DORA BRUDER SONO IO
GABRIELLA MONGARDI.
Patrick Modiano in questo romanzo sembra attenersi strettamente alla legge enunciata da Manzoni nella lettera a Fauriel del 29 gennaio 1821: “La relazione semplice e nuda dei fatti conserva […] negli uomini un fascino così immediato, che li disamora di tutte le invenzioni poetiche che vi si volessero mescolare, e anzi le fa apparire ingenue e puerili”. Nessun altro suo romanzo è così scarno e freddo come questo: capitoli brevi, suddivisi in paragrafi a volte brevissimi, con salti netti tra l’uno e l’altro, sia nello spazio che nel tempo: faticosissimo rintracciare un filo conduttore, una ‘storia’. Siamo al limite del documento burocratico, del verbale, dell’epicrisi. Con una sola differenza, la dimensione autobiografica, il racconto in prima persona. Per di più, il narratore che dice ‘io’ in Dora Bruder è l’autore stesso, non un suo alter-ego.
E questo ovviamente cambia tutto, introduce subito un altro piano di lettura: viene da chiedersi infatti perché un autore, che abbiamo conosciuto così schivo e reticente, qui abbia deciso non solo di narrare la sua ricerca negli archivi – reali e metaforici – sulle orme di Dora, ma anche di mettere in scena le ragioni profonde della sua scrittura. Viene addirittura il dubbio che in realtà sia tutto ‘invenzione’: il trafiletto di Paris-Soir del 31 gennaio 1941 con cui si apre il romanzo, la ragazza ebrea che gli dà il titolo, tutti gli altri documenti e uffici che vengono scrupolosamente citati… Invenzione nel senso più alto e nobile del termine, s’intende: quello per cui, nei grandi libri, la ‘finzione’ è più vera del vero e permette di dire cose altrimenti indicibili, in questo caso di tentare “un’impresa impossibile ma indispensabile: tenere vivo il legame con l’orrore del nostro passato recente” (Le Monde). La ragione per cui a Modiano è stato assegnato nel 2014 il Premio Nobel per la Letteratura: “Per l’arte della memoria con cui ha evocato i più inafferrabili destini umani e svelato la vita quotidiana ai tempi dell’Occupazione”.
Dora Bruder fa tutto questo, ma non solo. Ci dà anche un ritratto dello scrittore Modiano, un ritratto di “artista da giovane”. Modiano dichiara infatti di aver scritto a ventidue anni il suo primo libro, La Place de l’Étoile, per “rispondere per le rime una volta per tutte” a coloro i cui insulti antisemiti l’avevano ferito per via di suo padre, perché aveva fatto sua l’angoscia che doveva aver patito lui durante l’Occupazione. E altre angosce emergono, come quella – intollerabile – per la “vita di caserma” vissuta “nei collegi dagli undici ai diciassette anni” – un’angoscia che lo accomuna a Dora, che a 15 anni era fuggita dal collegio soltanto per essere deportata ad Auschwitz, nove mesi dopo, e scomparire per sempre. Annota Modiano, ripensando a scrittori come lui, vittime della guerra: “Ci si chiede perché la folgore abbia colpito loro e non altri, come se alcune persone dovessero fare da parafulmine perché altre venissero risparmiate”. E ancora: «Altri, come lui, appena prima della mia nascita, avevano patito pene di ogni sorta per consentire a noi di provare soltanto piccoli dispiaceri». Da questa consapevolezza di un debito incolmabile con il passato – e di una colpa che ricade inevitabilmente anche sui figli – nasce la scrittura di Modiano, che “sotto la spessa coltre di amnesia” cerca, come può, di cogliere “un’eco lontana, soffocata” di quegli anni: «Era come trovarsi all’orlo di un campo magnetico, senza pendolo per captarne le onde». Con la sua impassibilità solo apparente, increspata da profonda pietas, la scrittura cerca di risarcire i danni della Storia, muovendosi “da ieri a oggi”, ma anche da oggi a ieri, nella sensazione illusoria che “il corso del tempo sia sospeso, e che basti insinuarsi in quella breccia per sfuggire alla morsa che ci si sta chiudendo addosso”.
P. Modiano, Dora Bruder, Gallimard, Paris 1997 (trad. it. Guanda 19981, 20144)
QUI la recensione di un altro romanzo di Modiano