FREYA STARK
(Da Views from Abroad, Paladin Books 1989, raccolta di articoli di viaggio apparsi sulla rivista britannica The Spectator dal 1950 al 1987)
(vedi anche “Errare Humanum Est” di Attilio Ianniello, qui)
Si pensa che il viaggiatore che preferisce i luoghi solitari, il viaggiatore del deserto per esempio, sia una persona che vuole sfuggire al suo mondo e ai suoi pari. I suoi vagabondaggi hanno, per concezione popolare, un tocco di misantropia. A lui non interessano le piccole cose di ogni giorno; le relazioni umane, fragile castello di carte costruito con tanta fatica, tanta pazienza e perseveranza in millenni di civiltà, che resiste minacciato da ogni cataclisma per il semplice fatto che ogni carta si appoggia sulle altre, struttura definita e infinita, dovrebbero essere l’oggetto della sua avversione, l’ambiente dal quale si discosta.
Vorrei fornire un’interpretazione molto meno negativa del desiderio che conduce gli uomini nel deserto. I vari Lord Byron di questo mondo,
“stanchi della casa, della moglie, dei figli stanchi
lo spirito irrequieto conduce a vagare lontano,”
sono il più delle volte spiriti contraffatti. Ho il sospetto che lo stesso Lord Byron avrebbe con ogni probabilità trascorso l’età matura tra le mura domestiche se la parca non avesse tagliato il filo così presto. Le persone insoddisfatte sono le meno capaci di vivere a lungo con se stesse, e lo stimolo che le ha condotte in luoghi selvaggi le pungolerà prima o poi di nuovo verso casa.
Il vero girovago, per cui viaggiare è felicità, parte non per rifuggire ma per ricercare. Come il pittore davanti al cavalletto, egli si sposta di continuo per avere la prospettiva giusta, e anche se ha di fronte un bel po’ di paesaggio da rendere lontano l’orizzonte sente di essere ancora troppo vicino al suo quadro e deve allontanarsi di tanto in tanto per guardarlo con occhio distaccato. Questa necessità lo tiene sempre all’erta. Egli tocca e ritocca i colori del suo mondo per come li vede, e si allontana da essi per ottenere proporzioni più accurate per poi tornare con la vista più acuta e riposata.
È certo assurdo pensare che andando in luoghi deserti si scappi dal mondo; quel che succede è che si arriva soltanto in un mondo più semplice, a cui si è meno legati. La stessa figura umana diventa immensa e maestosa se vista, solitaria, dentro a un paesaggio che ha poco di umano, in cui non ci sono campi né muri né confini né pietre miliari, in cui pali del telegrafo e strade innaturalmente diritte fanno sembrare meno importante un singolo essere umano, perché l’umanità appare come un insieme, un tutto. I ruderi si intonano al deserto per questa ragione: interrompono in modo visibile la continuità umana e le rare figure che si possono incontrare appaiono doppiamente isolate, nel tempo e nello spazio. Anche senza ruderi o deserto, il mare o la montagna possono creare la stessa impressione di dignità e prodezza, intorno alla barca del pescatore a sghembo nel solco delle onde oppure intorno al pastore col suo gregge, solo sul limitare del pascolo dove le rocce scendono a precipizio. L’essere umano appare qui in tutta la sua piccolezza e debolezza, eppure ti induce a sentimenti di esaltazione euforica: il personaggio fragile e solitario è padrone del suo orizzonte immenso, e se tu stesso condividi la sua vita di solitudine e privazioni senti di avere anche tu una parte nell’esaltazione che vedi.
