PATRIZIA GHIGLIONE (a cura)
Sono il presidente di una patologia. La malattia Mondoquì si è manifestata fin dalla mia giovinezza, quindi penso che sia una malattia cronica. Direi anche contagiosa, alla fine. Si tratta di una malattia che viene a delle persone particolari, predisposte, diciamo. Che hanno tutta una serie di caratteristiche. La mia prima, che senz’altro ne è all’origine, è che a un certo punto della mia vita, per tutta una serie di esperienze, ho deciso che non avrei vissuto in modo banale. Se la butta nel mondo, invece di tenersela stretta, per paura che qualcuno la rubi. Penso che si possa vivere una vita priva di significato, semplicemente ricoprendo tutta una serie di ruoli che ci vengono attribuiti in modo anche un po’ meccanico, scontato. Io, fin da giovane, sono stato spaventato da quest’idea di un futuro previsto: moriremo e la nostra vita sarà andata avanti così, senza picchi, senza eccezioni. Oggigiorno, almeno dal punto di vista lavorativo, è già più difficile vivere una vita regolare. Ma si può rimanere, dentro, regolari comunque. Regolarmente sani.
Io assolutamente non voglio esserlo, sano. Mi rendo conto di essere un caso abbastanza grave. E ciò mi solleva non poco.
Un altro sintomo della malattia era il mio interesse per gli stranieri, per gli immigrati. Mi dicevo sempre: la gente spende un mucchio di soldi per andare in Egitto, in Alaska, eppure tutti questi mondi ce li abbiamo qui e non li guardiamo neanche.
Invece, noi qua abbiamo tutto: il mondo è qui, mi sono detto.
E avevo anche letto, da qualche parte, di qualcuno che diceva che il modo migliore per vedere bene le situazioni, non è starci dentro, ma rimanere sulle frontiere. Perché se tu sei dentro, in mezzo a tutti come te, vedi le cose in modo distorto. Mentre invece, se stai sulla frontiera. Che poi le frontiere sono un po’ dovunque: non solo tra italiani e stranieri ma tra vecchi e giovani, tra uomini e donne. E quindi la frontiera è un luogo privilegiato che ti aiuta a vedere chiaro dappertutto.
Voglio stare su questa frontiera.
Non c’è molta gente sensibile a questi luoghi. La maggior parte delle persone, rispetto al tema dello straniero, semplifica, si confonde; banalizza. E allora, ho provato con il sistema del contagio. Per primo ho trovato Abdul, che faceva già parte della categoria. Già stava sulla frontiera, già condivideva il morbo. Ci siamo seduti intorno ad un tavolo e abbiamo detto: facciamo l’associazione. Abbiamo organizzato una serie di riunioni, sparso la voce. È arrivata molta gente e là è partito il contagio vero e proprio. Certo, la predisposizione genetica stava negli organismi, così la malattia non ha tardato a manifestarsi.
A volte uno si mette a fare un’associazione, poi pian piano la sposta, la mette al 5° posto della sua vita, la accantona. E piano piano, questa sfuma, dentro di lui. Se non insieme a lui. Io sono un marito ed un padre, e, in quanto al lavoro sono piuttosto fortunato, visto che ne posseggo uno. Molto spesso i miei vari ruoli hanno rischiato di mettere in pericolo il mio interesse per l’associazione. Ma non ci sono mai riusciti, forse perché, fondamentalmente, dentro di me non c’è contraddizione tra gli affetti, gli impegni e le cose in cui credo. La fatica vera consisterebbe nel doverci rinunciare. Per poter godere dei frutti della Pazzia Mondoquì, per poterli esprimere, occorre sbrigare faccende talmente noiose da sfiorare la sanità. Questo io ho fatto, lo confesso. Ma non ho cambiato il mio atteggiamento di fondo, non mi sono lasciato corrompere. Continuo ad augurarmi l’epidemia. Senza di essa si rischia di morire di tristezza, oltreché di fame.
