Metti un dicembre a Milano

chagall-milano-2014GABRIELLA VERGARI

Tridimensionale, come i fantasiosi pop-up nelle vetrine della sua “Rinascente” o lo splendido prospetto di S. Maria delle Grazie dalla filigrana di migliaia di lievissimi fiocchi di neve.

Così mi è apparsa questo dicembre Milano, con le sue molteplici sollecitazioni artistiche, sensoriali e, perché no, commerciali. Dalle lussuose decorazioni di via Montenapoleone, sospese – è proprio il caso di dirlo – tra fasto e sobrietà, ai vivacissimi mercatini gastronomici giusto a ridosso della Cattedrale, in una kermesse di odori e colori da fiera medievale (Ken Follett docet), dai rutilanti cristalli luminosi della cupola della Galleria alla perenne bellezza delle guglie del Duomo, solerti e svettanti custodi di una Madonnina sempre più protesa verso l’alto e distante dall’assedio di cartelloni pubblicitari e bancarelle. E l’elenco potrebbe continuare, se a rubargli il posto non ci fossero le molteplici mostre che hanno trasformato la città in una sorta di articolato ed intenso corso di Storia dell’Arte, a cominciare dal “dono” fatto dall’amministrazione comunale ai suoi concittadini, con la Madonna Esterhάzy di Raffaello.

Questo infatti il capolavoro che ha lasciato frotte e frotte di visitatori al gelo di attese anche lunghe per ricompensarli – oltre che col calore gentilizio degli interni di Palazzo Marino -, soprattutto con l’assorta pacatezza della sua composizione, dove un paesaggio morbidamente rasserenante e variegato funge da sfondo ad una Madonna dolcissima che tiene Gesù tra le braccia ma si volge verso S. Giovanni bambino, come se vegliando su di lui vegliasse sull’umanità intera. Una promessa d’amore e di cura ben diversa da quella più enigmatica e complessa della Vergine delle Rocce di Leonardo, che accoglie i visitatori all’inizio del percorso di mostra nella versione del Louvre riprodotta da un allievo del genio vinciano, o dal dipinto del Boltraffio (che completa l’allestimento) in cui la torsione della Vergine sembra voler soprattutto trattenere il Bambino dal sacrificio della croce cui lo presagisce destinato.

Il mio tormento è solo questo: in cosa potrò riuscire, in cosa potrò servire o essere utile agli altri, e come potrò capirlo? Non si sa sempre riconoscere che cosa ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione?
La ricerca di una più autentica vocazione, insieme all’urgenza di servire e confortare l’umanità, risalta decisa in questo commovente stralcio di lettera, una delle tante, che Vincent Van Gogh indirizza al fratello Theo per renderlo partecipe del suo travaglio e degli sforzi per giungere ad un ubi consistam degno di questo nome e può ben rappresentare una delle chiavi interpretative nella pittura del celebratissimo artista olandese.

Sotto tale profilo, la mostra “Van Gogh l’uomo e la terra”, allestita a Palazzo Reale, sembra offrire una proposta convincente, per quanto focalizzata sulle tematiche legate a Expo 2015 e dotata di non più di una cinquantina di opere, parte delle quali concesse dal Van Gogh Museum di Amsterdam. Valida e perfino toccante l’idea di affiancare, ai dipinti, passi significativi dell’epistolario, come a esibire essenzialmente la dinamica di una tensione spirituale mai acquietata, che cerca sfogo ora nella spenta cupezza de “I mangiatori di patate” e nella curva delle schiene contadine o nello scavo di volti segnati dalla durezza di un’esistenza avara di lenimenti e sollievo, ora nella franca autorappresentazione, ora in tranche de vie parigine, ora nell’esplosione cromatica del ritratto di Roulin, ora nella raffigurazione di una natura che si vorrebbe pacificante ma ahimè si traduce in specchio d’ inquietudine ed affanno. La storia di un’anima, insomma, che emerge con forza da ogni pennellata ma anche dalle parole con cui l’uomo Van Gogh riesce lucidamente a sondare se stesso, e la propria sofferta esperienza di vita, lasciandone un segno così indelebile da coinvolgere ogni visitatore in una vicenda esistenziale davvero difficile da dimenticare e sentire lontana.

Tuffarsi nei paesaggi alpini di Segantini può perciò divenire un sollievo ma anche un’occasione per conoscere un altro mondo ottocentesco, fatto ancora una volta di un legame profondo con la natura e la vita dei campi ma pure d’amore per una Milano sentita come patria dello spirito e cuore d’Europa.

Una piena boccata d’ossigeno – è veramente il caso di affermarlo – prima di immergersi nella ricchissima ed emblematica retrospettiva (1908-1985) dedicata, sempre a Palazzo Reale, a Marc Chagall ed al suo triplice linguaggio pittorico fatto di folklore russo, cultura chassidica e iconografia francese. Dai costumi teatrali alle illustrazioni delle fiabe di La Fontaine, dalla splendida “Passeggiata” ai tetti di Vitebsk, dagli animali ai fiori rappresentati in mille modi e in mille forme, dall’esplosione onirica dei colori alla drammatica essenzialità dei dipinti legati alla seconda guerra mondiale, il lunghissimo percorso creativo e biografico dell’artista si “legge” con grande efficacia e partecipazione attraverso le 220 opere (molte delle quali ancora nelle collezioni degli eredi) che attestano il suo “miracolo”, ovvero quella peculiare capacità con cui Chagall, pur avendo attraversato gran parte del ‘900 e dei suoi momenti più tetri, è riuscito a preservare la meraviglia di “uno sguardo bambino” di fronte alla realtà, insieme alla fiducia nell’amore e nella potenza onirica quali risorse imprescindibili per la costruzione di un mondo migliore.

Ma se in questo dicembre all’insegna dell’arte il Palazzo Reale ha dato un contributo tanto significativo, non meno interessante è stato quello del Museo Poldi Pezzoli, che ha proposto un evento eccezionale, approfondendo somiglianze e differenze tra Antonio e Pietro Pollaiolo e soprattutto ponendo a confronto le quattro versioni della cosiddetta “Dama”, la milanese, la fiorentina, la newyorkese e la berlinese. Quattro profili simili e insieme molto diversi che hanno rilanciato l’idea del bello neoplatonico, coniugandolo nella sottile linea d’ombra tra il ritratto celebrativo e la rappresentazione realistica. Il tutto “incastonato” nella cornice del ricchissimo palazzo che, nato dall’amore e dalla dedizione di un fine intenditore, offre collezioni di argenti, smalti, monili e porcellane con una pinacoteca che insieme a dipinti di scuola lombarda contiene dei Cranach, Tiepolo, Perugino, Canaletto…

E che dire, allora, del Bramante all’Accademia di Brera o delle macchine di Leonardo o del permanente ma interessantissimo Museo del Novecento?

Se questa è stata la fase propedeutica all’Expo 2015, vale davvero la pena di attenderne lo svolgimento e l’evoluzione: ce ne sarà per tutti i gusti!

Attenzione però, il mondo dell’arte non si arresta e già Matisse bussa alle Scuderie del Quirinale. Che Milano debba cedere il passo a Roma? Che si finisca, per restare in tema, col fare indigestione di eventi e per essere una volta tanto viziati da un’Italia tornata finalmente capitale del Bello e della Cultura?

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