Weltanschauung (1993 – 1997)

LORENZO BARBERIS.

Il mio percorso nelle riviste della controcultura monregalese si conclude con l’esame di “Weltanschauung”, ultima continuazione delle esperienze di “Una tazza di the” e “Poesia nella strada”, tra anni ’70 e anni ’80.

Il numero zero della rivista appare a maggio del 1993.

Il numero si apre con questa nota immagine del pubblico di un cinema 3-D degli anni ’50. La foto è di Eyerman, che aveva sviluppato anche un particolare obiettivo per fotografare i test nucleari di Yucca Flat, in Nevada.

La citazione ironica degli anni ’50, cui faranno da controcanto molte altre, si collega forse anche alla diffusione, in quegli anni, del tema della realtà virtuale, o anche ad “Essi Vivono” di Carpenter, dove speciali occhiali schermati consentono di vedere la vera realtà che è celata ai nostri occhi. Il tema centrale è comunque quello delle “Weltanschaaung”, le “larghe vedute dal mondo” di cui la rivista vuole dare conto.

Il primo editoriale spiega la nascita della rivista attorno a un gruppo di appassionati di poesia, che sarà inizialmente preminente, ma aperta a racconti, testi, canzoni, disegni e altri interventi. Al centro, la creatività in ogni sua forma quale mezzo di opposizione a un’era di crisi sociale e culturale, che allora vedeva il suo sorgere dopo il crollo del vecchio mondo nel 1989.

La prima redazione è composta dal grafico Gianni Bava e dal poeta Attilio Ianniello, nucleo storico della controcultura a cui si aggiungono in questo primo numero Francesca Angeleri, Cristiana Astori, Simone Buda, Margherita Pastorini, Carlo Raviola, Giulio Vicinelli. Nel corso degli anni si aggiungeranno molti altri autori, magari per un singolo disegno o una singola poesia, e non è qui possibile riferire di tutti.

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Ma passiamo al corpo della rivista. Una poesia di Simone Buda dedicata a Weltanschaaung illustrata da Giulio Vicinelli, continua l’introduzione alla rivista. “Ha alti muri e forti questa stanza / da non riuscire ad urlare / ma loro non riusciranno a farti tacere”: dice la poesia, che la poesia illustra come una bocca spalancata che grida davanti a una galleria di erotici capezzoli materni, quasi una consapevolezza autoironica del “grido infantile” del tardoadolescente.

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“Rubare alla morte” di Vicinelli è illustrata invece – dallo stesso – con inquietanti immagini cyberpunk quasi alla Giger che contrastano con la poesia – classica, e quasi pavesiana (“ma tornerà la morte / per succhiare via il sorriso”) e, in controcanto con la copertina di Bava, mostra l’afflato vagamente cyberpunk che soffia, schopenauriano, sulle “visioni del mondo”.

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Fantascientifiche anche la poesia e l’illustrazione di Bava: “Aspetto /  le incaute astronavi / che passeggiano / in questo angolo / di universo. / Le assorbo / invisibile e tetro / Buco Nero / dello spazio / inghiotto / speranze e vita / metallo / ed / energia.”.

Ianniello è presente con una lirica recente, “La rotta termina al largo”, de 1993, e una del ’77, quasi un legame con le storiche esperienze precedenti, “Sporco d’amore”, che si apre con una citazione di Bakunin: “la libertà altrui estende la mia all’infinito”.

Nei testi narrativi, troviamo un racconto di Cristiana Astori, che in seguito si affermerà come una delle più importanti voci dell’horror italiano. “L’ultima possibilità” è un racconto cupo onirico, vagamente borgesiano, dove il protagonista condannato a morte ha un’ultima illusione di essere graziato: ma nella sua mente ripercorre l’identico percorso verso il delitto, e si ritrova nuovamente sulla sedia elettrica.

Bava propone invece ai lettori un brano di Vonnegut, da “Mattatoio n.5″, onirica rilettura del bombardamento di Dresda.

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La rubrica musicale è dedicata al Trash Metal, recensisce gli Arkham, gruppo di Lesegno che si ispira a Lovecraft, con testi di horrorifico impegno sociale, come “Shut the war” (di cui si riporta il testo), sull’ultimo sopravvissuto a un conflitto futuribile, e “Temple of the desolation”, dove una divinità ancestrale processa i potenti della terra per la devastazione imposta al pianeta.

