Nel 2012 cadevano i quarant’anni dalla pubblicazione del capolavoro di un grande scrittore italiano del Novecento, Italo Calvino: Le città invisibili. Avendo imparato da quel libro che una città è impastata di memoria e desiderio, di scambi e di morti, di cielo e di segni, di occhi e di nome, e può essere sottile, continua e nascosta, cercherò di leggere con nuovi occhi la nostra “città invisibile”, Mondovì.
Chi giunge dal mare a Mondovì in autostrada, uscendo dall’ultima galleria se la trova di fronte: una nave ancorata alle montagne, su un mare di nebbia, con le vele ammainate dei tetti e due alberi svettanti sul cassero di prua – bellezza assoluta. Ma invano cercherà sui cartelli stradali il simbolo del centro, perché Mondovì non ha centro – o meglio ne ha più d’uno, come ha più di un nome: Piazza, Breo, Piandellavalle, Carassone, Borgato, Rinchiuso… non quartieri di una città, ma veri e propri borghi autonomi, ciascuno separato dagli altri per ragioni orografiche e topografiche: siccome la città, crescendo, non ha saputo né voluto amalgamarli in un compatto tessuto urbanistico, chi attraversa Mondovì ha l’impressione di entrare e uscire da paesi diversi, o di essere sempre in periferia, perché il centro è in nessun luogo.
In realtà, quando è nata alta sulla collina di Piazza, tra Ellero e Corsaglia, alla fine del XII secolo, Mondovì un centro l’aveva eccome, Piazza Maggiore: disposta su due livelli, con due file di portici, Soprani e Sottani, il Palazzo di Città, la Cattedrale e una raggiera di strade e vicoli che scendevano alle mura, al tribunale, all’ospedale, al teatro, alle scuole… Era una ‘città ideale’, che riproponeva armoniosamente nei suoi spazi i tre elementi costitutivi della città nella storia: il sacro, il politico, l’economico. Oggi Piazza Maggiore, a Piazza (sicuramente una delle più belle piazze d’Italia), è sì considerata dai Monregalesi il “salotto buono” della città, ma – come nelle case della borghesia primonovecentesca il salotto buono veniva aperto solo nelle grandi occasioni, per visite illustri – non è la meta del loro “andare in centro”, non è lo spazio del loro quotidiano, o settimanale, incontrarsi: al massimo, ci vanno quelli (pochi) che ancora abitano a Piazza. Ancora a Piazza c’è il tribunale (fino a quando?), ci sono le Scuole, la Biblioteca, la musica dell’ “Academia Montis Regalis”, c’è il Museo della Ceramica e quello della Stampa, di nuovo arriva la funicolare – ma il centro non è più lì.
Il fatto è che il centro non si è trasferito da un’altra parte: ha provato, sì, a scendere ai piedi della collina, a Breo e Piandellavalle, dove il tessuto urbanistico medievale si è arricchito di preziose chiese barocche, palazzi classicheggianti (tra cui quello municipale) e rari portici, ma è rimasto privo di una piazza unificante, stretto com’è tra la sponda destra dell’Ellero e i ripidi pendii occidentali di Piazza, dalla cui sommità abitata risulta ancora oggi rigorosamente separato, tant’è che le case costruite lungo le due strade Breo-Piazza (oggi via Carboneri e via Tortora) sono doppiamente periferiche, sia rispetto a Piazza che rispetto a Breo, e Mondovì è una città che contiene “periferia”, addirittura cascine di campagna, anche al suo interno. In qualche modo analoga – si parva licet – era la condizione di Berlino subito dopo la caduta del Muro, ma quello spazio vuoto che separava le due città è stato subito riempito di cantieri, e oggi è cerniera e perno di un’unica città, che ha ritrovato a est il suo antico centro, Mitte. Mondovì no, è rimasta slegata, disarticolata, inesistente…
Rispettivamente alla base della collina verso nord-ovest e alla confluenza tra Ellero ed Ermena si sono sviluppati, già ab antiquo, i borghi di Carassone e Borgato-Rinchiuso: conventi, antichi ospedali e chiese non mancano a Carassone, mentre il Borgato-Rinchiuso è pittoresco per le vecchie case popolari, le viuzze tortuose. Anche questi due borghi ovviamente stanno a sé, ciascuno orgogliosamente prigioniero della propria separata bellezza e del proprio minuscolo centro, la piazza della Chiesa parrocchiale.
