Teresa
Non avevo mai giocato volentieri con Reginadifrancia; sì, Reginadifrancia una parola sola. Era il suo nome, no evidentemente ne avrà avuto un altro, ma la chiamavamo tutti così. Per quel vestito, per l’acconciatura dei capelli, per quell’aria. Snob, ma non è la parola giusta. Aveva classe, sul serio, non era affettazione, no. Emanava una specie di alone aristocratico. Una luce interiore le scintillava negli occhi azzurri e incantati, le si riversava sugli abiti di velluto blu, sui pizzi, sui ricami dorati e fin sulle mani, non grassocce come quelle delle bambine ma sottili, raffinate. Non le stonavano i gioielli, finti certamente ma di buona bigiotteria. Ne indossava parecchi, tra collana, coroncina, orecchini, spille, braccialetti e anelli. Quando stava seduta sulla poltrona di papà dominava l’intero salone, anzi tutta la casa. Mi sentivo imbarazzata solo ad avvicinarmi a lei, indugiavo a scrutare il suo sguardo per indovinare i pensieri e raramente le rivolgevo la parola, e quando lo facevo era con imbarazzo e sottomissione. A volte la odiavo, lo confesso. Quando lessi per la prima volta della rivoluzione francese, di Maria Antonietta, della ghigliottina, non potei trattenermi dall’immaginare di trascinare lei, Reginadifrancia, al patibolo. Preparai persino le carte del processo, le accuse di tradimento del popolo, la sentenza. Non sapevo come tagliarle la testa, in realtà non avrei mai osato, ma un pomeriggio, mentre sguazzavo in piscina insieme a un paio di amiche, proposi di annegarla. L’idea piacque e subito dopo la merenda, la affrontammo tutte insieme. La dichiarammo decaduta dal trono e in arresto, quindi, in attesa del momento adatto per procedere all’esecuzione, la chiudemmo in una cella della Bastiglia, vale a dire in un gabbiotto di legno nel giardino dove papà teneva il tagliaerba e altri attrezzi. Tra questi, c’era anche un falcetto per i sistemare i cespugli. Ci parve lo strumento adatto a recidere il collo della ex sovrana. Soluzione migliore del gettarla nella vasca, qualcuno avrebbe potuto accorgersi e salvarla. E poi volevamo rispettare la storia. Alla regina di Francia era stata mozzata la testa e così era giusto procedere anche nel nostro caso. Anche una forma di rispetto, in un certo senso, per Reginadifrancia. Non era tanto dignitoso finire a mollo per una che nemmeno si era mai fatta un bagno in vita sua, ma soltanto leggere spugnature quando si cambiava l’abito di velluto blu con quello estivo di raso color pesca. Non c’era modo di erigere una ghigliottina in giardino, perciò, su consiglio di Elvira, mia cugina, ci accontentammo di un ceppo sul quale papà spaccava la legna per il camino. Margherita, l’altra mia cugina, cugina in seconda, una che sa sempre tutto, giudicò accettabile la soluzione, dal momento che sul ceppo era stata decapitata almeno un’altra regina, Maria Stuarda. Fissammo l’esecuzione per un certo giorno, non ricordo quale, ma dovemmo rinviare perché si scatenò un temporale furioso. I rinvii si ripeterono altre volte, per motivi diversi, con la condannata che attendeva con calma impassibile il suo destino nel braccio della morte. Trascorse quasi un anno, durante il quale Reginadifrancia riottenne a un certo punto la libertà e anche il trono. Libertà provvisoria e regno precario, perché un caldo pomeriggio di fine inverno ci ritrovammo davanti alla condannata e le annunciammo di prepararsi a morire. Eravamo sole, potevamo procedere senza altri indugi. Senza ripassare dalla Bastiglia, la cerimonia si svolse velocemente con un giro della carriola sulla quale avevamo legato la detenuta con dei nastri rossi avanzati dai pacchi natalizi, fino al retro della casa, davanti al ceppo. Margherita sostenne che bisognava concedere i conforti religiosi a Exreginadifrancia, così le recitò un «eterno riposo» e la benedisse. Elvira la prese per i piedi e io la sdraiai a faccia in giù sul ceppo. Margherita scostò il colletto di pizzo, ma attorno al collo c’era un nastro blu con una perla finta e lo dovemmo tagliare con le forbici. Sistemai di nuovo la condannata, impugnai il falcetto e lo bilanciai un paio di volte sul collo nudo, prendendo bene la mira. Calai il colpo. Netto. Confesso di avere chiuso gli occhi al momento fatale, ma rimasi male quando li riaprii e constatai che la lama era penetrata soltanto in parte nel collo e si era fermata su una articolazione della testa, che era così rimasta attaccata sia pure penzolante. Elvira e Margherita si erano voltate dall’altra parte e quando si girarono se la presero con me. Ero un boia incapace, sostennero.
