Dove vanno gli elefanti

Ceramiche di Persea

Ceramiche di Persea

LUCA ESPOSITO

Pensavo, dove vanno gli elefanti? È una domanda stupida, lo so ma non posso non pensarci. Non mi era mai importato prima, o meglio non mi sono mai interessato agli elefanti, in alcun modo. Dicono che sono malato. Dicono tante cose ma ormai, io, non ascolto. E mi chiedo: dove vanno gli elefanti? Sono decine, centinaia, una mandria, ci sono cuccioli, esemplari adulti e i morenti. Sì. Penso sia questo il termine adatto, “morenti”.

Non esistono i vecchi nel mondo animale ma solo dei membri sacrificabili, dei morenti, che ancora non sono morti, ma già sanno di esserlo.

In qualsiasi altra specie potrebbero essere definiti dei martiri, in fondo essi mentre vengono uccisi impegnano il predatore, così che gli altri possano scappare, ma non gli elefanti. Loro già sanno quando sono passati da membro della mandria a morente ed è allora che partono.

Ora io mi chiedo: dove vanno? Non ho nozioni sulle abitudini degli elefanti ma so che si spostano da una pozza d’acqua all’altra ed è sempre così, per tutto il resto della loro vita essi non fanno che seguire la mandria, sapendo, accettando di far sempre lo stesso percorso dall’inizio alla fine. Sapendo e accettando di girare intorno. Poi lasciano tutto ciò che hanno visto per la loro intera vita e iniziano un viaggio con quell’unica compagna che è la consapevolezza di stare per morire.

Io, in tutta la mia vita, non ho fatto altro che seguire la mandria, fare quello che faceva la mandria e tutto questo senza sapere, o accettare, di girarmi intorno.

Adesso ho preso la decisione di affrontare quest’ultimo viaggio da solo, perché anch’io sono diventato l’elemento morente della mia mandria.

Ho scelto di fare come gli elefanti, come un’enorme massa grigia, lentamente, dondolandomi sulle zampe, esco dalla mandria e mi allontano, senza che nessuno di loro se ne accorga.

Ora, come fanno a sapere dove andare gli elefanti? Non hanno mai lasciato la mandria, hanno sempre fatto lo stesso tragitto per tutta la loro vita, come fanno a sapere dove andare? È nel loro inconscio? Nel loro DNA? Se lo sussurrano all’orecchio quando sono cuccioli? Magari in una notte della savana, sotto il riparo di un albero nella stagione delle grandi piogge, per spaventarsi tra loro. E poi una volta avvertita la fine, si ricordano e sebbene più grandi, e più forti, ognuno di loro, solo, gioca a quest’ultima prova di coraggio, avventurandosi in quel posto il cui solo nome da cuccioli li faceva rabbrividire, il cimitero degli elefanti.

Ma io non so dove sia questo luogo, e per quanto mi possa sforzare, non riesco a essere un elefante. Non sono vecchio, sono solo malato. Sto morendo di una malattia di cui non voglio sapere niente, ce l’ho e tanto mi basta. Non voglio sapere altro. Mi dicono forse un anno, forse di più, forse di meno, ma il risultato è sempre lo stesso, alla fine.

In fondo mi dispiace lasciare la mia famiglia, i miei amici, tutta la mandria di gente che ormai mi sono abituato e si è abituata a vedermi, ma è meglio così. Meglio che mi ricordino come l’uomo in salute che è scappato senza dire niente, che fino alla fine ha resistito, che è stato tanto sfortunato. No, niente melodrammi, non fanno che alimentare l’ipocrisia della mandria. Una silenziosa, solitaria dipartita. L’inizio verso una ricerca della fine. Spero mi basti il tempo.

A cena dai miei mi comporto normalmente. Si parla del mio lavoro, del fatto che ho già una certa età, è l’ora d’impegnarmi seriamente in una qualche relazione, magari con quella ragazza della panetteria che tanto piace a mia madre.

Rido, scherzo e come di consuetudine si scatena il solito piccolo futile litigio. Mentre asciugo i piatti mi avvicino e abbraccio mia madre, molto forte, le do un bacio sulla guancia. Si gira, mi guarda e chiede se va tutto bene, le rispondo di sì, avevo solo voglia d’abbracciarla. Con papà è diverso, fuori dalla porta prima di salutarci gli dico che mancherò per un po’, che ho voglia di fare un viaggio, allora scappa in casa e mi da un mazzo di chiavi, le chiavi della casa al mare, dove passavo l’estate con loro e mio fratello maggiore quando ancora ero bambino. Mi dice di andare lì, che è bello lì, è pieno di sole lì, è pieno di belle donne, lì, vai che magari ne incontri una e te ne innamori, lì. Lì, il posto che più accetto come casa. Gli rispondo che magari ci faccio un salto ma che soprattutto avevo voglia di vedere un po’ il mondo. Fa come vuoi, io non ne voglio sapere, mi risponde.

Parto.

Continuo a pensare agli elefanti. Ho viaggiato nei paesi più belli del mondo. Quelli che più mi affascinavano. Quelli di cui m’innamoravo ogni volta che vedevo un film o ne osservavo una fotografia. Ho visto tutto quello che desideravo vedere, ho cercato nei posti più isolati, più romantici, più sereni ma nessuno era quello giusto.

Ogni volta il mio desiderio, la mia curiosità, mi spingevano più in là, alla ricerca di una sensazione di cui potevo intuire, forse, solo un accenno del suo colore, del suo suono, del suo profumo.

