STEFANO CASARINO
Quindici anni fa, il 1° gennaio 1999 entrava in vigore l’euro, valuta unica dell’Unione Europea, attualmente adottata da diciotto dei ventotto Paesi che la compongono.
L’Unione Europea, a sua volta, così com’è attualmente, nacque dal famoso Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992: è dunque non di molto più “vecchia” dell’euro, di anni ne ha ventidue.
Con uno sguardo più panoramico, possiamo però far risalire il suo inizio al Trattato di Roma del 25 marzo 1957, ed allora gli anni sono cinquantasette.
15, 22, 57 anni: dal punto di vista della durata storica, un’inezia!
Perché si radichino e fruttifichino dei veri, sostanziali mutamenti ci vuole (c’è sempre voluto!) di più.
Il tempo dei popoli e delle civiltà non è quello biologico dell’esistenza umana: sarebbe bene non dimenticarlo!
Detto questo, è comunque doveroso chiederci oggi se noi siamo e ci sentiamo europei. O se almeno abbiamo cominciato a farlo!
Jean Monnet, uno dei grandi Padri fondatori della nuova Europa – come lo definisce Franco Chittolina nel suo bel libro Un’Europa per giovani – affermò decisamente:
«Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone».
Credo che onestamente si debba riconoscere che finora ci si è limitati ad unire – e nemmeno troppo bene, come purtroppo possiamo quotidianamente constatare – le economie.
Manca una politica estera davvero comune, manca soprattutto la realizzazione convinta e completa di quest’unione di persone, che non può prescindere –come purtroppo invece, secondo me, sinora ha fatto! – dalla cultura.
Che è, anzitutto, consapevolezza di se stessi.
E tale consapevolezza passa, non può non passare attraverso le parole.
Quanti sanno, ad esempio, cosa voglia dire Europa, da dove derivi questo nome?
Onestamente, di sicuro non sappiamo nulla.
Sono state avanzate tre ipotesi: la prima, che derivi dal semitico ereb e voglia dire semplicemente Occidente; la seconda, che derivi dal greco, euroé, cioè “la ben irrigata”, con riferimento all’abbondanza di corsi d’acqua e al regime regolare delle precipitazioni, cioè al suo clima tutto sommato fortunato – almeno sino ad oggi!
E infine la terza, quella sulla quale vale la pena soffermarsi di più: sempre dal greco, ma da eurùs e ops, cioè “dalla larga faccia” o, meglio, “dai grandi occhi, dall’ampio sguardo”, con riferimento alla bella fanciulla eponima (cioè, che ha dato il nome al nostro Continente), la principessa Europa.
Figlia del re dei Fenici (coloro che hanno “inventato” la scrittura fonetica, l’alfabeto), costei viene rapita addirittura da Zeus, che si trasforma in un magnifico toro bianco.
Europa lo vede, non ne ha affatto paura, gli sale in groppa e viene portata a Creta, dove darà a Zeus un figlio, Minosse, il primo re-giudice della cultura europea.
Come sa chi ha dimestichezza con questi studi, ma come è bene dire anche a chi ne è digiuno, il mito non è mai soltanto una favoletta, ma una diversa forma di conoscenza, un altro modo per dare informazioni e concettualità essenziali: tra le tante qui contenute, mi limito a segnalarne due.
Dalla Fenicia, terra della scrittura, a Creta, isola in cui il re amministra direttamente la giustizia: non sono semplici indicazioni geografiche, ma sottolineano una precisa linea culturale, la parola che da orale diventa scritta e si fa sentenza, decisione pubblica.
Questo è insito nel DNA della cultura europea e la contraddistingue rispetto alle altre.
Secondo, e non trascurabile, elemento: la giovane Europa non ha paura del diverso (il toro bianco: en passant, il toro è un animale totemico, presente un po’ ovunque, fino a diventare persino una costellazione zodiacale), gli si accosta tranquillamente: è una storia di un “ratto gentile”.
La storia di Europa inizia con una carezza fatta ad un animale sacro: non c’è violenza – come percepisce chi legge il bellissimo racconto che ne fa Ovidio nelle sue Metamorfosi – ma curiosità, voglia di incontrare l’altro, senza timore.
Dal primo aspetto discende tutta la celebrazione dell’Europa come terra della legge e della democrazia, con convinti teorizzatori, primo fra tutti Erodoto, che la contrappone all’Oriente dispotico, teocratico ed intollerante: quanto questa contrapposizione, mutatis mutandis, è stata ed è ancora oggi impiegata, con ottime ma anche con pessime ragioni!