Il problema da affrontare è quello che riguarda i muri costruiti da chi è sano nei confronti di ogni diverso da loro. Per esempio, ci sono tanti italiani che, poveretti, sono talmente pieni di anticorpi verso il morbo, e allora hanno paura di qualsiasi stranezza si trovino davanti. Gli stessi stranieri, allora, imparano e costruiscono dei muri, esattamente come tutti. Il nostro compito sarebbe quello di operare dei buchi dentro a questi muri. In modo che passi qualcosa attraverso. Non è tanto facile, perché se chi è predisposto al morbo, subito contrae la malattia, chi non lo è, possiede difese robuste. Così nascono tante isolette, si diventa arcipelago e ci si disperde. Disperdendoci, ci perdiamo proprio. Correndo dietro, cercando di salvare la nostra Identità. Invece, l’identità, si forma mettendola in gioco, un gioco che la esalti. Perché è confrontandola con gli altri che ti accorgi di averla, che cominci a capirla bene.
Cambierà, di certo, questa identità, come è sempre cambiata. Quando ero piccolo esistevano gli Altri, che allora non erano stranieri, ma meridionali. E così io sono completamente diverso da mio padre. Come lui, per chissà quali “altri” motivi, era stato diverso dal suo. E così via. Ci mischiamo da sempre, insomma.
Chi ha la malattia, riesce a scoprire tra le pieghe della propria città una vita che non sapeva. Ricordo, era capodanno. Ci trovammo due o tre malati ad un certo punto di quella notte, lasciando le nostre rispettive feste familiari, diretti verso il Capodanno della Chiesa pentecostale del Follone (area artigiana-industriale di Mondovì). Sapevamo che ci sarebbe stato il momento del culto, poi la festa. Quando entrammo, pensavamo si trattasse della festa, ballavano tutti. C’era la musica a tutto spiano. Invece, si trattava del culto. Facevano cose che io non conoscevo, si tratta di riti cristiani che la comunità di alcuni africani francofoni pratica in questo capannone tutte le domeniche mattina.
Gli spazi stessi cambiano significato, si arricchiscono di nuovi. Un anonimo capannone industriale diventa un luogo di incontro, addirittura di preghiera. Di vita comunitaria. Qualche ragazzino, domani, lo assocerà a ricordi affettuosi, ad emozioni della sua infanzia. Quello che per noi non è altro che un misero, squallido capannone. Anche i negozi. Scopri negozi che non sono i nostri, non vendono le nostre cose, non funzionano come i nostri. Sono posti dove si entra per parlare, per bersi una bibita insieme, per sentire l’odore del proprio Paese. Sono un pezzo di mondo a sé. Che arriva poi, tra l’altro, alla Festa dei Popoli. Una volta l’anno, chiamiamo tutti e tutti arrivano, con i loro costumi, la loro musica; i loro pentoloni fumanti.
Noi siamo cani sciolti che vagano tra le isole, che creano ponti con l’intento, chissà, di dar vita a penisole. Siamo pirati, che ne attaccano alcune, con l’intento di conquistarle. Così abbiamo fatto, per esempio, con l’isola giovani della stazione di Mondovì. Luogo di frontiera per eccellenza, luogo di partenze e di arrivi. E lì ci siamo fermati. Lì abbiamo eletto la nostra sede. La frontiera stazione è interessante: arrivano tutti i frontieraschi, basta stare e arrivano. Transitano. E la nostra presenza li induce a fermarsi. Per la stazione passano tutti i problemi della società che la circonda. Direi quasi che chi ha qualche problema, prima o poi, va alla stazione. Ci arriva l’altro con la A maiuscola, appunto. Ed eccoci al bivio, alla definizione di straniero. Perché di stranieri, alla stazione, ce ne sono anche di nati in Italia. È questo che capisci, stando in frontiera. Confonde un po’, certo, ma quando cogli la ricchezza umana che da ciò deriva, ecco che ti lasci di nuovo andare alla malattia, abbandoni ogni resistenza. Dalla frontiera fisica, ora, per passare alla frontiera temporale del capodanno che è oggi, 31 dicembre 2014. Volendo fare un bilancio di fine anno, come si usa, direi che mi piacerebbe diventare un po’ meno presidente e un po’ più attivista, mescolarmi invece di gestire.
Essere un malato di base, insomma.
Claudio Boasso è l’attuale presidente dell’associazione Mondoqui
http://www.mondoqui.it/