Non ho tempo. Non sapere quanto mi sembra l’unica cosa rimasta com’era. Sono passati ormai otto mesi da quando sono partito e ora sono alla ricerca di una mandria di elefanti. Non è facile come sembra, io non cerco una mandria di una riserva. Cerco una mandria ancora allo stato brado. Una volta trovata aspetterò che uno di loro si stacchi dal gruppo e lo seguirò, per scoprire dove vanno gli elefanti e per la prima volta, un elefante non sarà solo nel suo viaggio e neppure io.

Il problema è trovare qualcuno disposto a portarmi dove i grandi elefanti sono ancora liberi. Sono posti selvaggi e pericolosi, in cui spesso vanno a caccia bracconieri, oltre ai predatori animali. Dopo quasi due mesi trovo finalmente l’occasione che cercavo. Una troupe deve fare un documentario in una zona in cui recentemente c’è stato un avvistamento di elefanti. Mi aggrego a loro.

Non è stato facile trovarli, gli elefanti, ma ora sono lì. Le loro ombre si uniscono al sole della savana in una sola grande, gigantesca, macchia nera e ovunque passi la terra trema sotto il suo peso. Inizio ad aspettare ma la mandria continua a marciare incessante e nessun membro sembra intenzionato ad abbandonare gli altri.

È passato più di un mese e ammetto che inizio a perdere le speranze. Secondo i dottori io, oggi, dovrei già essere in fin di vita ma credo di aver fatto un patto con il mio corpo: non cederà finché non avrò trovato ciò che cerco, finché non avrò una risposta alla mia domanda.

Ormai sta calando la notte e la mandria è in procinto di fermarsi. Ma ecco uno di loro continuare a marciare, dondolandosi sulle zampe si allontana, lentamente, nel buio della savana. Capisco che è giunto il momento che aspettavo e senza esitazione lo seguo a distanza, abbandonando dietro di me la troupe ignara della mia intenzione.

Camminiamo insieme, ormai, quasi fianco a fianco. Entrambi consci della presenza dell’altro e del nostro fine comune. Continuo a seguire il mio compagno, è quasi l’alba. Ed ecco, a un tratto si ferma. Lentamente si volta verso di me. Ora, siamo occhi negli occhi. I suoi sono stanchi, spenti e pieni di lacrime. I miei, sono solo occhi e capisco che non posso seguirlo oltre. Continuiamo a guardarci e così come prima si voltò verso di me, ora, lentamente inizia a darmi le spalle e a percorrere la sua ultima discesa fino a scomparire in mezzo ai fiori che ricoprono la pianura sottostante. Scompare alla mia vista sotto dei semplici fiori rossi, e io immobile non vedo più il mio compagno.

Ora, le forze mi mancano. Ma continuo a fissare la distesa di fiori davanti a me. Sono bellissimi. Sento il mio corpo abbandonarsi. Sento la fine. Il mio piede avanza incerto a fare il primo passo verso la discesa. Ma ecco un vento caldo s’alza e le foglie dei fiori si rivoltano, una dopo l’altra, come se una mano invisibile le girasse una a una. Sembra che danzino.

I boccioli s’aprono, facendo cadere sulle foglie lacrime di rugiada che colpite dalla luce del sole nascente diventano perle intrise di luce. Il cimitero degli elefanti dà luogo a una danza, dove gli elementi della terra si ritrovano a ballare insieme, in un trionfo di luce. Le foglie dei fiori mosse dal vento sembrano d’argento quando, ecco, il vento mi porta il profumo dei petali.

Dove vanno gli elefanti?  Qui.

Dove vi è solo incanto e io, al cospetto di ciò, non posso e non riesco a morire poiché altro desiderio questo posto non incarna se non vivere. E mi chiedo: dove andrò io?

Ho girato il mondo e non sono riuscito a trovare un posto dove vivere e in cui morire. Ho visto e sentito quanto desideravo. Ora, ho la barba lunga e ispida ed i capelli mi superano le spalle, come li volevo da ragazzo, come non li voleva papà che me li faceva sempre tagliare. Papà.

Davanti alla porta di quella che una volta era casa mia, c’è una vecchia lettera, ha la data di pochi giorni dopo la mia ultima visita medica, in cui mi fanno le loro più sentite scuse. Ci fu un problema in archivio. La lastra sbagliata. Gli dispiaceva tanto. Solo che io, quella lettera, non la leggerò mai. Perché io sono già morto.

La casa al mare è proprio come la ricordavo. Il cancello di ferro battuto cigola mentre lo apro e il muretto a secco è ancora da finire. Passeggio per il cortile. Mai pensavo che avrei rivisto questa casa, è qui che ho i miei più cari ricordi di bambino. C’era un albero sotto a cui giocavo sempre. Un anno ci costruii una capanna e con mio fratello ci giocammo tutta l’estate. Una notte provammo anche a dormirci dentro, ma faceva troppo freddo e poi non c’era la tv. Inizio a cercarlo come quando ero bambino, appena arrivati, scendevo dalla macchina e quello era il primo posto in cui andavo. Eccolo, appena fuori il cortile. Lo tocco, alzo la testa e vedo la luce giocare con le foglie dell’albero, come i raggi del sole nelle vacanze. S’alza il vento e sfruscia tra i rami e sento mio fratello sussurrarmi all’orecchio, mi rassicura per i tuoni. Sento il profumo della brezza marina. Abbandonandomi con la schiena contro il tronco mi addormento e già so che non mi sveglierò.

Dove vanno gli elefanti? Ora, lo so. Non vanno da nessuna parte. Restano a casa. Si allontanano, quanto basta, per non interrompere il ritmo della mandria.

“Noi non cesseremo l’esplorazione.
E la fine di tutto il nostro esplorare
sarà giungere laddove noi siamo partiti
e conoscere quel posto per la prima volta.”
Thomas S. Eliot

(Nell’immagine alcune sculture della ceramista Persea)