Litigammo un po’ sopra il corpo di Exreginadifrancia appoggiato sul ceppo, con la testa sbilenca. Margherita voleva provarci lei a dare il colpo di grazia, ma rifiutai: l’esecuzione spettava a me. Sarà stato il nervosismo, ma la seconda volta fu peggio della prima. Il falcetto cadde male e la testa si staccò sì e no di un altro centimetro, al massimo due. Persi la pazienza. Soprattutto non volevo subire altri scherni dalle mie cugine. Lasciai il falcetto, afferrai Exreginadifrancia, la sbattei violentemente sul ceppo e infine, furibonda, le strappai la testa con le mani. Esultai. Esultammo tutte e tre. Gettammo le due parti del corpo della defunta nella carriola e a quel punto sorse il problema del dove seppellirla. Ma sentimmo arrivare l’auto dei miei e nascondemmo i resti sotto un telo vicino al capanno degli attrezzi, rinviando il funerale. Che alla fine non ci fu, perché è andata come dicevo prima: Borsodeste, sì una parola sola, ha trovato il corpo e se l’è portato nella cuccia, dove l’ha torturato un bel po’ prima di portarlo trionfante a mio padre al momento di farsi mettere il collare per la passeggiata. È stata una fortuna, perché si è preso lui la colpa. E poi c’è stata quest’altra sorpresa, un’altra fortuna grossa a quanto pare, che è poi il motivo per cui siete venuti qui a intervistarci, no? Le lettere, sì. Se n’è accorto papà quando per consolare la mamma, che piangeva per quella antipatica bambola, ha provato ad aggiustarla. O meglio, ha finto di provare ad aggiustarla, perché era davvero ridotta male. Ma io non so altro, per il resto dovete chiedere a lui. Ora speriamo che la mamma non si arrabbi con me, perché finora pensava che fosse stato Borsodeste a divorare Reginadifrancia. Invece, è merito mio se nella pancia di quell’inutile giocattolo abbiamo trovato un tesoro. È davvero un tesoro? Quanto varrà?
