GABRIELLA MONGARDI.
Al poeta monregalese Remigio Bertolino il Premio di poesia “Giovanni Pascoli”
«San Mauro Pascoli, 30 luglio 2013 – Premio di poesia “Giovanni Pascoli”.
La giuria decide, a maggioranza, di conferire il premio a La fin dël mond (La fine del mondo). Poesie 2005-2011 (Pasturana, Puntoacapo ed. 2013) di Remigio Bertolino, con la seguente motivazione:
Con questa raccolta Remigio Bertolino si conferma come la voce più originale del cenacolo di Mondovì, che da una periferia alpina priva di tradizione letteraria ha dato vita a una delle più feconde fioriture di poesia del Piemonte novecentesco.
La nevicata della «Fine del mondo» del poemetto omonimo si ispira a un altro famoso poemetto di Raffaello Baldini, a conferma del dialogo intertestuale in atto tra autori di tradizioni regionali diverse. Per Bertolino quello strabiliante evento coagula una pluralità di significati. Il primo è la fine dell’infanzia, che alla magia della neve è collegata. E c’è la morte della madre, che nella neve si è accasciata. Ma subito dopo c’è la fine del mondo contadino, impersonato qui da Cichin, bracciante, favoloso narratore popolare, conoscitore di piante e di uccelli.
Tutta la raccolta echeggia dei suoni della montagna monregalese, le sue acque, il vento, gli animali, il dialetto colto sulla bocca di personaggi, che sembravano interpretare una metamorfosi, sullo sfondo dell’incessante evolversi della natura, e invece stavano celebrando solo la fine di un ciclo storico».
Mistero grande, la Poesia – come il vento, soffia dove vuole: questa volta ha fatto il nido tra Vicoforte e Montaldo Mondovì, dove Remigio Bertolino vive ed è nato, e ha scelto per esprimersi una lingua “in via di estinzione”, il dialetto monregalese nella sua variante montaldese, minacciato come tutti i dialetti dall’avanzare della lingua nazionale e della lingua internazionale. Ma è in situazioni “apocalittiche”, “alla fine del mondo”, che la Poesia fa sentire più forte la sua voce, suscita un suo “profeta”, cioè, alla lettera, uno che parla davanti al mondo. Remigio del profeta non ha certo la voluttà di trascinare le masse (è piuttosto schivo e ritroso), ma da maestro ha diffuso e diffonde la poesia nelle scuole, e come un profeta ha il fisico magrissimo dell’asceta, lo sguardo acuto di falco, una tensione interiore ben percepibile quando lo si incontra.
Remigio Bertolino ha iniziato a scrivere in dialetto negli anni Settanta con il racconto breve Mia mare (Mia madre); ha poi pubblicato vari libri di poesia: L’eva d’ënvern (Era d’inverno o L’acqua d’inverno) 1986; Sbaluch (Splendore) 1989; A lum ëd fiòca (A lume di neve) 1995; Ij sègn dl’Apocalisse (I segni dell’Apocalisse) 1998; Ël vos (Le voci) 2003; Stanse d’ënvern (Stanze d’inverno) 2006; e da ultimo La fin dël mond (La fine del mondo) 2013, il libro che oggi viene premiato.
Dice Bertolino della sua lingua: «Il mio montaldese è molto simile alla parlata di Mondovì, ma ha parole e forme più arcaiche, più agresti e montane. La scelta di un dialetto così circoscritto e arcaico (quello usato da mia nonna, una lingua aspra e pietrosa) era l’unica via percorribile; la lingua naturale era il mezzo più adatto a rappresentare le mie “neiges d’antan”. Far parlare i montanari, personaggi così stravaganti, isolati, marginali in italiano sarebbe stato un falso. La lingua li avrebbe imbalsamati in una patina retorica e allontanati per sempre da quel microcosmo definito da rigide leggi ancestrali, dove la natura è al centro della vita, una natura aspra, fredda, ostile come nei lunghi inverni quando la neve e il gelo assediano i gusci delle case». Ma la motivazione realistica non è quella fondamentale: la spinta profonda è di natura esistenziale. La sua è davvero una “lingua materna”:«il dialetto era come uno specchio in cui ricercarmi senza possibilità di menzogna. Era un pozzo che scendeva in uno spazio-tempo ricco di favolosi incanti. Ritrovavo le parole materne, faville che illuminavano e davano senso alla poesia». E la poesia a sua volta illumina e dà senso alla vita, custodisce tra “i soffi della tormenta una voce che scalda l’anima” (da A lum ëd fiòca), è “reliquia di luce prima del buio” (da La fin dël mond).
La poesia di Remigio, come quella di Pascoli, affonda le sue radici in un trauma originario, in una perdita incolmabile, e si alimenta di una vicinanza strettissima con la natura, ma c’è ben altro. Innanzitutto ci sono i suoi “grandi maestri”: Rainer Maria Rilke, Antonio Machado, Robert Frost, William Butler Yeats, Sergej A. Esenin e Aleksàndr Blok, ma anche il poeta cinese Ai Qing, Tolstòj e tra gli autori contemporanei Franco Loi, che per Bertolino è un maestro non solo di poesia, ma di vita. Poi un’intensa attenzione per le percezioni sensoriali – visive, uditive, olfattive, un’alta densità metaforica e soprattutto una lucidissima consapevolezza di non essere che uno strumento musicale suonato dalla Poesia: «La poesia è un dono degli dei. Non sappiamo quello che in futuro ci riservano. Bisogna essere pronti, fare un grande vuoto ed aspettare. Niente altro che aspettare. L’amata ci raggiungerà».
Gabriella Mongardi
QUI una lirica inedita di Remigio Bertolino, Di curt (Giorni brevi)