Certo, anche Mondovì ha conosciuto purtroppo i due problemi con cui si sono trovate a fare i conti le città europee negli ultimi decenni, ossia il traffico automobilistico e il degrado, lo svuotamento dei centri storici che l’hanno resa, se possibile, ancor più “invisibile”… ma non è questo il punto, non è questo l’essenziale ai fini del mio discorso. Io, che in questa piccola città tanti anni fa sono nata e da allora vi ho sempre abitato, ho sempre sentito questa mancanza di centro come un limite, e ho invidiato gli abitanti di altre città – grandi o piccole non importa, come Alba o Cuneo, Saluzzo o Savigliano, Fossano, Trinità o Benevagienna, per rimanere in provincia -, che nei secoli hanno mutato fisionomia, sì, ma sono cresciute concentricamente, mantenendo comunque un centro ben riconoscibile. Eppure, nonostante questo grave limite della città, nonostante la sua riservatezza quasi mortificante, nonostante il brutto che si è aggiunto con la modernità, ne avverto anche il fascino sottile e persistente, che occultamente m’intride come una tenace pozione amorosa: da dove nasce? Mi sono lambiccata a lungo il cervello, e poi – grazie anche a Calvino – ho capito: Mondovì in realtà è una città postmoderna, se si riconosce come tratto tipicamente postmoderno la mancanza di un centro, dominante e unificatore, nella società, nella cultura che si definisce tale – proprio come avviene a Mondovì. Ecco allora che quello che giudicavo un limite si rivela un pregio, un essere in anticipo sui tempi: perché abitare Mondovì, città decentralizzata, vuol dire abituarsi al mondo postmoderno, frammentato, non lineare, caotico, aperto.
La prospettiva aperta è infatti un’altra caratteristica di Mondovì, della sua topografia unica, speciale. Le città, in quanto tali, chiudono la prospettiva, ostacolano lo sguardo di chi vi cammina, imprimendogli una direzione centripeta, obbligandolo a vedere la città, le strade, le case e nient’altro – a volte, a malapena il cielo. A Mondovì questo non succede certo: da ogni punto di Piazza o di Breo, di Carassone o del Borgato (oltre che, ovviamente, dal giardino panoramico del Belvedere) si aprono scorci mozzafiato: sulle vicine Alpi Liguri e Marittime o sul lontano Monte Rosa (e oltre, a volte), sulla pianura fino a Cuneo e Torino o sulle Langhe, sulla città stessa, con i suoi tetti e camini, campanili e altane. A Mondovì non si è soffocati e imprigionati, ma invitati a riconoscere, ad abitare la bellezza, e a sentirsene responsabili.
Per i Monregalesi più che per ogni altro abitante del pianeta Terra vale, secondo me, il verso del poeta tedesco Hölderlin “eppur poeticamente abita l’uomo sulla Terra”: poeticamente, cioè con uno sguardo “altro” e alto sulle cose, con la capacità di coglierne la segreta, inaspettata bellezza, con radici che affondano nelle più remote onde della storia e foglie sensibili alla minima brezza del presente. Mondovì, o la si abita poeticamente o la si subisce, la si odia addirittura, perché Mondovì è nel suo piccolo una città profondamente “poetica” – non per niente tra i suoi cittadini i poeti – e gli artisti in genere – fioriscono in gran numero… Poetica la rendono la ricchezza della sua storia secolare, raccontata da pietre e mattoni, strade e balconi, cupole e tetti, e la sua peculiare struttura urbanistica, a specchio o meglio a ricalco: a ben guardare, infatti, Breo non è che Piazza capovolta, il concavo del convesso, e se il profilo di Piazza può richiamare alla mente quello di cittadine dell’Italia centrale, dalla Toscana alle Marche, ha però una severità (e una ripidezza) tutta alpina.
Gli abitanti di Mondovì hanno così il privilegio di vivere nel postmoderno avendo le spalle coperte dalla storia, dalla bellezza e dalla poesia che abitano insieme a loro la “città invisibile” – invisibile, ma non per questo meno preziosa e vitale, come l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo…
QUI il link a Parafrasando Calvino
Illustrazione di Lorenzo Barberis
Foto di Gabriella Mongardi
(pubblicato originariamente il 4-8-2013)