Michele
Si è parlato di lettere, in realtà si tratta di una sola lettera e di una busta sigillata. La lettera era dentro un contenitore di pelle per due sigari, una scatolina dove si trovava anche un vecchio sigaro bruno e secco con la fascetta di una marca francese che non avevo mai sentito, Voltigeurs, mentre la busta, più grande, era arrotolata intorno al contenitore, così, tenuta insieme con due lacci di cuoio che hanno tutta l’aria di stringhe per scarpe e avvolta in questo fazzoletto. È vero quanto vi ha detto mia figlia Teresa. Volevo calmare un po’ mia moglie, teneva talmente a quella sua vecchia bambola. Era un ricordo della sorella, che è morta giovane, di leucemia, e la teneva sul letto durante la fase finale della malattia. Il padre l’aveva comperata credo all’asta di un antiquario, insieme all’arredo di un intero appartamento, era antiquario anche lui e aveva combinato un buon affare con il collega che aveva ceduto l’attività. Era poi andato tutto venduto, salvo un quadro e quella bambola, rimasti in casa. L’origine della bambola è quella, cioè è come è arrivata fino a noi, una specie di reliquia. Teresa la capisco, la vedeva come un giocattolo ma impossibile da giocarci, e poi, lo dico anch’io, le bambole di una volta avevano quell’aria strana, un po’ macabra, a volte fanno paura. Certo, farle fare la fine di Maria Antonietta è altrettanto strano, ma le bambine d’oggi sono così. Dolcissime e poi a un tratto tirano fuori le unghie, come piccole tigri. In realtà, è stata credo l’unica volta che ha giocato con quella bambola. Reginadifrancia, sì, l’avevamo ribattezzata così, prima credo fosse Esmeralda, o qualcosa del genere. La lettera, dicevamo. Scritta a mano, credo con una stilografica, su una carta fine, elegante, ma in parte rovinata dall’inchiostro e da qualche macchia. Era difficile da decifrare, dopo la data, scritta all’inglese, 26 luglio, l’inizio «Dear Lucy» e la prima riga con gli auguri per il settimo compleanno della bambina non sono riuscito a leggere quasi niente. La calligrafia era minuta, non facile da interpretare. «Doll», «book», «cake», «flower», «shell», forse «home», «pencil», «heart», «smiling». Nient’altro, nemmeno una frase completa. Anche la firma è confusa, uno svolazzo, forse soltanto una «D», «daddy». E in fondo, «Trieste 1914».
Ho pensato subito di chiedere un parere a Willy Davidson, il mio professore d’inglese al corso estivo dell’Università di Cambridge che avevo frequentato per la mia ditta. Sì, mi occupo di compravendite immobiliari per manager all’estero e con Willy avevo fatto amicizia, era un simpaticissimo compagno di bisbocce al pub oltre che un ottimo insegnante. Ma era in vacanza e prima di riuscirlo a contattare ho fatto vedere la lettera al padre di una compagna di scuola di Teresa, Enzo Benzi, un super esperto di filatelia. I francobolli sono una cosa e le lettere un’altra, è ovvio, ma anche Teresa ha pensato a lui per decifrare il testo, visto che ha l’occhio per queste cose, occhio e attrezzi, sapete, come quelle lenti d’ingrandimento molto potenti. Gli sono bastate infatti un paio di sere per completare il lavoro: «This is a doll for your 7th birthday, she was born from a new book I wrote, you’ll read it later, and she carries you a cake I cooked with cream, tea and a kind of rose – but, oh, I must stop, the receipt is from king and a top secret of war! – … So it cannot be ruled out your hungry doll has eaten it before you. But will you not open her belly to take it out, will you? She is not a shell, I am quite sure. Not open then before I’m back home to you. I send you a box of pencils, too, so if the doll has eaten your cake, you can sweeten your heart drawing another cake, and we’ll cook it together for Easter. I don’t know the doll’s name, it is to you to find a name for her, so she stop being sad e she’ll be forever smiling.»
«È la lettera di un papà inglese che nel 1914 ha regalato questa bambola alla figlia Lucy per il suo settimo compleanno», mi spiegò quando mi lesse al telefono il testo. Voleva anche tradurmela, ma so abbastanza l’inglese per capirlo da solo. La lettera era datata «Trieste, 26 luglio», il giorno del compleanno. Era stata spedita con la bambola? Dove era arrivata? In Inghilterra? La frase «è un segreto di guerra» mi fece pensare alla Prima Guerra Mondiale, tanto che controllai sull’enciclopedia: l’attentato di Sarajevo era stato il 28 giugno e due giorni dopo la lettera sarebbe arrivata la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, inizio ufficiale del conflitto. Ho pensato che questa coincidenza aumentava forse il valore della lettera, e magari della bambola. Una piccola festa di famiglia all’inizio della gigantesca tragedia. Non avevo pensato ad altri collegamenti, certo mi chiedevo chi poteva essere l’autore e come fare per scoprirlo, e anche chi era Lucy e che fine aveva fatto, ma in fondo non mi sembravano le cose più importanti. Era un documento intimo, anche commovente. Niente di più. Poi, una settimana dopo, mi ha chiamato Davidson. Gli ho mandato una email con il testo scannerizzato. E la settimana successiva Davidson era qui, seduto dove è lei. Con l’aria di un gattone che ha catturato un topo. Definirlo eccitato è dire niente. Si agitava, girava e rigirava la lettera tra le dita – ma per toccarla si era infilato i guanti – come una santa reliquia. Guardi, io ho letto da ragazzo qualcuno dei racconti di Gente di Dublino, non tutti per la verità, soltanto per la scuola. Dell’Ulisse non sono andato oltre la prima metà della seconda pagina. Che fosse una lettera di James Joyce non sarei mai arrivato nemmeno a sfiorarne l’idea. E sinceramente non mi scaldavo più di tanto, ammetto l’ignoranza. Willy invece parlava di scoperta storica. Il perché ve lo avrà spiegato lui, immagino.