Questa sincera sensazione presenta l’umanità per ciò che è, nell’antichità e nella grandezza della terra. Vale la pena intraprendere un viaggio lungo e difficile per arrivare a tale sensazione, in quanto raramente la si può trovare nelle città o nei luoghi comodi[1], dove gli uomini prevaricano quotidianamente gli uni sugli altri ed è raro accorgersi di vittorie più ampie. Perché ogni trionfo di un uomo su un altro uomo ha di per sé un gusto di sconfitta, un sapore di morte. Non ci sono differenze sostanziali tra i vari gruppi umani, tra creature le cui ossa, il cui cervello e la cui carne sono costituiti dalla stessa materia; ogni ferita che ci infliggiamo è una forma di mutilazione, come se le dita della mano sinistra venissero amputate dalla destra. Non c’è in questo nessun piacere, nessun senso di conquista né pace.
Amiamo la campagna, e ancor di più i luoghi relativamente deserti, perché là possiamo gustare con meno distrazioni il progresso e il trionfo dell’uomo. Non credo che l’uomo di campagna sia particolarmente nobile e neppure penso che la simpatia di noi viaggiatori in Arabia verso i rudi beduini risulti da una marcata superiorità di questi nei confronti degli altri uomini. La loro violenza, i crimini che commettono contro quelli della loro razza, quindi contro se stessi, sono semmai più gravi di quanto la nostra civiltà accetti. Eppure siamo felici perché possiamo vedere, oltre quei crimini, uno sfondo di conquiste enormi: la primitività della terra che è stata sconfitta. La cortesia dell’Arabo del deserto che riceve lo straniero davanti alla sua misera tenda non è necessariamente più grande di quella del diplomatico davanti allo scalone d’onore, ma la differenza sta nel paesaggio intorno al beduino, nell’oscurità delle colline circostanti, nella durezza di pietra dei sentieri, nella scarsezza di cibo e acqua. Persino la più piccola briciola di grazia e virtù è un trionfo quando intorno c’è tutto il buio della terra e del tempo. Accettiamo allora i crimini commessi in quelle lande di tradimenti e omicidi perché vediamo vittorie ben più grandi, estorte dall’intera umanità alle “inevitabili grinfie delle circostanze”[2].
Credo che questa sia l’oscura ragione che ha attratto nella solitudine del deserto non solo esploratori, ma anche eremiti, santi e filosofi. Non è che questi vogliano lasciare a tutti i costi le strade battute dagli altri uomini, ma cercano quelle meno frequentate, quelle in cui possono trovare conforto, liberi da intralci, nella certezza che il cammino è in salita e non in discesa. Non è impossibile avere conferma di questo anche in altre situazioni, ma ci vogliono più perspicacia e più fantasia, ed anche una mente meno sensibile all’ambiente circostante in modo che possa tenere in vista la verità essenziali in mezzo a tutte le contraddizioni dell’uomo e del suo tempo. Socrate amava frequentare la piazza del mercato e riusciva a non farsi distrarre dai luoghi affollati, ma forse non è un esempio valido in quanto la luce chiara dell’Attica è preferibile persino ai giorni nostri alla maggior parte dei deserti. Anche l’artista, a patto che ci si metta d’impegno, può seguire la sua visione anche in mezzo alla folla e rallegrarsi continuamente della vittoria dello spirito umano, alla quale ha la gioia di prendere parte attiva. Si può dire lo stesso dello scienziato che persegue la conoscenza fine a se stessa. Ma per molti artisti e scienziati, e per gente di calibro inferiore, è importante allontanarsi per un po’ di tempo dall’ambiente solito e andare dove il disegno dell’essere umano è tracciato con linee meno complicate, dove lo sfondo e la direzione possano essere visibili oltre il groviglio delle sofferenze che infliggiamo a noi stessi.
