CIRO BÙTTARI
Ognuno di noi, pur essendo unico, viene omologato nel sociale, soprattutto attraverso l’istruzione. Siamo spronati a vedere le mostre, a documentarci, a studiare, e alla fine non sappiamo chi veramente siamo. Per saperlo dovremmo svuotare il sacco completamente e scoprire cosa c’è di nostro, di autentico. Ci vorrebbe una scuola capace di indirizzarci verso il nostro sé profondo, ma nella cultura occidentale la scuola non è interessata a questa conoscenza.
Essendo musicista, ho indagato sul potere del suono. Nel 1973, a Tokio, smisi di fare la professione perché mi resi conto di non essere cosciente del suono che producevo, non avevo la consapevolezza dell’effetto che potevo produrre sugli ascoltatori. Da sei anni vivevo in Africa, Medio ed Estremo Oriente e mi ero avvicinato alla cultura primitiva, scoprendo forme di musica collettiva e rituale (per esempio in Indonesia, dove i bambini fin da piccoli frequentavano le scuole di danza, musica e canto).Cercai allora di ritrovare una forma antica del fare musica, che avesse anche una funzione sacra, e che aggregasse tutti, non solo gli eletti, gli intonati.
Ho incominciato ad esprimermi in “assenza di pensiero”. A Varanasi, in India, avevo ricevuto un’iniziazione alla meditazione Vipassana da due grandissimi maestri, S.N. Goenka e J.E. Coleman. Il Vipassana mi fece sperimentale il silenzio mentale a favore di una visione più profonda della realtà. Sul piano musicale-compositivo questo significava assistere a qualcosa che si manifestava spontaneamente dove la mente non c’entrava, qualcosa che veniva dal cuore o dal plesso solare. Quando ti metti in quelle condizioni, ti smascheri, abbandoni gli strumenti che di solito usi e le cose che sai fare, e accogli senza esitare ciò che emerge dall’interiorità del tuo essere . Nel 1974, rientrato a Londra, frequentai per un anno un workshop di avant-garde music con personaggi illustri quali Derek Baley, Steve Lacy, Radu Malfatti, Paul Litton. Conobbi un sacco di gente straordinaria che a quei tempi indagava come me sull’origine, sulla motivazione dell’atto creativo. Il lavoro fatto insieme mi ha molto aiutato a combinare la tecnica della meditazione Vipassana con “l’improvvisazione”. Ho rinunciato alla professione di musicista optando per la musicoterapia, per seguire quello che ancora oggi è il mio percorso.
Ho iniziato a togliere la parola, disimpegnando la mente dal significato, e a cantare suoni, fonemi. Questo ha favorito molta più libertà sul piano ritmico-melodico, perché il canto si è liberato dalla sua matrice linguistica e mi ha fatto ritrovare legami con altre culture. Sul piano compositivo, con l’uso del registratore, ho cominciato ad assistere alla manifestazione spontanea. Registravo e poi riascoltavo, setacciando la melma alla ricerca dell’oro, di quel momento di grazia che appariva al di là della mia volontà, come dono prezioso.
Ho scoperto la possibilità di entrare in comunicazione con la mia fonte profonda, a condizione però che la mente fosse silente e non intervenisse. Ancora oggi percorro questa strada: dalle registrazioni estraggo delle “pagliuzze d’oro”, che nascono, si manifestano e spariscono. Mi sono conquistato una posizione che chiamo “dell’assistente al parto”, della quale ringrazio il cielo. Sono testimone della nascita di qualcosa di autentico e profondo. Assistere a questo parto è il compito dell’uomo. Le attività artistiche ci consentono di sconfiggere la malattia attraverso il movimento fluido, l’essenza del pensiero, la spontaneità, l’esercizio del cuore che precede la mente, la riscoperta del silenzio che precede qualsiasi nostra azione. Non ci basta più il pensiero dietro alle nostre parole o azioni, ma ciò che lo precede. Abbiamo bisogno di quel silenzio, di quell’apparente vuoto o nulla che non riconosciamo perché non è pensabile. Ma proprio da lì tutto ci giunge e si presenta rendendosi visibile e udibile. Bisogna ascoltarlo, quel silenzio che precede i fatti, essere presenti e stabilizzati, proprio sulla soglia tra il prima e il dopo, l’interno e l’esterno in quel punto fermo da cui ieri, oggi e domani si coniugano stabilmente.