Willy
Subito, l’ho pensato subito. Quando ho letto la copia scannerizzata sul computer e poi l’ho stampata, leggendo «Trieste», «Lucy» e quanto diceva la lettera, l’associazione mentale a James Joyce è stata immediata. Naturale. Insegno inglese ai top manager da una dozzina d’anni, ma conosco bene la letteratura. Conosco molto bene Joyce. Nel luglio 1914 viveva a Trieste. Lì era nata sua figlia, avuta da Nora Barnacle, nel 1907. Che quindi aveva sette anni come la Lucy della lettera, che era anche il nome della figlia. Proprio in quel periodo, nel giugno 1914, fu pubblicata la raccolta di Dubliners e forse è il libro al quale si riferisce nel testo. Sempre che non parli dell’Ulysses, che iniziò pure quell’anno. Ho subito dato un’occhiata alla calligrafia di Joyce, in alcuni testi disponibili in rete, e mi è parsa coincidere. Ho subito preso tre giorni di permesso, sono salito sul primo volo per l’Italia e mi sono precipitato a vedere la lettera. Per me, era certamente di Joyce. Per quanto incredibile fosse la scoperta, doveva essere così. Una lettera di Joyce in una bambola! E non una, ma un plico di lettere. Avrei volute aprirle subito, ma il mio amico Michele ha fatto bene a impedirmelo. Per prima cosa, dovevamo accertare l’autenticità della lettera che avevamo in mano. E affidarci a un esperto. Secondo, la moglie di Michele, Laura, ha ereditato il fiuto di antiquario del padre e ha suggerito di procedere con la massima cautela per non intaccare il valore del reperto, che dovevamo preservare il più possibile nelle condizioni in cui l’avevamo trovato. Ho allora coinvolto Jeff Looms, un bravissimo grafologo del dipartimento di psicologia applicata al management, un collega e anche un amico, al quale ho messo a disposizione la lettera. E l’ho messo in contatto con le Fondazioni Joyce di Dublino, di Zurigo e con quella italiana, che ha sede all’Università di Roma Tre. La relazione di Looms ha messo fine anche agli ultimi dubbi: James Joyce ha scritto quella lettera. È la sua mano, la sua scrittura, il suo inchiostro, la sua penna.
