ELISABETTA MERCURI
È in mostra nelle sale del Museo Archeologico Lametino, da marzo ad agosto, prima di diventare itinerante, un allestimento suggestivo dal titolo “I colori del Castello di Nicastro e dell’Abbazia di Sant’Eufemia attraverso la ceramica”.
In una lunga serie di teche, corredate da pannelli illustrati e ampiamente esplicativi: piatti e altro vasellame di uso quotidiano, nei cui decori prevalgono i colori del Mediterraneo, il giallo e il verde. Una mostra che «illumina l’oscurità con cui si tende ad avvolgere il Medioevo», come affermato dall’archeologo Francesco Cuteri nella cerimonia di apertura dell’evento.
Una straordinaria sintesi di storia e tradizione nella ricreazione degli 80 manufatti in mostra. È il compimento di un approfondito studio, condotto dall’ingegnere Rocco Purri coadiuvato dall’Associazione archeologica lametina, su reperti ceramici rinvenuti negli incantevoli siti svevo-normanni della piana ma anche in altre zone della regione. Alla riuscita del progetto hanno collaborato il Dipartimento di Fisica dell’Unical e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria. Un traguardo per la città di Lamezia, che diviene, a pieno titolo, uno dei centri più accreditati d’Italia, se non l’unico, nella sperimentazione archeologica legata al campo della ceramica antica e medievale.
Questa mostra, infatti, è la seconda realizzata da Rocco Purri con il sostegno dell’Associazione Archeologica, dopo quella sulle ceramiche del Neolitico recuperate a Piana di Curinga, e presentata anche, nel giugno 2011, presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “L. Pigorini” di Roma.
I variopinti frammenti venuti alla luce tra i ruderi del Castello di Nicastro e dell’Abbazia Benedettina di Sant’Eufemia, testimonianze di una ricca produzione che ha interessato la Calabria, in base agli studi effettuati dai professori Raffaella Cicero e Antonino Oliva, con la tecnica della “termoluminescenza”, sono databili tra il XIII ed il XVI secolo.
La ricerca per replicare il processo produttivo delle ceramiche medievali si è basata su due tipologie, quelle preponderanti, distinguibili per la tecnica decorativa: le “invetriate policrome” (con i tre colori del nero, del rosso e del bruno) e le “invetriate graffite” (con i due colori del giallo ferraccia e verde ramina). Nelle prime, le decorazioni sono state realizzate con il procedimento dell’ingobbio, ovvero la copertura del manufatto di base con argilla bianca per esaltarne la colorazione applicata successivamente, nelle seconde è stata usata la tecnica dell’incisione sull’argilla liquida bianca che ricopre lo strato di argilla morbida.
«La invetriata policroma si trova in Calabria a partire dalla fine dell’XI secolo, inizi del XII, ma la produzione aumenta in modo esponenziale in tutta l’Italia meridionale, a partire dal XIII sec., in età sveva, e prosegue fino al XV sec. Successivamente sarà sostituita da quella graffita. E poi da quella che giungerà dalla Campania, più decorata». Sono passaggi, come spiega l’archeologa Cicero, che dipendono dai mutamenti di gusto nel tempo, nonché dalla disponibilità dei pigmenti per dipingere o dell’argilla reperibile in loco. In quel contesto temporale, XIII–XV secolo, infatti, l’approvvigionamento delle materie prime, raramente, almeno in Calabria, superava l’ambito regionale. La ricerca di campo effettuata per reperire i pigmenti (minerali di ferro e manganese, sabbie di quarzo e argille caoliniche) ha compreso la fascia di territorio tra Parghelia e Tropea, passando per i territori di Soriano e delle Serre fino ad arrivare a Stilo e Bivongi. Mentre le argille sono state prelevate nell’area di Mileto, Soriano Calabro e Serra San Bruno.
Dopo l’analisi e l’interpretazione dei reperti, l’osservazione del loro corpo interno effettuata dai professori Antonino Oliva e Valentino Pingitore attraverso il SEM (microscopia elettronica a scansione), si è proceduto a ripercorrere rigorosamente l’iter produttivo: la ricostruzione morfologica, la sintassi decorativa che ha rivelato l’eccezionale fantasia dell’artigiano medievale, la riproduzione delle tecniche di cottura. Quella nella fornace a legna è il cuore di questo processo di produzione. Particolarmente utile è stato lo studio del forno per ceramiche della famiglia Giampà, ubicato nel centro storico di Nicastro fin dagli anni ’20 e funzionante fino agli anni ’60.
Tracce, ipotesi, attraverso un’intensa attività di indagine analitica, di verifica sperimentale, per una spettacolare ricostruzione che investe i nostri sensi e aggiunge prezioso sapere alla storia di questo territorio.