Dal secondo deriva, forse, – epperò ci sono voluti tanti, troppi secoli di guerre e di contrasti feroci, culminati nelle immani tragedie dei due conflitti mondiali del Novecento – addirittura il conferimento del Premio Nobel per la Pace all’Unione Europea soltanto due anni fa (e forse già ce ne siamo dimenticati!).
Per tale occasione, Guido Rossi scrisse su Il Sole 24 ore del 14.10.2012 un bell’articolo, da cui estraggo:
«Il premio Nobel per la pace 2012 all’Unione europea è soprattutto il riconoscimento a un’Europa non ancora sovrana, ma che dopo tre guerre in 70 anni, con epicentri in Germania e Francia, a partire dal 1945 è passata dalla storia delle passioni e degli atti tragici a una convivenza post-storica, sostituendo alle tragedie barbare della guerra una sorta di negoziato necessario alla coesistenza. All’epopea dei militari è subentrata quella, altrettanto pericolosa, dei mercati della speculazione finanziaria.[…] Cacciato Marte (Ares), il dio della guerra, l’Europa sembra invece oggi caduta nel dominio di Mercurio (Hermes), il dio del commercio, delle comunicazioni, «predone, ladro di buoi e ispiratore di sogni», come lo descrive l’Inno Omerico a Hermes».
Anche qui, come si vede, la cultura offre efficaci paradigmi interpretativi.
Finito il tempo di Ares (le guerre combattute sul campo di battaglia), siamo ora in quello di Ermes, quello delle “guerre” combattute sui mercati finanziari, che lasciano sul terreno non cadaveri, ma disoccupati, non macerie di case, ma fallimenti di imprese.
II
La cultura è fatta di simboli, vive di essi, non ne può fare a meno, come perfettamente comprese Carl Gustav Jung.
L’Europa ne ha molti: prima di esplorarli rapidamente, però, anche qui deve intervenire in aiuto l’etimologia.
Cosa significa simbolo?
Ricorriamo necessariamente sempre al greco – e dovrebbe far riflettere, allora, quanto sia causa di spaventoso impoverimento culturale l’eliminazione o comunque l’estrema riduzione dello studio di tale lingua nella nostra scuola –: simbolo è “ciò che mette assieme”.
In origine era una sorta di “tessera di riconoscimento”, un pezzo di terracotta spezzato in due parti, ciascuna delle quali di proprietà di una persona: quando le due parti venivano unite e combaciavano perfettamente, si riconosceva “l’ospite” o l’alleato: e quindi simbolo significa anche “patto, accordo”.
Chi condivide i simboli, insomma, è un amico, un alleato!
E noi Europei di simboli ne condividiamo davvero parecchi.
A cominciare dall’Inno, adottato nel 1972 dal Consiglio d’Europa: di anni, allora, – per continuare il giochetto iniziale – ne avrebbe quarantadue; in realtà è molto più vecchio, risale al 1824 come musica (lo straordinario Finale della Sinfonia n. 9 di Ludwig van Beethoven) e al 1785 come testo (l’ode Alla gioia di Friedrich Schiller).
Fu proposto da un altro grande tedesco, il sommo direttore d’orchestra Herbert von Karajan, e tale parere prevalse su più di duemila nuove partiture presentate per il concorso appositamente bandito per avere un inno assolutamente originale. Si scelse – a parer mio giustamente – di annullare addirittura il concorso e di far tesoro di quello che già si aveva, del lascito di due geni assoluti, come Schiller e Beethoven.
Non c’è, non ci può essere innovazione senza il rispetto e lo sfruttamento del meglio della nostra tradizione.
Chissà cosa penserebbe oggi Karajan delle scriteriate affermazioni di chi ha tuonato contro questo Inno, rinfacciandogli la colpa di essere piaciuto (anche!) a tiranni e dittatori?
Chissà se tale odierno arruffapopolo ha mai letto, sentito e compreso le affermazioni– “tutti gli uomini sono fratelli”; “abbracciatevi, moltitudini” – lì contenute?!
Certamente, esse devono ancora essere realizzate, nella nostra oggi così dimessa Unione Europea.
Altro simbolo importante, ma sul quale poco si riflette: la bandiera europea.
La esponiamo in molti luoghi, ci capita di vederla spesso. Ma sappiamo cosa rappresenta?
