ATTILIO IANNIELLO
Il progetto Tatawelo
Il 1° gennaio 1994 migliaia di indios di origine Maya occupavano sette capoluoghi municipali dello Stato del Chiapas dichiarando guerra al governo centrale messicano. Le rivendicazione promosse da questo esercito indigeno (EZLN, Ejercito Zapatista de Liberación Nacional) facevano capire al mondo intero che si trattava di un movimento politico che apriva nuove prospettive di sviluppo sociale ed umano per le diverse etnie maya. Le ragioni di questa insurrezione, tra l’altro, erano:
«1. La fame, la miseria e l’emarginazione che abbiamo patito da sempre. 2. La carenza totale di terra dove lavorare per sopravvivere. 3. La repressione, la deportazione, il carcere, le torture e gli assassinii come risposta del governo alle giuste richieste dei nostri popoli. 4. Le insopportabili ingiustizie e violazioni dei nostri diritti umani come indigeni e come contadini impoveriti. 5. Lo sfruttamento brutale che patiamo nella vendita dei nostri prodotti, nella giornata di lavoro e nell’acquisto dei beni di prima necessità. 6. L’assenza di tutti i servizi indispensabili per la grande maggioranza della popolazione indigena. 7. Le menzogne, gli inganni, le promesse e le imposizioni dei governi da più di settant’anni. la mancanza di libertà e di democrazia per decidere i nostri destini…» [1].
Iniziava quindi una lotta per costruire nella società civile, ed in particolare nelle comunità indigene del Chiapas, una democrazia dai tratti ben più profondi «della periodica elezione di rappresentanti investiti di potere che decidono in nome degli elettori. E ciò perché gli esseri umani, i loro sentimenti e bisogni più profondi, non sono rappresentabili e soprattutto perché esiste la necessità di inventare, produrre o generare una politica democratica che porti i più vasti settori della società a prendere in mano il proprio destino, imparando ad autogovernarsi» [2].
In effetti uno degli aspetti più interessanti della proposta politica, sociale ed umana degli zapatisti è proprio il concetto dell’autogoverno: ogni comunità del Chiapas nomina le autorità locali e i delegati degli oltre quaranta municipi. Questi ultimi sono riuniti in cinque Caracoles (letteralmente: chiocciole) sedi delle Giunte di Buon Governo zapatiste.
I rappresentanti (promotori) sono gratuitamente al servizio della comunità che ovviamente si fa carico della loro alimentazione: «Abbiamo formato i nostri promotori e promotrici di salute, riscattando le conoscenze dei nostri anziani sulle piante medicinali e la storia del nostro popolo. Abbiamo costruito l’altra educazione, perché i maestri del governo si assentavano sempre ed erano interessati solo al loro stipendio, mentre il nostro popolo rimaneva ignorante. Grazie all’appoggio dei fratelli e delle sorelle solidali, abbiamo aperto cliniche, scuole, laboratori e venduto i nostri prodotti» [3].
Una delle principali colture delle comunità indigene del Chiapas è il caffè ed è proprio su questo prodotto che a livello internazionale si è creata una rete di commercio equo e solidale.
In Italia questa rete è rappresentata dall’Associazione Tatawelo, costituitasi ufficialmente a Firenze nel 2005 con lo scopo di «1. Promuovere un’economia solidale, rispettosa dei diritti dei produttori, dei consumatori, dell’ambiente e mettere in pratica forme di finanza etica. 2. Creare le condizioni per interazioni e scambi di esperienze tra i produttori del Sud del Mondo in modo da innescare un processo di sviluppo autonomo che non dipenda da aiuti esterni. 3. Promuovere il principio di trasparenza e di tracciabilità dei prodotti».
L’associazione promuove in Italia la commercializzazione del caffè prodotto da tre cooperative, la Ssit Lequil Lum (che in lingua Tzeltal significa “I frutti della Madre Terra”), la Yachil Xojobal Chulchan (che in lingua Tzotzil significa “Nuova Luce del Cielo”) e, in Guatemala, la Nueva Esperanza, attraverso il Progetto Tatawelo. Tra i volontari dell’associazione che diffondono la conoscenza del progetto particolarmente attivi nel Nord-Ovest d’Italia troviamo Dulce Chan Cab e Walter Vassallo.
