PATRIZIA GHIGLIONE
Da piccolo, di tutti i film, quelli che mi piacevano di più erano quelli con Bruce Lee, i salti roteanti erano quelli che desideravo. Ho cominciato a fare karate proprio pensando a quelle acrobazie. Che il karate non ti dà, nell’immediato. Così, mentre ero lì che scalpitavo, impaziente, ho incontrato la breakdance e mi sono subito preso questa soddisfazione.
La cosa è cominciata in questo modo. Avevo 15 anni e facevo la 1° superiore, era il 2001. Un mio amico, sul pullman di ritorno da scuola, mi parla di un corso di breakdance, raccomandandomi di farlo. Mi ha convinto, anche se non sapevo bene di cosa si trattasse. Appena è partito il corso, sono partito anch’io, in quarta, e ho deciso: ero nel mio. Così ho lasciato il karate e mi sono dedicato alla breakdance. Della breakdance mi ha colpito la parte acrobatica, riuscire a fare qualcosa che pensavo impossibile. Il fatto che fosse accessibile a me, che ero uno qualunque, mi ha eccitato. L’idea di poter fare cose estreme con il corpo, salti mortali, cose difficili, mi ha conquistato. Quando era bello, andavamo al parco: ai tempi c’era la rampa dello skateboard e ci allenavamo lì. Quando arrivava l’estate, il legno della rampa era rovente, terminato l’allenamento avevamo i calli sanguinanti. Sofferenza. In questo campo sofferenze fisiche ce ne sono. Terminato il corso, abbiamo continuato: eravamo un gruppo, i New Elements, e non ballavamo soltanto. C’erano i writers, i DJing, gli MC’ing e i breakers. Ognuno aveva già un ruolo specifico, la danza era, a volte, solo un pretesto per coltivare il proprio interesse. Ci siamo aperti alla città, pian piano: dalla palestra, siamo entrati nelle cantine, nei garage. Abbiamo esplorato i luoghi, scoperto gli spazi. Le writers erano soprattutto donne, andavano a disegnare i luoghi appartati, nascosti: pareti decadute, muretti diroccati portavano il loro segno.
È un’attività che ti apre a prescindere, che ti porta a comunicare, ad esternare. Prima o poi, lo fai, è inevitabile. Altri si aggregano e tu ti devi confrontare, non puoi sfuggire. Poi, ti libera. Lasciarsi andare al caso, lasciarsi andare alle ondate, lasciarsi trasportare. Ti apri la testa, ti arricchisci, cambi i tuoi punti di vista. Non ti accorgi, mentre cambi, ma poi ti ritrovi cambiato. La sfida è il fulcro, con te stesso e con gli altri, ma non è solo quello. Una volta c’erano le jam, le feste: si faceva il cerchio e si ballava, tutti insieme. L’hiphop può esternare qualsiasi tipo di messaggio, dai più aggressivi a quelli di pace, tipo peace and love, siamo tutti fratelli. Ognuno utilizza questo “mezzo” per dire quello che ha dentro. Se la tua vita ti chiude, l’hiphop diventa rivolta, urlo.
Io avevo voglia di scoprire e di scoprirmi, per me era innanzitutto un conto aperto con me stesso. Col tempo la mia è diventata una specie di dipendenza dalla breakdance. Quando non ballavo per un po’, mi innervosivo facilmente, mi annoiavo, ero più grigio. Si può dire che ho continuato per necessità. È un linguaggio che mi aiuta a sfogare, a ritrovare la serenità e l’equilibrio. A dare il senso alle cose.
Quest’arte, per me, diventerà man mano una disciplina privata, che coltiverò per il piacere di farlo. Mi sono tolto le mie soddisfazioni, finora, e serenamente continuerò ad esercitarla per mio conto, nel modo in cui il fisico mi permetterà: non certo come un superman.
Io sono nato con un temperamento sereno, mi sono agitato dopo. Le provocazioni della vita mi hanno poi messo in guardia, hanno aumentato l’aggressività. Con la breakdance mi sono formato, dominato, direi. Prima di ballare ero in tutt’altro modo. La mia stessa indole è cambiata: ho imparato ad avere più sicurezza nelle mie capacità, a lanciarmi in prima linea. Non mi è mai piaciuto sbilanciarmi e, in questo modo, sono stato costretto a farlo. Perché quando fai vedere quello che sai fare, sei proprio tu. Così, anche nella vita, sei spronato al confronto diretto: e poi stiamo a vedere quello che capita. Occorre provare, per credere e per imparare. Le lezioni che ho imparato non mi sono certo state insegnate, le ho imparate nella pratica, attraverso il fare. Ciò che ti dice l’insegnante o il genitore deriva da una sua esperienza diretta, come tu hai bisogno di un’esperienza diretta, hai bisogno di toccare, di agire, per sapere.
Così è, nella breakdance, ci si arriva da soli e a proprio modo, con i propri ritmi e i propri mezzi.