi due percorsi distinti le due donne solitarie si fondono in una figura sdoppiata ma “unica” com’è appunto l’artista stessa e Neshat parla di un “terzo spazio” in cui le forti differenze tra l’una e l’altra svaniscono nella comune ricerca di una appartenenza culturale. Le scene sono accompagnate da musiche antiche e canti. Una situazione simile – anch’essa a doppio schermo – si verifica in “Turbulent” (1998) dove in uno si esibisce un cantante uomo che viene applaudito da un pubblico numeroso mentre nell’altro una donna canta di fronte a tante sedie vuote, senza pubblico: è chiaro il riferimento alla legge iraniana che proibisce alle donne di cantare in pubblico. Dal romanzo (bandito in Iran) della scrittrice iraniana Shahrnush la Neshat ha tratto a inizio millennio un cortometraggio, “Donne senza uomini” che scava nei rapporti tra donne e tra queste e gli uomini attraverso quattro tragiche storie femminili di emarginate che danno vita in una casa in campagna ad una comunità utopica lontana dal mondo reale, libere dalle oppressioni famigliari e sociali. Il video e la filmografia sono ormai i media che l’artista usa perché, dice, le consentono un respiro narrativo che la fotografia non ha e soprattutto coinvolgono un pubblico ampio mentre l’arte della fotografia tende a rivolgersi ad una platea ristretta, frequentatrice dei musei. Sempre del 1999 è il filmato “Rapimento” girato in Marocco, che mette in evidenza le profonde differenze esistenziali tra uomini e donne, i primi, tradizionalisti, ripresi in una fortezza islamica, le seconde, imprigionate nello chador, in ampi spazi desertici; nel finale sono queste ultime a salire su una barca e dirigersi verso il mare aperto, forse alla ricerca di un riscatto dalle restrizioni del loro paese. Dice Shirin: “In opposizione agli uomini, che rimangono entro i propri confini interiori, le donne diventano molto coraggiose.”. Una delle sue ultime opere (“Woman Life Freedom, 2022) è un omaggio a Mahsa Amini vittima dal regime: “Venire da un Paese in cui abbiamo tanta censura e tanto deve essere ancora nascosto e, al tempo stesso, c’è tanta sovversione nell’aria. Questo è ciò con cui il popolo iraniano ha imparato a fare i conti: l’assenza di libertà di espressione significa trovare modi di parlare senza davvero aprire bocca”. In questo caso si tratta di un lavoro digitale, proiettato contemporaneamente a Londra e Los Angeles, che ingloba frame di opere precedenti sulle stesse tematiche. È evidente infatti che una coerenza interna lega tutta la sua produzione da intendersi in un “universale dialogo che ci accomuna tutti”, dice con ragione.
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