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La citazione della Band è certo genuina, ma è anche un modo per omaggiare Lovecraft, nume tutelare già evocato ai tempi di “Poesia nella strada”, riferimento abbastanza ovvio (ma non scontato) nel metal anni ’80/’90, un po’ meno per una rivista letteraria radicata nei ’70. Infatti l’omaggio alla band forse giustificava una, non tre meravigliose immagini di HPL, riprodotte da Bava (da altri autori usati come base): la prima piuttosto convenzionale, la seconda che ci mostra HPL letto tramite una sorta di “schermo televisivo mal sintonizzato” (vedi Gibson, incipit di “Neuromante”), e la terza, la migliore, che riprende e amplia una figurazione già usata in “Poesia sulla strada”, in cui HPL si sovrappone a teste animali e umane mummificate e collegate da cavi a un improbabile computer centrale.

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La grafica della rivista, come detto ad opera di Bava, è decisamente più “pulita” e ordinata degli esperimenti dei ’70, con invenzioni grafiche notevoli che riescono a superare agevolmente i limiti tecnici della pubblicazione xerografica, trasformando il limite in un elemento sperimentale.

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Il numero 1 esce l’anno seguente, nel 1994.

La copertina è una rielaborazione di Bava a partire da una foto di Albert Watson; nell’interno, il lavoro grafico di Bava assembla i testi con illustrazioni fornite da vari membri della rivista, tra cui spiccano, nuovamente, le immagini inquietanti di Giulio Vicinelli.

Continua nell’editoriale l’articolata presa di posizione contro l’omologazione culturale, cui si oppone una “ecosofia”, una ecologia del sapere, volta a preservare le forme di espressione personale sempre più messe in discussione dalla massificazione.

“Un possibile finale” di Massimiliano Rosso conferma il trend apocalittico: “Meteore si spengono / palazzi minati in cariche sussurrate / si vedono i dolori / annegare placidamente”.

Questo primo numero vede un aumento dei testi narrativi, o comunque in prosa. Spicca come al solito “Il pranzo” di Cristiana Astori, con una specie di grande abbuffata horror, un pranzo da cui non ci si può alzare.

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Continuano le illustrazioni inquietanti di Vicinelli, che qui illustra sé stesso con un’immagine conturbante, nel segno del grande classico del tema dell’Occhio; meno potente, forse, della prima dirompente immagine del primo numero. La poesia è al solito carica di un plumbeo senso di morte.

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Bava invece illustra una lirica del 1990 di Ugo Marino mostrando la sua ormai raggiunta maturità grafica, in un perfetto equilibrio di Mondrian e Lichtenstein, in quel colto citazionismo pop degli anni ’50 su cui sembra voler orientare la rivista (bilanciato, ma con armonia, dalle spinte più cyberpunk di Vicinelli).

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Il numero 2, a gennaio 1995, è dedicato principalmente ai racconti o prose artistiche. Nella grafica, più minimal del solito, anche per via del formato ridotto a metà A4, si affiancano in questo numero Bava e Vicinelli.

Tra i testi più riusciti, “Chirurgia telepatica” di Massimiliano Rosso, un interessante horror alla Cronemberg, dove un Esper in grado di sezionare le persone con il pensiero se si sofferma troppo a guardarle finisce per uccidersi pensando a sé stesso.

“Un lavoro pulito” di Cristiana Astori è invece questa volta un classico noir, con i tre complici pronti a eliminarsi a vicenda dopo la riuscita di un colpo, in un’atmosfera alla Scerbanenco.

Prevalgono toni cupi, da rivolta generazionale in un tempo ormai senza ideologie di cui vestirsi, evidente in questi racconti “di genere” (non so se le precedenti riviste li avrebbero accolti), ma anche in testi letterari più tradizionali, come “L’ultima canzone” di Manuele Bergoglio o “E’ la terza volta che mi risveglio vestita” di Francesca Angeleri.

Si notano alcune vicinanze, non necessariamente volute, con l’horror in voga in quegli anni ’90: dopo l’abbuffata dello splatter più puro dei primi ’80, con Stephen King a livello internazionale, e con Dylan Dog a livello italiano (gli anni del mezzo milione di copie vendute), si affermava un orrore incentrato anche sull’inferno della quotidianità. Idea sartriana non nuova in assoluto, ma che andava ottenendo in quegli anni una diffusione maggiormente di massa.