«Diciotto anni fa, attratto da quanto la rivoluzione zapatista stava realizzando, sono andato in Messico a visitare il Chiapas», racconta Walter Vassallo. «In quell’occasione conobbi Dulce, me ne innamorai e ben presto divenne mia moglie venendo a vivere in Italia. Con lei ho approfondito l’amore per la cultura messicana e in particolare per la cultura indigena maya».
Dulce Chan Cab, nativa dello stato messicano dello Yucatan e discendente dei Maya, ama parlare della sua antica cultura: «Nonostante che per oltre cinquecento anni il mio popolo abbia subito, e subisca ancora, un colonialismo sociale e culturale, i fondamenti della cultura Maya resistono non solamente nella lingua ma anche nel tramandarsi di padre e madre in figli l’amore per la Madre Terra, la capacità di vivere in modo solidale la comunità; su questi aspetti che fanno parte del Dna degli indigeni, hanno lavorato i zapatisti promuovendo l’attuale democrazia indigena».
Anno dopo anno Walter e Dulce hanno avuto modo di conoscere sempre meglio l’Associazione Tatawelo coinvolgendosi nella sua attività:
«Quando iniziammo a lavorare per l’associazione la tostatura del caffè veniva fatta all’interno del progetto “Pausa cafè” che coinvolgeva alcune persone all’interno della Casa Circondariale delle Vallette di Torino; ora il caffè viene tostato a Diano d’Alba», continua Walter Vassallo. «Una svolta nel nostro impegno in Tatawelo è avvenuta tre anni fa quando Francesca Minerva, che fino ad allora andava ogni anno in missione tra i produttori di caffè del Chiapas, ha dovuto seguire un progetto solidale in Perù. L’associazione ha chiesto quindi a me e a Dulce di prendere il suo posto. Siamo quindi andati nelle comunità proprio nel periodo in cui gli zapatisti avevano promosso l’Escuelita, una realtà di condivisione che offriva a chi partecipava una conoscenza di quanto avevano fatto nell’ultimo ventennio a favore dell’autonomia degli indigeni, come avevano organizzato la scuola, l’economia, la sanità, come avevano fatto prendere coscienza alle donne dei propri diritti. Inoltre si lavorava fianco a fianco dei coltivatori».
Il racconto prosegue parlando della Cooperativa Ssit Lequil Lum, promossa da un gruppo di coltivatori che erano stanchi di sottostare ai prezzi proposti da mediatori senza scrupoli (cojotes) ed hanno capito che mettendosi insieme potevano costruire un futuro migliore per se stessi e la loro comunità. In questo percorso, oltre al movimento zapatista, i contadini del Chiapas potevano contare sull’appoggio del DESMI (Desarrollo Económico y Social de Los Mexicanos Indígenas), organizzazione fondata nel 1969 da monsignor Samuel Ruiz García, vescovo di San Cristobal De Las Casas, e da Jorge Santiago.
Dulce e Walter parlano anche del progetto “Bodega”, ossia l’ammodernamento di una struttura esistente per trasformarla in luogo dove immagazzinare e in un futuro prossimo tostare il caffè prodotto.
Quest’ultimo progetto però è attualmente sospeso a causa di un’emergenza fitosanitaria: «Ultimamente dal sud del Messico si è diffuso un fungo, la roya (Hemileia vastatrix), che fa seccare la pianta impedendo al frutto di raggiungere la maturazione», spiega Dulce. «Per aiutare i coltivatori, che producendo in modo biologico non vogliono usare pesticidi chimici, durante una nostra missione in Chiapas sono andata all’Università di Agroecologia di Città del Messico per vedere se si riusciva a trovare una soluzione biocompatibile. In effetti si sono trovati dei microorganismi antagonisti della Hemileia vastatrix, tra il resto facilmente riproducibili. Oltre a questo intervento, si è dato al terreno tutto il concime naturale necessario con l’aggiunta di EM (Microorganismi Efficaci)».
