MARGHERITA PASTORINI
La cometa brillava grandissima nel cielo e a Margherita non faceva più paura. La prima sera in cui era apparsa ai suoi occhi di bambina, mentre ancora si stava attardando a chiudere la stalla, nel borgo così silenzioso e infreddolito dal primo gelo autunnale, si era spaventata ed aveva temuto che una catastrofe incombesse sul suo mondo. Adesso l’ammirava, con la sua lunga coda rivolta verso est, e nonostante le dicerie di paese la giudicava bellissima, un fenomeno stupefacente al quale aveva avuto il privilegio di assistere, un segnale per il suo cuore. Certamente una cometa non poteva essere un evento nefasto, se appena diciannove secoli prima proprio essa aveva annunciato la nascita di Gesù. Margherita si lavò le mani alla fontana di pietra e quindi rientrò in casa, dove iniziò ad aiutare per la cena. Lei era l’ultima di nove fratelli e la famiglia, che era povera ma non misera, aveva bisogno del lavoro di ognuno. Di mattino la bambina frequentava la quinta elementare a Susa, nel pomeriggio, dopo aver portato il pranzo alla sorella in fabbrica, badava al pascolo delle capre, puliva il pollaio e cercava le uova, aiutava a cogliere frutta e verdura, quand’era stagione, e ogni tanto riusciva a ricavare qualche ritaglio di tempo per lo studio o per il gioco.
Niente a che vedere con i giochi d’oggi, Margherita non aveva giocattoli nel senso proprio del termine. Lei e gli altri bambini si divertivano a salire sugli alberi, a rubare qualche frutto ai vicini, a scalare le paretine di roccia, per approdare su lunghi pianori rocciosi, onde di pietra modellate dai ghiacciai quaternari, oppure giocavano a fare costruzioni d’argilla e praticavano una specie di baseball con ciocchi di legno e bastoni. Non credo che possedessero una palla, sicuramente non avevano biciclette. Alle volte scendevano al torrente e facevano rimbalzare i sassi più piatti sulla superficie dell’acqua. In autunno c’erano i funghi da cercare, castagne e noci da raccogliere, mondare e conservare. Margherita si diceva che avesse l’argento vivo addosso, che avrebbe ballato in cima ad un comignolo.
Quando percorro, nelle mie passeggiate solitarie, le stradine di montagna, e attraverso le borgate ormai completamente disabitate, dove spesso le case, alle quali non è più stata fatta alcuna manutenzione, sono quasi crollate, e i prati che un tempo erano pascoli curati adesso sono radure incolte provo sovente ad immaginare come dovevano essere diversi questi luoghi solo pochi decenni prima, con i bambini che scorrazzavano a perdifiato tra le case adesso in rovina, e i camini da cui usciva il fumo aromatico della legna, e l’odore delle stalle e del latte fresco di mungitura. Nei giorni della mia infanzia le donne della casa, donne d’ogni età, nei pomeriggi d’estate, sedevano insieme nel cortile davanti a casa, lavorando: rammendavano i vestiti o mondavano le verdure, parlavano, parlavano, raramente stavano in silenzio, spesso litigavano.
Non era divertente stare in questa compagnia, per me bambina, ma era rassicurante. Ora penso a questi momenti con gratitudine, i frammenti di vite passate che sono arrivati fino a me li considero un regalo. Ascoltavo i pettegolezzi come fossero favole, seguivo i discorsi dei grandi e anche i miei pensieri, ogni tanto svolgevo qualche commissione, ma combinavo poco, non dimostravo alcun talento per i lavori femminili, l’unica cosa che adoravo era lavare i panni alla vasca in pietra, a mano, con il sapone di Marsiglia.
Mi ricordo di quando aiutavo a raccogliere il mais e le patate, alla gioia che si provava a ripulire dalle brattee o dalla terra quei piccoli tesori saporiti, che magicamente si trasformavano nelle nostre mani: giallo intenso e arancione le pannocchie dentro alle foglie ormai secche e ingiallite, tondi, umidi e bitorzoluti i tuberi ripuliti. Di pomeriggio qualche volta si andava nei boschi e mia mamma confezionava con le foglie di castagno cucite con frammenti di steli secchi di graminacee, usati come aghi, cinture, bandoliere e copricapo da guerrieri sioux, preziosi e fragili. Era una festa, allora, fare merenda con pane e marmellata e poi correre tra gli alberi e lanciarsi in ardite arrampicate sui frassini e sui noci più bassi, ci macchiavamo le mani con il mallo e poi rompevamo i gusci con le pietre, e gustavamo i frutti ancora umidi e verdi, con la pellicina che era facile staccare dal seme. Eppure faccio fatica a rappresentarmi una vita tanto diversa dalla mia d’oggi, un’esistenza senza orologio e cellulare, con poca acqua calda e la corrente elettrica misurata, la luce sempre fioca, quando per telefonare si andava al posto pubblico e la televisione, ancora giovane, era quasi sempre spenta. Nonostante la forza e il senso di pace connesso a questi ricordi mi è quasi impossibile ritornare con la memoria ai pomeriggi trascorsi a giocare a carte, o a guardare il temporale seduti sui gradini di pietra, all’ingresso di casa, e a tutte le serate passate sotto la pergola di uva americana a scambiarsi parole e opinioni, a cercare di scoprire, gioco appassionante e un po’ trasgressivo, i pensieri ed i sentimenti dell’altro, la sua visione del mondo, il suo credo e le passioni profonde.
Mi chiedo come potrebbe vivere nel mio presente tanto frettoloso e tecnologico la piccola e vivace Margherita dagli occhi blu come il cielo, mia nonna.
Questo pezzo fa parte dell’Officina Narrativa del laboratorio di scrittura creativa ISPIRAZIONE e COSTRUZIONE, tenuto presso l’Associazione Culturale La Meridiana Tempo di Mondovì.