PATRIZIA GHIGLIONE
Ho vent’anni. Sono italo-marocchino, sono venuto in Italia quando avevo tre anni. Sono cresciuto qua. Della mia vita marocchina, ricordo abbastanza poco. Ho questi ricordi pallidi di quando abitavo a casa di mio nonno, a Casablanca. Quindi la città, la metropoli. In Italia, sono arrivato direttamente nel paesino dove abito ancora. Mi piace stare lì, mi piace sempre. Dalla grande città nord-africana alla campagna piemontese, sono passato; molto più libero di uscire, di andare in giro. Sono arrivato in agosto e a settembre ero già all’asilo, con i bambini della mia leva. Sono entrato abbastanza facilmente, nei primi anni di infanzia ho imparato la lingua, all’asilo e in televisione. I cartoni animati italiani mi hanno insegnato. Non mi sono più mosso da quel paese finché non è stata l’ora di cominciare le superiori. Ho fatto l’Itis, mi sono diplomato perito meccanico due anni fa. Ho scelto l’Itis in terza media facendomi il mio piccolo pensiero di 14enne; per me da giovane la logica era frequentare una scuola che mi desse uno sbocco lavorativo. Infatti, poi ho subito trovato lavoro, faccio l’operaio interinale, un mestiere un po’ precario.
Adesso mi pentirei di quella scelta, oggi come oggi darei la priorità ad altre cose, il lavoro sì, ti da sicurezza ma, a livello di qualità della vita…io non vado mica pazzo, per la meccanica. La qualità della vita è un’altra cosa, non è solo quello che ti dà da mangiare. O da comprare. Posso permettermelo, di pensare questo della vita, perché non sono disperato. Qualità della vita, per me, per esempio, è vivere la strada, la piazza. La strada è una metafora, parla di gente che vive una vita irregolare, disorientata. Ci sono persone che appartengono alla strada nel senso che la vivono tutti i giorni, la abitano. Gente che si è ritrovata lì e ha finito per considerare naturale la sua situazione. Sono quelle che mi stanno più a cuore, in cui meglio mi riconosco. Al mio paese, tra noi ragazzi, c’è una bella comunità: ragazzi indiani, ragazzi albanesi. Ci sono molti amici italiani che vengono magari dal sud. E noi ci siamo fatti questa idea della Panchina. Quest’idea della famosa panchina. Da diversi anni, c’è una panchina in un giardinetto e noi ci troviamo sempre lì. Senza neanche dircelo, ad una certa ora, ci ritroviamo alla panchina. Stai lì, fai due parole, ti fumi una sigaretta, ascolti la musica al cellulare. La panchina è diventata una parte fondamentale della nostra vita. È lì, neanche distante dalle nostre case, a disposizione; mi è sempre piaciuta, questa faccenda.
Mi piace anche la parola, per la verità. In un certo senso sono perfino un po’ autore, scrivo testi rap. Questo genere musicale nato nei sobborghi metropolitani statunitensi, questa voglia di far sentire la propria voce da parte delle fasce sociali più povere del Nord-America. Io mi sono subito appassionato, mi sono sentito appartenente ad una fascia debole della nostra società. È capitato così. Avevo 13 anni e un amico mi ha fatto ascoltare una volta, così, per scherzo, del rap napoletano. Ad un certo punto, diceva delle parole che facevano un po’ ridere. Il napoletano è sempre così, ti fa venire il sorriso quando lo senti. Mi piaceva tanto. Allora, ho cominciato ad ascoltare meglio. E poi mi sono messo a cercare le origini di questo ritmo. E tutto quello che venivo a sapere, che sentivo, mi piaceva proprio. Il rap. Io lo considero la voce dal basso, perché è nato da persone che si trovavano in strada e che parlavano a ritmo di musica.
Il fatto è che su qualsiasi base musicale, tu puoi fare rap. lo puoi anche fare con la voce soltanto, non hai bisogno di strumentazione.
Lo puoi fare in qualsiasi posto, in qualunque momento.
Il ritmo è minimo, quello di due dita su una scatola, o su una lattina.
Anche questo, il fatto di poter fare musica senza dover spendere un soldo, senza dover andare in uno spazio preciso, senza essere legato o condizionato.
Senza essere ricco, senza spendere soldi, tu puoi fare rap.
Su una panchina, tu puoi fare la tua musica.
E mi è capitato così.
Dopo che lo ascoltavo, senza nemmeno accorgermi, ho cominciato a cantare le mie parole, non più quelle che ascoltavo. Questo fare ha un nome preciso, si chiama free style, che sarebbe la base del rap. Cantare improvvisando, con le parole che ti vengono sul momento. Ora ogni tanto ne trascrivo qualcuno, di questi testi, li fermo sulla carta. Sono passato dall’orale allo scritto, quando sento che merita, fermo la parola. Definisco i suoi dettagli. Fare rap, per me, è qualità della vita. Mi piace per il fatto che ti permette di mettere una gran quantità di parole, ti permette di dire senza risparmiare. E’ stato un canto di protesta, una denuncia di soprusi. Denunciavano i ghetti. I ghetti sono sempre ghetti. Così, quando parlo e canto insieme, io racconto il disagio, il mio e quello che sento intorno, nella comunità. Uno cerca di attirare l’attenzione, su delle questioni, magari sempre le solite. Ma se sei abbastanza bravo, riesci a lasciare un segno su chi ti ascolta. Ed è un successo.