Questa lotta biologica che le comunità zapatiste del Chiapas promuovono, si scontra con la volontà del governo centrale messicano che propone ai coltivatori di sostituire le piantagioni di caffè infettate dalla Hemileia vastatrix con ibridi, che a detta dei coltivatori stessi non solo non sono adatti al clima del Chiapas ma possono produrre due forse tre anni, poi si devono riacquistare, creando nuove forme di dipendenza. Inoltre si promuovono pesticidi chimici molto più costosi dei microorganismi che si possono riprodurre autonomamente. Molti denunciano che dietro alla diffusione degli ibridi e dei pesticidi ci siano interessi di multinazionali del caffè, che mal sopportano l’autonomia dei produttori del Chiapas.
L’Associazione Tatawelo, per far fronte a questo problema fitosanitario, ha promosso il progetto ASTER (Azione Solidale Tatawelo Emergenza Roja).
Walter Vassallo e Dulce Chan Cab sottolineano che il rapporto Italia-Chiapas gestito dall’Associazione Tatawelo non è fonte di una solidarietà a senso unico; sarebbe più corretto parlare di rapporto Italia-Chiapas-Italia, poiché l’esperienza degli indigeni ha molto da insegnare.
«Queste comunità insegnano che se tu vivi veramente in profondità il territorio dove sei nato e dove lavori, devi salvare la terra, salvare il paesaggio, la cultura. Il capitalismo neoliberista mira unicamente allo sfruttamento delle risorse, le persone delle comunità zapatiste vogliono al contrario salvare il territorio migliorandolo», dice quindi Dulce. «Queste comunità ci insegnano che c’è un altro modo di fare economia che non è finalizzato al profitto ma alla cura delle persone, alla dignità delle persone, al loro benessere integrale. Le comunità stanno testimoniando che si può vivere fraternamente, che si può lavorare insieme nella coltivazione del caffè, nell’allevamento degli animali, nella conduzione degli orti ecc. Insieme stanno sperimentando che possono costruirsi ciò che il governo centrale non gli assicurava: scuola, economia, salute e così via».
Walter e Dulce terminano rimandando alle parole del teologo Jorge Santiago sull’economia solidale:
«Nelle analisi del sistema capitalistico appare, come dice lo storico Wallerstein, che non può esserci ricchezza se non c’è povertà. Nell’economia solidale questo stesso concetto di interrelazione appare con un significato nuovo: non possiamo esistere se non esistono gli altri. Non possiamo separarci dagli altri. Dobbiamo avere la consapevolezza della globalità: il mondo e la società sono una globalità, come natura siamo parte della totalità, come società siamo parte della totalità e come responsabilità siamo parte della totalità, cioè abbiamo responsabilità della globalità. Questo è il principio fondamentale del processo di economia solidale, che risiede anche nella possibilità di realizzarlo. Diventa realtà quando c’è questa possibilità di realizzare un lavoro collettivo e comune nelle comunità, con la visione (per i produttori) che si sta partecipando alla costruzione di relazioni nuove e che il prodotto, per esempio, del caffè può essere legato a processi di solidarietà con altri mondi. È un processo che inizia nel momento stesso in cui si raccolgono i frutti e ci si prende cura della pianta del caffè e si sta pensando alla salute degli altri e non al guadagno…
Guardare questo mondo, [il Chiapas] e le alternative che stanno sorgendo in questo mondo ci può rendere felici »[4].
http://www.liberomondo.org/liberomondo/cms/home.html
Note
[1] Cfr. Giaccone Alessio, Forme di autogoverno e sistema economico-sociale delle comunità zapatiste in Chiapas, in “CIPEC, Centro di Iniziativa Politica e Culturale”, Quaderno n. 5, gennaio 2014, Cuneo, pag. 51.
[2] Cfr. Minerva Francesca, Camminare domandando, Bra (CN), s.d., Stampa a cura dell’Associazione Tatawelo e della Cooperativa Sociale LiberoMondo, pag. 13.
[3] Cfr. Minerva Francesca, op.cit., pag. 18.
[4] Cfr. Minerva Francesca, op.cit., pag. 36ss.