Trasmetto la mia esperienza in un laboratorio sull’uso della voce e sulla vocalità che si chiama “Io sono suono”, destinato soprattutto a persone deprivate della loro libertà creativa, per quanto riguarda il canto, a causa di una valutazione scadente e negativa ricevuta negli anni della scuola dell’obbligo, tale da convincerle di non avere alcun diritto ad usare l’espressione musicale e vocale. Il nostro sistema musicale è governato dall’intonazione, del La 440Hz (= oscillazioni al secondo) prodotta dal diapason. Io ho indagato sull’interspazio, quello che intercorre tra un tono e un semitono, dove esistono un’infinità di microtoni, una zona d’ombra che non viene tenuta in considerazione. Ognuno di questi microtoni pronuncia e segnala la sua posizione nello spazio, come un aereo di notte, che viene ignorata. Questa convenzione è senz’altro utile: se siamo un’orchestra dobbiamo accordarci, ma, come ho osservato nei popoli cosiddetti primitivi, questo punto di riferimento può non coincidere con le leggi naturali. Riuscire oggi a fare una musica dove tutti vengano accolti vuol dire ritrovare la forza della ritualità antica.
Noi siamo portatori di un immenso capitale, trasmesso ininterrottamente in forma orale; siamo però incapaci di accedervi finché non riusciamo ad abbandonare la mente razionale.
La Storia a cui ci riferiamo è molto recente poiché inizia da quando ci sono delle testimonianze tangibili e leggibili del passato. Nel tempo-spazio che precede questa Storia c’è un territorio enorme la cui esplorazione può avvenire solo coi veicoli spirituali dell’arte, che non è razionale né comprensibile con la ragione.
Nonostante il mondo sia quello che è, questa radice, l’io primitivo, è viva dentro di noi e sarebbe interessante, nell’arte come nella vita, riconnettersi ad essa per recuperare le antiche conoscenze. Certamente la forma in cui emergono e si esprimono è imprevedibile ed è di difficile catalogazione. Per ora noi conosciamo soltanto un tipo di perfezione che elimina, non quella che comprende tutto, mentre qui parliamo di un impasto di memoria culturale universale, di una ricchezza che appartiene ai popoli, all’unica razza esistente, quella umana.
Il valore e il compito delle arti è quello di universalizzare, superare i confini ed eliminarli, creare una forma che contenga le chiavi di accesso alle varie culture.
Noi siamo suono, suono condensato. Se venisse a mancare la vibrazione del suono, come dicono gli antichi saggi Veda, la materia si disgregherebbe. L’indagine sul potere del suono porta a comprendere che noi siamo soggetti a variazioni subatomiche continue prodotte proprio dalla sua vibrazione. Noi rispondiamo inconsapevolmente alle sollecitazioni sonore, le nostre cellule danzano sotto lo stimolo della vibrazione, anche quella della voce. Quando si parla, ma anche quando si canta e suona, il corpo, nostro e di chi ascolta, risponde alla qualità nutritiva del suono, nel bene e nel male. Siamo quindi affidati ad una marea infinita di sollecitazioni sonore che ci toccano nel profondo, toccano il corpo fisico e lasciano un segno.
“L’Arte ci è stata affidata per preservare l’uomo dalla caduta nella menzogna”. Lo diceva Rudolf Steiner.
I musicisti devono essere consapevoli di cosa irradiano attraverso il suono, potrebbero anche fare del male senza rendersene conto o non fare nulla, non far arrivare nulla.
Siamo figli di una cultura che punta alla finitura, al completamento a tavolino dell’opera, e nasconde il percorso dell’uomo attraverso l’imperfetto. Io ho cancellato la gomma, e questo vuol dire che accolgo l’imperfetto, perché l’imperfezione è nella nostra natura e va accolta, con la spontaneità e l’autenticità.
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Mia amatissima. Brano di origine improvvisativa trascritto e suonato al Concerto per la pace a Torino, il 4 novembre 2009. Sara Sartore, corno inglese, Marco Ravizza, long piano, e Sergio Caputo, violino
Nella mia casa/laboratorio con Francesco Fogliotti durante la lavorazione de Il Filosofo Ignoto — con Francesco Fogliotti, Stefania Griet Flori e altre 3 persone a Mondovì. Francesco Fogliotti è un giovane regista genovese che ha avuto il privilegio di documentare il teatro dei sensibili e Guido Ceronetti, famoso per l’antipatia verso le macchine da presa e le registrazioni, nel 91 rifiutò (ero presente) la richiesta di F.Fellini.
Yorick è il mio pseudonimo nel teatro dei sensibili.
Qui sotto c’è l’indirizzo della mia pagina d’arte e musica su F,B.
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