Spesso ho notato che gli occhi dei marinai e degli abitanti delle colline sono liberi e sereni. Anche i contadini quando camminano nei campi, le donne che si circondano d’amore nelle loro case e non pensano sia importante ciò che si trova fuori dalla porta, i vecchi soddisfatti della fine del loro viaggio, i falegnami e tutti gli artigiani felici del loro lavoro, gli uomini e le donne che hanno trovato la loro vocazione, tutti questi vivono nella stessa atmosfera di sicurezza e di pace. Ho notato inoltre che il loro impegno gli evita di far del male consciamente ai loro simili con rivalità, avidità, vanità o invidia. Non soltanto sono liberi da tali impulsi, ma sono talmente felici nella loro condizione che non vedono i conflitti intorno, per via sia della solitudine in cui vivono sia dell’interesse in quel che fanno. Perché c’è da sperare, c’è da credere, che lo sguardo preoccupato sui volti dei cittadini sia dovuto soprattutto al fatto che sono costantemente testimoni più che artefici del dolore, anche se entrambe le posizioni devono essere presenti in un’esistenza basata sulla competizione. Coloro che sono felicemente liberi da questa afflizione non hanno bisogno di viaggiare, possono sedersi con tranquillità e continuare ad essere filosofi in casa loro.
Per gli altri, ed io sono tra quelli, la strada è aperta e conduce ad un reale e felice panorama delle nostre vite. Eviteremo il turismo e le code ai treni e in automobile, dove le tendenze umane al suicidio sono visibili quanto in una strada di banchieri. Ci limiteremo a due tipi di paesaggio, ognuno dei quali, con mezzi diversi, può darci ciò di cui abbiamo bisogno. Possiamo andare in un luogo tranquillo, non sovraffollato, dove ci siano sufficienti opportunità naturali per appagarci, sufficiente tempo libero per la bellezza, povertà per la gentilezza e lavoro per la salute. Per esempio un luogo di montagna come le Dolomiti, in cui i raccolti bastano a sfamare gli abitanti, dove le famiglie si spostano in estate per tagliare il fieno e vivono nelle baite lassù in mezzo ai pascoli assolati. Qui non c’è bisogno di cercare a lungo per trovare un uomo che abbia lo sguardo soddisfatto; uno sguardo chiaro come i ruscelli di montagna lo si incontra in quasi tutti i passanti. E questo è il conforto umano delle colline.
Oppure possiamo andare nel deserto dove non c’è la consolazione di una serenità umana, ma dove la grandezza della Natura sia lampante e la realtà dei suoi ostacoli visibile, in cui la piccolezza dei nostri traguardi non abbia più importanza. Le tribù feroci possono farsi a pezzi: questo è solo un incidente nel colossale trionfo dell’uomo, raggiunto con quel briciolo di ordine, urbanità e bontà che è riuscito a mettere insieme. E ci confortiamo perché sappiamo in cuor nostro che lo sfondo della città è lo stesso di quello del deserto, che il rumore delle nostre automobili non è molto più forte di quello delle urla di battaglia ed è altrettanto transitorio, nella veduta prospettica più ampia del tempo e dello spazio.
Freya Stark, 25 marzo 1950. Traduzione di Silvia Pio
Freya Stark è stata considerata “l’ultimo dei viaggiatori romantici” (The Times).
Di nazionalità britannica ma nata a Parigi nel 1893, passò i suoi primi anni tra Francia e Italia. Iniziò a viaggiare nel 1927 visitando luoghi inesplorati e pericolosi in Iran, Turchia, Afghanistan e nella Penisola Arabica. Era spesso il primo viaggiatore di sesso femminile che si fosse visto in quelle zone e ancor più spesso il primo occidentale.
Vestiva in abiti del luogo, ne imparava la lingua e attraversava i deserti a dorso di cammello.
Passò gli ultimi anni nella sua casa di Asolo, nel Trevigiano, dove concluse il viaggio della sua vita durato un secolo. Ha scritto numerosi libri a proposito delle sue esperienze, spesso corredati dalle sue fotografie. Non tutti sono tradotti in italiano.
Questa è una traduzione inedita di Silvia Pio.
1 A chi traduce viene in mente L’sola lacustre di Innisfree di W.B. Yeats.
2 Citazione da W.E. Henley (1849 – 1903) in Invictus:
“Nelle inevitabili grinfie delle circostanze
non mi sono spaventato né ho urlato
Sotto i colpi della sorte
il mio capo sanguina, ma non si piega”.
Immagine di copertina: Freya Stark