Nel frattempo, ho letto e riletto quel testo, ci ho pensato sopra molti giorni e molte notti. E ho concluso che parlava del contenuto della bambola. Cioè le altre lettere, o gli altri documenti, perché non era sicuro di cosa si trattasse esattamente. Joyce le aveva nascoste lì dentro, in ogni caso, per qualche motivo. Era anche chiaro che né la lettera né la bambola erano state spedite: la bambina viveva con Nora e il padre, nella città allora austriaca. Qualcuno, oltre a Lucy, aveva dovuto leggere quella lettera, poi aveva letto ciò che era contenuto nella bambola, svitando la testa, aveva aggiunto la stessa lettera infilandola nel portasigari – e forse era stato Joyce stesso – aveva legato attorno l’altra busta, sigillata, e aveva richiuso l’insospettabile portadocumenti, giunto intatto – quasi certamente – fino alle mani di Teresa. Perché? A quel punto, ho esaminato con attenzione il portasigari. Il sigaro-reliquia della marca preferita di Joyce. Strana anch’essa, però, non facile da trovare a Trieste. Presi con delicatezza il sigaro e mi accorsi che non si trattava affatto di un sigaro: era un foglio scuro, di carta color tabacco, avvolto attorno a un biglietto. Il biglietto portava un timbro sbiadito con un drago sormontato da una corona sopra un cancello e la scritta «Regnum Defende». Era una specie di tesserino, un documento di riconoscimento ma privo di fotografia, con il numero «I-1712» intestato a «Italo Sangiorgio, insegnante, nato a Londra il 2 febbraio 1882, indirizzo via Bramante 4, Trieste». Era la data di nascita di Joyce. Che però era nato a Dublino. Anche l’indirizzo corrispondeva alla casa effettivamente abitata tra il 1912 e il 1915. Ignoravo il significato dell’emblema del timbro. Sul retro, in minuta calligrafia erano scritti di seguito alcuni versi: «I hear an army / A Flower given to my Daughter / Go seek her out». Li riconobbi come gli incipit di tre poesie dello scrittore irlandese. Qualche giorno dopo, scoprii l’origine del timbro: quel simbolo e il motto erano dell’Mi5, il servizio segreto di Sua Maestà. Da quel momento, ho consigliato all’amico Michele di mettere tutto nelle mani di un legale e di valutare cosa fare. La mia parte in questa storia si è conclusa in quel momento e con quel consiglio, che mi risulta essere stato seguito. Ecco, è tutto. So che Michele si è anche rivolto a un traduttore italiano di Joyce, che però non conosco.
Ludovico
Mio padre era il notaio del padre della signora, la conosceva fin da piccola, e io ho continuato ad assistere la famiglia, oltre a frequentarla come amico. Quando mi hanno parlato della scoperta della bambola, di Joyce, delle lettere, dei servizi segreti, sulle prime ho suggerito di offrire il tutto alla fondazione intitolata allo scrittore. Poi, tuttavia, ho approfondito la questione e mi sono reso conto, soprattutto dopo l’incontro con il professor Dossi, esperto e traduttore di varie opere dello scrittore, che poteva essere la classica manna dal cielo per la povera ragazza. Già, un miracolo: in quella bambola Teresa poteva avere trovato la chiave per aiutarla a pagare il costoso intervento chirurgico negli Stati Uniti necessario a darle la speranza di sconfiggere la rara malattia da cui era afflitta, la Charcot-Marie Tooth. Con l’aiuto di qualche giornale e di una rete TV abbiamo lanciato così l’asta di beneficenza per i documenti dell’agente segreto James Joyce, irlandese che sembrava avere tradito la causa della sua terra per mettersi al servizio degli occupanti. L’eco è stata enorme, come è noto, ben oltre le previsioni di tutti noi. Qualcuno ha parlato di montatura, ma non è così. La scelta di mantenere chiuso il plico delle lettere fino all’assegnazione all’acquirente è stata discussa molte volte, ma sempre si è concluso che era la soluzione migliore per alzare il livello di attenzione, questo sì. L’obiettivo era ricavare la somma maggiore possibile per un viaggio della speranza del costo di centinaia di migliaia di dollari. Ci siamo riusciti. I duecentomila raccolti sono stati davvero preziosi. L’acquirente, proprietario di una catena di villaggi turistici, di origini irlandesi, aveva ricevuto tutte le garanzie sulla autenticità dei documenti ed era sicuro di avere concluso un buon affare: quando le lettere sono state finalmente aperte, nell’ufficio romano di un collega e alla presenza di un docente universitario inglese e di alcuni giornalisti, l’effetto è stato infatti sensazionale. Le tre lettere erano illeggibili, una sequenza di parole senza senso apparente che coprivano fittamente sette fogli di carta sottile. Nel giro di una settimana, con l’aiuto di un esperto di crittografia, non fu tuttavia difficile decifrarle secondo il classico cifrario di Vigenère: la chiave, quella che tecnicamente si definisce il «verme», erano gli incipit delle tre poesie. Per ogni messaggio, era stata applicata la trasposizione alfabetica sulla base dei tre versi. «I hear an Army» indicava che le lettere delle parole in chiaro del primo testo dovevano essere sostituite con uno spostamento – secondo l’ordine alfabetico inglese – di 9, 8, 5, 1, 18, 1, 14, 1, 18, 13 e 25 posizioni, ripetendo quindi la serie. Idem per gli altri due messaggi, dove «A Flower given to my Daughter» serviva a cifrare una traslitterazione di 1,6,12… posizioni, e «Go seek her out» di 7, 15, 19 e così via.
