La donna d’oro

donna d'oro[

GABRIELLA VERGARI.

Avrei  preferito l’umbratilità di un chiostro.
Ma se discendi da un re, ti insegue la luce.
E a me è toccato l’oro.
Sfavillante come le lumie dei nostri giardini di Sicilia.
Opulento, a gara con le nostre spighe di giugno.
Perciò, tra le mie tinte, ho voluto anche l’azzurro.
Terso, assoluto, come il sereno di questo cielo isolano, quand’anche a tratti  incipriato di  nuvole;
o il riflesso delle nostre acque, mai scialbe, pur nello stento di fiumare riarse.
Né ho rinunciato al rosso.
Intenso al pari delle passioni che mi attraversano.
Lucente come il nastro carminio che mi stringe alla vita.
Magnifico.
Come il fuoco che, intridendo le viscere dell’Etna, sbocca improvviso nell’incandescenza dei suoi fiotti.
Ma nessuno sa davvero chi sono.
Lodano lo splendore della veste, celebrano l’onore, vagheggiano la bellezza, però  il mio pieno volto nessuno lo vede.
Così l’ombra che avrei voluto all’inizio, ho imparato a portarla con me.
Eppure, se fino, l’oro riluce e suo malgrado trapela.
Sempre splendido, sempre refrattario ai camuffamenti, un po’ forza, un po’ condanna, un po’ sprone, un po’ tormento.
Per questo volgo le spalle,  e dei miei lineamenti  un accenno, appena un profilo, perché non è il nome che conta ma  l’essenza.
E la mia è antica e possente, come questa terra da cui ricevo e traggo vanto ogni volta che, passando per mille luoghi e mille tempi, prendo forma e  mi manifesto.
Così  ho vagato per i campi di Enna quando la natura piangeva al  lutto della madre.
Ero allora Demetra in persona  o  una  sua sacerdotessa,  Persefone o solo una compagna ?
Che importa, dal momento che,  creduto il mio oro figlio del Sole,  altri hanno  poi preferito chiamarmi Triscele,  e  nei templi della Magna Grecia  sono apparsa Gorgone a tre gambe,  per  scacciare i demoni con  la lingua,  a Siracusa come a Selinunte, ad Agrigento come a Gela?
Icona e  trastullo delle corti sono quindi diventata, con Federico, lo Stupore del Mondo soprattutto, e i poeti  m’ hanno in vario modo cantata:
Rosa fresca aulentissima …,
Meravigliosamente,
un amor mi ristringe …,
Dipinsi una pittura,
bella,  voi somigliante
Ma  chissà, qualcuno potrebbe anche  dirmi la Bella, l’Infedele  perennemente inseguita, che ancora sollecita  Pupi e Pupari  a prodezze  d’altri tempi e rende sgargianti i carretti col racconto d’immagini native:
Dissi dru bruttu bestia gicanti:  Avverti, Cavaleri, chi ti penti!  Megghiu lassi sta donna e passi avanti, nun ti vogghiu ammazzari veramenti…
O forse fui  Lisabetta,  e  a Messina, col cuore spezzato, celai nel basilico la testa dell’uomo che amavo. O forse la  Ciciliana  procace, che  si giocò d’ Andreuccio  con profferte mirate.
E ho abitato alla Zisa, tra aranceti arabi e delizie normanne, ho regnato da signora e sovrana, ho sposato principi e partorito re, lottando per loro con ogni mia risorsa, come Costanza  quando non esitò ad allattare il figlio appena nato, di fronte al popolo riunito.
Ma  ho anche spesso  combattuto la tirannia del sopruso, come  Gammazita, che a Catania preferì gettarsi in un pozzo per scansare le molestie francesi. O il Vespro dopo Pasqua, che  l’ Angioino mi frugò spudorato  e  per la vergogna svenni  in  braccio  al mio sposo.
E che dire delle volte in cui ho amato, dandomi senza  riserve, come ancora testimonia l’impronta della mia mano insanguinata a Carini?
E quelle in cui ho desiderato insaziabile, trasformandomi in  maga o mammatrava,  Lola funesta da riscattare  con duelli rusticani, all’ombra delle pale di ficodindia, o Lupa famelica?
Era  alta, magra…  si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso…
La mia storia è lunga, lunga come il tempo e sempre mi sono mostrata. L’oro, l’oro non mi ha lasciato altro scampo. Ha ordinato e ho obbedito.
Pronta.
Alla battaglia come al sostegno, all’azione come al consiglio, dispensiera di vita e d’amore, pilastro sempre portante, costantemente chiamata alla spesa di me.
Ma ho imparato anche a  celarmi, lasciando libero il campo a chi presumeva di diritto gli spettasse, o pretendeva d’averlo.
Perciò non di rado sono stata anche nascosta nelle case, ad impastare  pani e focacce, arrostendo il mio volto al calore dei forni, e nelle filande ho imparato la triste sorte della seta e della vita negata  appena prima della schiusa.
E ho intrecciato fili e colori, affidando ai ricami quella mia voce troppo facilmente soffocata. E ho giocato coi sapori, inventando le carezze che blandiscono i palati, e  dalle Cantorie delle Clarisse ho elevato inni al Cielo,  per riscattare con la mia ombra la luce nefasta del mondo.
E quante le canzuni di naca che ho intonato:
A-la-vò ed a-la-ninna:
dòrmiri voli e di lu sonnu spinna.
A-la-vò, dormi ed abbenta:
voli la naca ‘mmenzu l’amenta.
A- la-vò, ca dormi e chianci:
vola  la naca ’mmenzu l’aranci.
A-la-vò,ca dormi e riri,
vola la naca ‘mmenzu l’alivi.
A-la-vò, dormi e riposa:
voli la naca ‘mmenzu la rosa.
E a-la-vò

Ebbene, voglio svelarvelo, ora, un segreto.
Se  ammirate il disco d’oro che mi illumina e rappresenta e vi pare a prima vista ch’ io gli renda omaggio, osservate bene. Osservate veramente.
Non gli rendo omaggio: lo REGGO.

(testo scritto nel 2008 per lo spettacolo teatrale SCUPA! diretto da Guglielmo Ferro: maggiori informazioni QUI)

informazioni sull’autrice sono reperibili QUI