È un semplice rettangolo azzurro con dodici stelle disposte in cerchio: perché? Per capire, dobbiamo andare a leggere la motivazione con la quale fu adottata – dopo una lunga serie di vicende che non è qui il caso di ripercorrere – dal Consiglio d’Europa nel 1955:
«Sullo sfondo blu del cielo del Mondo occidentale, le stelle rappresentano i popoli dell’Europa in un cerchio, simbolo di unità… proprio come i dodici segni dello zodiaco rappresentano l’intero universo, le dodici stelle d’oro rappresentano tutti i popoli d’Europa – compresi quelli che non possono ancora partecipare alla costruzione dell’Europa nell’unità e nella pace».
Sono indicati tutti gli elementi distintivi: il colore blu scuro è quello del cielo del tramonto, dell’Occidente – torna qui la contrapposizione con l’Oriente, che avrebbe il celeste o l’azzurro dell’alba, del Levante.
Il cerchio è, da Aristotele e Dante in poi, simbolo di perfezione e di unità.
Ma più importante è la spiegazione del numero dodici, altrimenti incomprensibile: dodici come le stelle dello Zodiaco – non i dodici Apostoli, o altri riferimenti alla sacralità di un multiplo di tre.
Un simbolo vecchissimo, precristiano ed universale, in cui tutti possono riconoscersi: non sarà fuor di luogo rammentare il Toro che rapisce Europa! Soprattutto, però, un simbolo “aperto”, nonostante l’apparente chiusura del cerchio: come viene scritto, rappresenta (dovrebbe rappresentare) anche i popoli che non facevano allora (nel 1955) parte della Comunità.
Come simbolo, condividiamo anche il motto latino: in varietate concordia.
Questo è già il vero programma che l’Europa dovrebbe attuare: «nel rispetto delle diversità l’assoluta condivisione di valori», traducendo in modo più libero e più completo.
Se davvero avesse valore, ciascuno di noi dovrebbe sentirsi – senza soluzione di continuità – Monregalese (o di qualsiasi altro paese o cittadina), Piemontese (o di qualsiasi altra regione), Italiano (o di qualsiasi altro Paese europeo) ed Europeo.
III
E dai simboli passiamo ai denominatori comuni, agli elementi forti, costitutivi dell’identità culturale del nostro Vecchio Continente. Li ha esplorati, con magistrale efficacia e semplicità, George Steiner, in un suo libretto di una decina d’anni fa, Una certa idea d’Europa.
Secondo questo straordinario intellettuale – che incarna in sé il tipo del perfetto europeo: trilingue dalla nascita (inglese, francese, tedesco), con ottima conoscenza anche dell’italiano, docente di letteratura comparata in molte Università europee, autore di saggi tradotti in molte lingue e premiato in tutta Europa, connotato inconfondibile dell’Europa sono i suoi caffè, luoghi della borghesia operosa e colta, in cui è possibile conversare e leggere giornali e riviste.
Li si trova da Palermo a Stoccolma. Pensiamo ai “nostri” caffè torinesi, genovesi, romani; a quelli di Vienna e di Parigi (sarebbe esistito il surrealismo senza Les Deux Magots oppure l’esistenzialismo senza Le Café de Flore?): luoghi di relax e di cultura, caldi, accoglienti.
Ancora – prosegue Steiner nella sua ricognizione– l’Europa può essere “passeggiata”, è un continente a misura d’uomo, anzi “di piede d’uomo”, è possibile – direi anzi, doveroso! – percorrere a piedi i centri storici, i favolosi centri delle capitali e delle città d’arte.
Ma “passeggiare” (non praticare il footing!) nella cultura europea, da Aristotele in poi, è occasione di meditazione e di dialogo con se stessi e/o con altri.
La storia del pensiero occidentale avrebbe avuto senz’altro esiti diversi senza la quotidiana passeggiata di Kant, così raccontataci da Heine:
«Quando Kant in soprabito grigio, col bastone in mano, appariva sulla porta di casa e si avviava a lenti passi verso il breve viale di tigli che ancora oggi è chiamato “la passeggiata del filosofo”, i vicini di casa sapevano che erano le tre e mezza in punto».
Filosofia e passeggio.
Ma anche fede e pellegrinaggio: anche questo è Europa.
La Via Francigena, il fascio di vie che dall’Europa centrale conducono a Roma, è dal 1994 “Itinerario culturale del Consiglio d’Europa”; ma vanno ricordati anche il Cammino di Santiago di Compostela e quello per Częstochowa, al Santuario della “Madonna Nera”.