La prima lettera conteneva una lista di collaboratori filo-inglesi a Trieste, compresi diversi intellettuali, giornalisti e scrittori tra i quali Italo Svevo, una di agenti segreti serbi – forse partecipi della cospirazione antiasburgica della Giovane Bosnia di cui faceva parte l’attentatore di Sarajevo, Gavrilo Princip – e una di alcuni sospetti doppiogiochisti. Nella seconda, erano riportati i movimenti navali militari osservati nel porto durante due settimane. La terza, infine, era una sorta di indirizzario degli appartamenti utilizzati come rifugio da alcuni indipendentisti irlandesi, a Dublino, Belfast e Cork, oltre ai loro nomi di copertura. Tre lettere, tre bombe nucleari.
Joyce si rivelava un informatore di Londra, con il nome in codice Italo – lo stesso pseudonimo del suo amico Ettore Schmitz, alias Italo Svevo – e di Sangiorgio, il patrono inglese. Lo scrittore passava dunque all’Mi5, di cui faceva parte, notizie riservate sulle trame anti-austriache, sui movimenti navali militari nel porto di Trieste ma anche informazioni su combattenti repubblicani irlandesi. Come era possibile? Molti si indignarono. Qualche biografo affermò di non sorprendersi più di tanto e spiegò che evidentemente Joyce in quel periodo aveva un gran bisogno di denaro e aveva ceduto a evidenti pressioni, forse a qualche ricatto. Le sue opere non avevano successo, forse erano state pubblicate con l’aiuto dello stesso spionaggio inglese. A quanto si desumeva dalla prima lettera, anche la moglie Nora era nel giro di spie disseminate nei confini austro-ungarici alla vigilia dello scoppio della guerra.
Sì, certo, tre lettere, oltre alla prima, più una tessera, potevano essere poche per dimostrare una tesi che ha scatenato le polemiche più feroci all’interno del mondo letterario e non soltanto. Il blocco dei documenti, più la bambola, è in seguito passato di mano tre volte, sempre a cifre molto più alte dell’acquisto precedente. Grazie alla clausola che avevo fatto inserire nel contratto, alla causa di Teresa sono arrivati da quelle due vendite successive altri ottantamila dollari. Soltanto a quel punto, la trama ha cominciato a sfilacciarsi, con la denuncia per falso da parte della Fondazione Joyce svizzera, seguita da tutte le altre. A quanto pare, nessuno dei loro esperti era mai stato contattato o, se era avvenuto, nessuno lo ammise. Un giudice inglese ha ordinato il sequestro dei documenti, iniziativa seguita anche
dalla magistratura italiana che ha preteso nuove perizie calligrafiche e analisi. Il problema è che bambola e documenti sono probabilmente finiti in Russia, o forse addirittura in qualche emirato. Rintracciarli, veri o falsi che siano, ora sarà difficile. Autentico è invece il miracolo prodotto da quella bambola decapitata. Grazie a lei e al sospetto agente segreto James Italo Joyce, la piccola Teresa sta per essere operata, è già ricoverata e l’intervento è fissato tra una settimana.