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Il numero, più povero graficamente, si chiude con questa immagine inquietante di Vicinelli, che va ad effigiare una sorta di volto stregonesco.

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Il numero 3, sempre del 1995 (è l’unico anno in cui Weltanschaaung riesce ad avere cadenza semestrale), con copertina di Luca Giordana.

Appaiono altri interessanti testi letterari, più vicini alla “prosa d’arte” che a racconti pienamente sviluppati con una trama, anche per la necessaria brevità della forma-rivista: “From my own special sweet heart” di Francesca Angeleri, scritto in forma di diario (Bava lo impagina come fossero, appunto, pagine strappate di un diario segreto); “Il mazzo” di Luca Giordana, sul vecchio tema delle carte come metafora della vita, sviluppato però con una certa efficacia; anche “Il treno” di Cristiana Astori è, questa volta, assimilabile a una prosa di questo tipo.

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Appaiono per la prima volta anche le poesie di Luca Volpe, dotate di una notevole efficacia nel rendere elementi del quotidiano con guizzi talvolta brillanti di innovazione lessicale  (“Un’ennesima sigaretta prende vita / e solo io so quando il caleidoscopio di tabacco / finirà la sua mortale corsa”) o con immagini efficaci come nella prosa breve “Il tuo bene”: “Oggi un pazzo corre nudo nell’orgia quotidiana della gente, spezzando a metà i cuori con la sua ascia blues, succhiando nel sangue verde veleno e leccandosi con la sua lingua lasciva urla: “E’ per il vostro bene, stupidi! – per quello che significa”.”

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Luca Volpe decora poi le sue poesie con immagini naif, ma non prive di una loro pregnanza, nel senso di un mix pop tra astrazione e underground già identificato da Bava.

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Il numero 4 uscirà nel 1996, sempre nella solita alternanza di testi poetici e narrativi. Spicca come al solito il lavoro grafico di Bava a partire dai disegni di Vicinelli, che sono quello che dà il tono della rivista, lisergica e allucinata, ma con un ottimo rigore compositivo.

La copertina, una scacchiera di ieratici volti dotati di terzo occhio, riprende un tema già apparso in Vicinelli, ma qui elevato a un alto grado di efficacia visiva.

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Il numero è forse il più riuscito graficamente, e vede le immaginifiche fantasie di Vicinelli (lo psichedelico coniglio mannaro) e di Bava (l’uomo dalla testa di mani che si stringono, uscito pari pari da uno dei Dylan Dog più visionari, come Golconda).


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Accanto al costante tema horrorifico-inquietante, e ad esso in fondo collegato, vi è quello della tecnologia pervasiva.

Le poesie di Elena Forni, a p.6 e 7, sono illustrate da decorazioni frattali, computer generated, mentre la poesia di Emanuele Bertoglio a p.9 è illustrata col contorno di una scheda madre elettronica, come quella di un computer.

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Lorenzo Barberis (il sottoscritto) fa la sua unica apparizione sulla rivista illustrando una poesia di Luca Volpe, “Hai mai visto la morte?”, incentrata in verità, come molti suoi scritti del periodo, sul concetto di tempo in relazione allo spazio, concepito come dimensione. Idea in sé non nuova, ma sviluppata con soluzioni spesso brillanti. Un’idea che all’epoca avevo cercato di rendere con un turbinare ciclico di immagini di una ipotetica dimensione alternativa popolata da draghi, dai primordi all’età antica al medioevo ad un futuro solcato di immancabili astronavi.

“Diverse prospettive sui blues della lavandaia” di Andrea Roano è un altro testo interessante per le sperimentazioni nella modalità del racconto, le vicende di una lavandaia, appunto, percepito dal particolare punto di vista di immagini e riflessioni mentre la stessa spinge un carrello. Un blues, nel senso della tristezza, ma anche nel senso di una “canzone classica” che jazzisticamente l’autore deve cercare di variare in modo originale.

Chiude il numero “Musicattura”, la rubrica musicale, tra letteratura e musica, che cattura appunto in questo numero le sonorità di Nick Drake, ad opera di Massimiliano Rosso.

