PATRIZIA GHIGLIONE
Parlo italiano, lavoro, faccio la spesa, mangio italiano. Ho tutto, in italiano. Eppure, a 26 anni, dopo ventitré anni di vita in questo Paese, ho ancora la carta di soggiorno, che mi permette di “soggiornare” qui, illimitatamente. Dice. poi, non lo so. Lì sono le leggi, che magari tra un po’ cambiano e ti obbligano a fare il rinnovo. Che sarebbe come dire di pagare il rinnovo. Perché questi permessi hanno sempre un costo in denaro. L’Italia, insomma, devi potertela permettere . Ma io non voglio perdere quello che mi spetterebbe di diritto: i miei genitori hanno pagato per 21 anni le tasse, al governo italiano, poi ho cominciato a pagare per conto mio. Così l’anno scorso ho fatto la richiesta per ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana. Mi hanno contattata i carabinieri per un colloquio, ho firmato dei fogli: che dicevano che la pratica era in corso. In Prefettura c’è una graduatoria, le domande sono tante. Intanto, devi pagare 200 euro subito, per lo Stato; e forse, dopo 4 o 5 anni, ti risponderanno. Mi rivolgerò ad un avvocato, pagherò anche lui, se necessario. Perché questo è un mio diritto e voglio andare fino in fondo. Senza cittadinanza, se io vado in Marocco, non posso tornare in Italia che per tre mesi, come una turista qualsiasi; io che ho vissuto e speso la mia vita qua.
Sono arrivata a tre anni, insieme ai miei genitori: mio padre è venuto per lavoro. Non è stato facile. Era il 1990, non c’erano ancora tanti marocchini. Eri diverso. E solo. C’era una festa, all’asilo dove andavo, e mia madre per rallegrare un po’ tutti, ci metteva l’hennè alle mani. Io entravo con ‘sto hennè e i bambini avevano paura, non mi davano più la mano per fare girotondo. Spiegaglielo, ai bambini, che non sono cose che sporcano. Io ero un po’ più scuretta, tutti mi guardavano con diffidenza. Ho pochi ricordi di quando ero bambina, ma questo mi è rimasto impresso.
Oltre alle apparenze, sono marocchina in tanti miei modi di fare, anche in tanti miei modi di pensare. I marocchini sono molto generosi, gli italiani sono anche un po’ meno solari. Mi dicono, per esempio, perché sorridi sempre. Io sorrido sempre perché sono così, mi viene naturale. Però credo che sia proprio la nostra cultura. I marocchini anche se magari non hanno nemmeno un euro, loro sorridono sempre. Invece, mi sento italiana nelle regole. L’Italia mi ha dato tanto, in questo senso, mi ha dato le regole. Mi ha dato la consapevolezza che, anche in quanto donna, ho dei diritti, la possibilità di emanciparmi, quindi. Dentro queste regole sociali mi sono allevata, sono cresciuta, diventando come una piccola italiana.
Essere italiani in una famiglia marocchina vuol dire: “papà io esco”, e non voleva. Lui l’uscita la vedeva come il pericolo. Io a 15 anni non ci pensavo proprio, al pericolo; vedevo i miei amici uscire e di certo non volevo stare in casa. Così uscivo di nascosto. A 17 anni ho iniziato a lavorare; veramente, il sabato lavoravo già da quando avevo 15 anni, e facevo la scuola da parrucchiera. Mio padre non aveva voluto iscrivermi a quella scuola. Per lui non era una scuola che mi avrebbe portata ‘in alto’. Diceva “non voglio vederti maltrattare”. In Marocco il lavoro della parrucchiera non è considerato molto seriamente. Lui voleva che diventassi avvocato. Io non avevo testa, invece, di studiare tante teorie. Mi ha iscritta mio fratello, mio padre non voleva firmare i documenti. Così lui lo ha dovuto accettare, non c’erano altre possibilità. Non parliamo molto, io e mio padre. So che è vivo, perché lo vedo tutti i giorni, abitiamo insieme; che sta bene, che è a casa. Il fatto che io sia vissuta qua, secondo dei valori sociali diversi, mi allontana dai miei genitori: ci sono cose di me che non riescono a capire. Quindi vai avanti e fai finta che loro approvino delle cose, anche se non è così. Io penso in un modo e loro pensano in un altro. Li rispetto perché sono i miei genitori, però, nello stesso tempo non voglio che tolgano la vita a me. Mia madre dice “fai quello che ti senti”, poi tenta sempre di darmi consigli; i consigli che vadano bene a lei, però. Non si può dire che non ci sia egoismo, in questo.
È stato faticoso capire cos’era bene, cos’era male. Spesso mi sono lasciata consigliare dall’istinto. Ho imparato ad orientarmi, ad aggiustarmi. Mio padre lavorava sempre, mia madre non sapeva scrivere, non parlava l’italiano, non leggeva e non aveva la patente. Anzi, eravamo noi, quando aveva bisogno di qualche visita medica, ad accompagnarla. A nove, dieci anni. Così, sembra che i ruoli si siano invertiti, che tu sia il genitore e lei la figlia. Sono situazioni che ti responsabilizzano. Un adolescente italiano non può capire il tuo ruolo di interprete, di sostenitore; di solito, qui, si fa il contrario. Qualunque straniero, invece, la considera normale, questa situazione. Mia madre, la vedo, vorrebbe fare, provare, uscire. Ma ha un marito, cinque figli, non avrebbe il tempo materiale per dedicarsi ad altro. Forse per questo cerca di tenerci lì, perché ha paura che l’abbandoniamo, perché si sentirebbe poi persa, senza di noi. Noi siamo l’unico aggancio che ha con il mondo che la circonda. Devi fare tutto con lei: devi accompagnarla a fare la spesa, a farsi un giro, a trovare i parenti. Non saprebbe prendersi un treno, non saprebbe nulla. Questo in Italia. In Marocco parla la sua lingua e lì sa muoversi, sa fare ogni cosa.
Io vado spesso in Marocco, è anche la mia terra. Lo vedo come un posto dove chiunque dovrebbe stare almeno una volta nella vita. Vorrei andarci tutti i week-end, tutte le sere, lavorare qua e poi tornare là. Vai al mare, per esempio, e ci sono spiagge grandissime, puoi scegliere dove fermarti. Magari da quelle parti c’è un gruppo di persone, con cui fai amicizia subito. Qui, in Liguria, trovi tanti lettini appiccicati, uno vicino all’altro, su spiagge affollatissime. Sei lì, quasi braccio contro braccio con chi ti sta a fianco, e siete due estranei per tutto il giorno, ognuno sta per proprio conto. Estranei, che sarebbe come dire stranieri.
Ho incontrato un’Associazione, nella mia città, che promuove lo scambio culturale tra italiani e stranieri. Ero curiosa ma anche diffidente; invece, ho trovato un ambiente disponibile e mi sono lasciata andare. Questa associazione è una strada, un’apertura perfino per persone come mia madre, che lì trovano il modo di esprimersi, di comunicare attraverso quello che sanno fare. La gioia di mia madre quando cucina pranzi marocchini per tante persone, che la salutano, la ringraziano, la apprezzano, la riconoscono, è impagabile. Così come è importante la mia, di gioia, quando mi rendo conto di essere, dentro l’associazione ma anche fuori da essa, un valore, una risorsa oltreché una persona.
Non mi sento né italiana né marocchina, ma un poco di entrambi. Non potrei vivere 365 giorni in Marocco né 365 giorni in Italia, devo stare un po’ qua e un po’ là. Gli odori e i profumi di là, gli odori e i profumi di qua. Due anime ho, alla fine.