Gianni
Ho tradotto Joyce per sette anni. L’Ulisse. Soltanto uno di meno del viaggio da Troia a Itaca, ma quanto l’intera durata della sosta da Calipso. E prima dell’Ulisse, altre opere, ma soprattutto posso dire di avere frequentato – come un amico – James Joyce per una vita. Mi sono laureato a Bologna con una tesi su di lui, penso di conoscerlo a fondo, non meno di molti suoi biografi, da Richard Ellmann a Gordon Bowker. Quando ho sentito della scoperta della bambola, le lettere ritrovate, poi la storia dello spionaggio, sono saltato letteralmente sulla sedia. Non è possibile. Non ci credo. L’ho detto subito. A tutti quelli che conosco. È una storia fin ridicola per chi conosce bene la vita di James Joyce. Potevano essere documenti con tutti i crismi, carta, grafia, timbri eccetera. Ma non potevano che essere falsi. Come i diari di Hitler, come quelli di Mussolini. Ma ancora di più era chiara la manipolazione. E poi, quando ho letto sul giornale il testo della letterina alla figlia, mi sono accorto improvvisamente di quella banalità, di quella svista ancora più incredibile della messa in scena. Chi ha montato questo imbroglio non conosceva affatto Joyce; per agire con tanta superficialità doveva essere un grande esperto di contraffazioni materiali, tecniche, ma un ignorante di storia della letteratura. Come spiegare altrimenti quel «Dear Lucy»? Lucy? La figlia di Joyce non si chiamava Lucy, si chiamava Lucia. In italiano, certamente. Era nata a Trieste e non solo era stata battezzata con un nome italiano, ma soprattutto – altra svista madornale del contraffattore – con suo padre parlava e scriveva in italiano. Al magistrato che è venuto a interrogarmi ho esposto qualche personale sospetto su alcune delle persone indagate. Una, in particolare. Naturalmente non faccio nomi, l’inchiesta è in corso. I documenti sono stati sequestrati e le analisi hanno dimostrato che sono stati realizzati al massimo un paio di anni fa. Da chi? L’idea di tradurre in inglese qualcosa che non lo era in origine, un nome proprio, e scrivere in inglese una lettera che avrebbe dovuto essere in italiano, mi sembra l’errore tipico di un falsario intellettuale. Che ha imbastito una favola, ma ha peccato d’eccesso di zelo, per così dire. Forse è inglese, forse italiano. Non dico altro. Ma il suo trucco ha servito una buona causa, a quanto leggo: quella bambina è stata operata con successo, potrà vivere. Allora, meglio così. Meno male che la sua Lucy Joyce, la sua traduzione patacca, non è stata smascherata prima…
“La bambola di Jooyce” fa parte della raccolta di racconti “Lezioni di lingue” di Federico Bianchessi. Pubblicata in eBook dalla casa editrice digitale Matisklo Edizioni, è disponibile nelle principali librerie on-line. Si tratta di di dodici racconti il cui tema portante è l’incontro tra lingue differenti, antiche e moderne, morte e vive, scritte e parlate, in un vortice che abbraccia il dialetto, lo slang, la poesia e il canto. Al centro del libro la figura del traduttore, vero e proprio protagonista del libro, in quanto “ogni racconto non esiste in quanto racconto: è un’invenzione, uno stratagemma, una macchina narrativa, che ruota attorno a un interrogativo. Come può una lingua confrontarsi, accordarsi, contrastare con un’altra? Molti temi, grazie al pretesto della narrazione, sono evidenziati: traduzione, tradimento, invenzione, incrocio, isolamento, malinteso.” (dalla prefazione di Marco Ercolani).
Federico Bianchessi, milanese, nato nel 1956, dopo la laurea in Lettere alla Cattolica svolge la carriera di giornalista in diverse testate a Milano (Il Mondo, Il Giornale, diretto da Indro Montanelli), Roma (La Voce, sempre con Montanelli, L’Indipendente), Brescia (BresciaOggi) e Varese (La Prealpina) dove attualmente risiede. Appassionato di musica classica, è collaboratore del mensile Musica. Ha pubblicato diversi racconti (raccolta Incartesimi, Nicolini Editore), vincendo alcuni premi, un romanzo storico (Un tetto alla Scala, Zecchini Editore), un saggio politico (Cuore e Regione, Lativa) e nel 2014 la biografia Gianni Caproni, una storia italiana (Macchione Editore).