Nei Paesi europei – continua poi Steiner – i nomi delle vie, delle strade e delle piazze sono quelli di grandi personaggi del passato: la toponomastica deriva dalla storia; altrove, invece, dalla matematica (la Quinta Strada a New York) o dalla natura (The Sun Road, La strada del sole, in Montana).
Ed è proprio la storia a connotare indelebilmente il nostro Vecchio Continente: certamente, la sua conoscenza rafforzerebbe il senso della nostra identità.
Questo è l’autorevole parere di uno dei più grandi medievisti di oggi, scomparso nell’aprile di quest’anno, Jacques Le Goff, che così si esprime:
«Penso che in tutte le scuole europee occorra dare molto spazio alla storia europea. Una storia comune che sottolinei ciò che ci fa simili ma anche i nostri conflitti. La nostra storia è segnata non solo da molte diversità ma anche da fratture profonde. Ciò che oggi ci consente di pensare un’Europa unita è il fatto obiettivo, innegabile che noi europei non possiamo più farci la guerra».
Speriamo sia davvero così!
Intanto, non possiamo non constatare che le recenti riforme del sistema scolastico italiano hanno riservato ben poca attenzione allo studio della storia, che è stata quasi relegata a materia di serie B, rispetto ad altre (una sola osservazione, en passant: i famosi-famigerati test INVALSI non hanno mai preso in considerazione tale disciplina, ridotta a due, massimo tre ore di studio la settimana!).
Torniamo alle tesi di Steiner.
Tutti i Paesi europei hanno altri due denominatori comuni: la derivazione da “Atene e Gerusalemme”, cioè dalla cultura greca ed ebraica e la “preoccupazione escatologica”, come la chiama lui.
Circa il primo aspetto, non c’è molto da dire, se non rimarcare la curiosa assenza di “Roma”: cioè, il diritto romano, le strade romane, il latino lingua madre di tutte quelle romanze (o neolatine, appunto!).
E, ovviamente, non solo la latinità classica e pagana, ma anche quella cristiana: vero punctum dolens, questo, sul quale una buona volta bisognerà trovare un accordo, se è vero che ancora non si è ratificato un testo condiviso di Costituzione Europea – e non è, ovviamente, un’assenza di poco conto! – a causa della vexata quaestio sulle “radici giudaico-cristiane della coscienza europea”.
Anche qui, un più pacato (e davvero laico) senso della storia potrebbe mettere d’accordo le diverse istanze, superando l’ormai ristretta equazione Europa = terra della Cristianità.
Con estremo buon senso Ryszard Kapuściński nella sua opera Nel turbine della storia, riflessioni sul XXI secolo osserva:
«L’Europa sta perdendo la sua identità tradizionale: è sempre meno un continente di cristiani bianchi e sempre più una zona multiculturale e multi religiosa.[…] Stiamo passando dall’ “Europa-mondo” all’ “Europa nel mondo”.[…]Per l’Europa questo nuovo, planetario, ambiente culturale potrebbe anche rivelarsi stimolante, fruttuoso, fecondo. L’incontro tra culture non deve portare necessariamente allo scontro».
L’ultimo aspetto evidenziato da Steiner è strettamente connesso al precedente. Se leggiamo il testo della Dichiarazione d’Indipendenza Americana, tra i diritti inalienabili si citano: «la Vita, la Libertà e il Perseguimento della felicità». È quest’ultimo che gli Statunitensi pragmaticamente ricercano e realizzano in questa vita, mentre gli Europei hanno una lunga storia di differimento, di attesa messianica, di speranza e di fede in un altro-tempo e in un altro-luogo.
Forse la cultura europea ha ancora (avrà sempre?) questo convincimento, che in questa vita ci sia preclusa la felicità, che il massimo a cui si possa aspirare sia la serenità, la soddisfazione, l’appagamento per le buone opere praticate. Una dimensione spirituale, insomma, ben particolare, e molto diversa da quelle di altri Continenti.
Si potrebbe dire molto al riguardo, ma forse è bene interrompersi per meglio riflettere su questo punto: se l’Europa sarà solo la “somma” di tanti, diversi Paesi non sarà mai davvero un’ “unità”.
Perché, come insegna Aristotele, il tutto è sempre maggiore della somma delle parti.
Non è questione, quindi, di aggiungere degli addendi, ma di riflettere sull’essenza, culturale e spirituale, di questo Continente, che non è soltanto, non è mai stato soltanto, un luogo geografico.