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La rivista si chiude con due immagini efficace, un gatto fallico sullo sfondo di graffiti pseudomusicali, che accompagna la rubrica musicale, e un nudo conturbante in stile picassiano, sezionato nell’impostazione di un manga nipponico (altra suggestione che iniziava a comparire, sullo sfondo).

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L’ultimo numero, il 5, esce nel maggio 1997 e costituisce la conclusione dell’esperienza. In copertina, in mezzo a un decoro alla Keith Haring realizzato da Bava, nel suo stile pittorico d’allora, due pellerossa, o indiani d’America, o nativi americani (a seconda dell’epoca e del grado di politically correct): Quanah Parker – in abiti ormai occidentali – e sua moglie Tonasa, il capo principale dei Comanches, propagatore del culto del Peyote. Con una sottile autoironia, Weltanschauung pare evocare la fine degli indiani d’America nelle tristi riserve yankee per celebrare mestamente la fine degli indiani metropolitani, chiusi anch’essi nelle loro riserve.

“Lupi Mannari” di Pier Marco Testa usa la metafora dei licantropi per una prosa breve sull’orrore della quotidianità, sui giorni tutti uguali, su “Sabato Domani, bello, giovane, speranzoso, gioviale giovanotto giocondo che mira alle alte cariche dirigenziali del Tempo”. Leopardi reloaded, con un plus di acido sarcasmo.

Anche le liriche di Luca Volpe continuano la riflessione nichilistica corale sul non-senso dell’esistere: “i miei pensieri appesi / come grappoli di uva / colmi, rigonfi, vischiosi / non c’è movimento. / Sprigionano intorno a sé / un alone di vita / pronto ad esalare / i suoi vapori dolciastri di morte / in un oziosa giornata di sole”.

“Fine di un venditore clandestino di gamberi” di Massimiliano Rosso ricorda, nel titolo chilometrico alla Wertmuller e nella descrizione dell’oppressione degli ultimi, il racconto sulla lavandaia del numero precedente. Il racconto però evolve verso un surrealismo quasi cyberpunk, col venditore spedito nello spazio su un missile lanciato dalla Yakuza – in collaborazione col governo – per eliminare la sovrapproduzione di rifiuti. Takashi, il protagonista, ha scoperto l’esistenza di tale base segreta e ora viene eliminato, lanciato anche lui nello spazio, “primo rifiuto umano aerospaziale clandestino della storia”.

Si conclude così la stagione di Weltanschauung, ultimo sussulto della controcultura monregalese. Dopo i toni lisergici e combattivi di “Una tazza di the”, dopo il “riflusso” nella poesia di “Poesia sulla strada”, testimoniato anche da una maggiore pulizia grafica, “Weltanschauung” sembra caratterizzarsi, nelle sue rade uscite, per catalizzare la rabbia, gli ideali, le pulsioni della generazione cresciuta nei ’90, in cui iniziano ad affiorare con più forza riferimenti alla cultura pop, all’horror, alla fantascienza, ma anche l’assenza di un quadro credibile in cui inserire la propria ribellione “without a cause”, nella coloratissima eppure grigia Italia agli albori del ventennio berlusconiano. Poi, sparita Weltanschauung, a lungo, il silanzio.

In verità nel 1997, con alcuni dei membri di quella esperienza, ricordo che avevamo provato a creare “Outsiders”, un primo tentativo di rivista online su Fortunecity, scomparso con la caduta di quell’antico sito di hosting sorto proprio nel 1997 e terminato nel 2012, ma l’esperimento si arenò a breve, anche per il confluire di alcuni di quei reduci in nuove realtà come il settimanale cartaceo “Mondovì” (1998-1999) e poi il progetto monregalese dell’Artes (nato nel 1999 e tuttora attivo, sia pure attraverso periodi di latenza).

Fino ovviamente a questo “Margutte”, che di quelle esperienze riprende parte del nucleo storico, creando una lunga – seppur frammentaria – continuità controculturale a Mondovì, di cui abbiamo concluso l’analisi dei predecessori diretti (Una Tazza di Té – Poesia nella strada – Weltanschauung – Margutte), ma di cui continua la ricerca di tracce più remote, in parte indagate nel “Belvedere”.

(Tutte le immagini sono tratte da Weltanschauung)