LORENZO BARBERIS
“Io sono convinto che la Storia
è mossa da due cose fondamentali:
la massoneria e le corna”
(Boosta dei Subsonica, intervista a “Il Tempo”)
Vedere i Subsonica a Mondovì ha – per me che non sono un critico musicale – un valore soprattutto generazionale. La mia avventura universitaria inizia nel 1996, quando il gruppo stava nascendo.
Ricordo ancora le locandine degli “Amici di Roland”, cover band da cui provenivano alcuni componenti, che mi avevano colpito nella selva di manifesti musicali che si affastellavano sui muri di Palazzo Nuovo a Torino, per via del riferimento all’immaginario dei cartoni animati giapponesi.
Ricordo che un mio amico fossanese dell’epoca (poi diventato un pop artist di un certo successo) insisteva quell’estate per andare a vedere questo gruppo emergente a Torino (io declinai: come detto, non ho una gran cultura musicale. Se avessi accettato, potrei vantarmi di seguire i Subsonica dagli inizi).
Il nome deriva in parte da “Sonica”, una canzone dei Marlene Kuntz, gruppo cuneese che a quel tempo andava per la maggiore non solo qui da noi, avendo conquistato anche la scena nazionale e l’MTV.
Il logo, invece, mi stupisce di non averlo ritrovato in tempi recenti in qualche sito di complottismo musicale, perché è obiettivamente abbastanza esoterico e simile al tracciato di un pentacolo. Dato che i blogger complottisti reinterpretano ogni video in funzione del New World Order, mi ha stupito trovare veramente poco sui Subsonica: forse non rientrano nei loro canoni di ascolto.
E dire che anche il nome della band, al di là del rimando cuneese, contiene un indubbio riferimento all’uso di messaggi subliminali, del resto normale nell’universo dell’elettronica (i Subsonica guardavano a loro modo anche ai Chemical Brothers, un altro must della colonna sonora di quegli anni universitari). Ad esempio, un primo singolo strumentale come U.F.O guarda al classico tema alieno, che raggiunge il settimo posto della classifica dell’inglese DJ Magazine.
Notevole poi a questo proposito anche il secondo album, “Microchip Emozionale” (1999). Il titolo deriva dal testo della canzone “Aurora Sogna”, contenuto nell’album stesso, e rimanda ovviamente a un grande classico della fantascienza, del cyberpunk degli anni ’80 che rinasceva alle soglie del 2000 (1999 è l’anno di Matrix).
Si sveglia che fa buio ormai d’abitudine
La notte le regala un’aria più complice
Detesta il vuoto dei rumori della realtà (aurora sogna)
Ma col volume a stecca può sopravvivere.
Sogna una carne sintetica
Nuovi attributi e un microchip emozionale
Sogna di un bisturi amico che faccia di lei
Qualcosa fuori dal normale
Qualche gelato al giorno forse la nutrirà
Non crede nell’amore in ciò è molto semplice
Come si chiama questa voglia di vivere
Che nel suo corpo ha bisogno di espandere?
Sogna una carne sintetica
Nuovi attributi e un microchip emozionale
Occhi bionici più adrenalina
Sensori e cibernetica neurale
Sogna una carne sintetica
Nuovi attributi e un microchip emozionale
Labbra cromate ricordi seriali
Emozioni e un nuovo impianto sessuale
senza più mangiare
senza più dormire
senza più mangiare
senza più dormire
Le stesse facce di ogni giorno fanno male
Le stesse voci recitanti giudicare
Posa l’orecchio sul bicchiere e sente il mare
Ma non il suono della musica che piace a lei
La solitudine che indossa è più normale
Di una prudente saggia e isterica morale
Aurora sogna e nei suoi sogni sa cercare
Senza paura un’esclusiva felicità
In questa canzone, precedente il grande boom del complottismo e in un’era invece di entusiasmo per l’informatica futura, il Microchip Emozionale appare presentato in modo positivo: le protesi cyborg come qualcosa in continuità col cyberpunk divulgato filmicamente (prima di Matrix, che non può aver influito, vi era stato Strange Days nel 1995, stroncato da Nanni Moretti e invece amplificato in Nirvana di Salvatores nel 1997).
Naturalmente, è ovvio, il tutto ha un valore metaforico: la volontà di Aurora di trasformarsi tramite un bisturi cibernetico è una riflessione su una società che estromette le nuove generazioni e spinge – tramite un’immagine falsata della donna sui media – a radicali trasformazioni del proprio corpo tramite l’anoressia (vedi la recente “Specchio”), la chirurgia estetica edonistica e, in un futuro, forse, la protesiologia cibernetica.
Però – tralasciando che un complottista direbbe che la metafora è una copertura, una dissimulazione, eccetera – è significativo che dalla canzone appare dato un valore in parte positivo al sogno di un nuovo corpo di Aurora.
La cibernetica futura era vista come qualcosa di emanato dal controllo sociale, che però la cultura hacker avrebbe potuto volgere in proprio favore, così come di gran moda erano tatuaggi, piercing, branding e innesti vari sui corpi maschili e femminili di quegli anni (più estesi forse, oltre la controcultura, di quanto siano oggi).
Sarebbe poi ancora da notare l’ambivalenza poetica di quell’”Aurora Sogna”: nome femminile della protagonista che sogna il futuro cyborg, ma anche “Aurora sogna”, “sogna l’aurora”, l’alba di un nuovo mondo (che per un complottista sarebbe ovviamente un NWO…).
Nel 2000 la consacrazione con Sanremo e “Tutti i miei sbagli”, con l’uscita dell’album “Amorematico” (2002) che conserva un certo gusto spaziale, almeno nella cover.
Intanto però io avevo finito l’università e di conseguenza li avevo persi un po’ di vista, emergevano talvolta nelle conversazioni di qualche amico più addentro alla galassia musicale torinese. Per esempio ricordo bene “66 Diabolus In Musica” assieme ai Linea 77, dato che più persone, nel 2003, l’avevano portato alla mia attenzione, conoscendo i miei (ironici) interessi ermetici.
(lo stesso anno anche “Depre”, un inno molto sperimentale che mette in fila, in un testo futuristico alla Palazzeschi, i nomi di tutti gli antidepressivi in commercio: un inno ambiguo al controllo mentale chimico, tra dichiarata critica e inevitabile, implicita estetizzazione).
Anche qui: i Subsonica servono al complottismo un testo esoterico su un piatto d’argento, ma il web non coglie, salvo qualche post svogliato sui forum di settore.
Sei l’affanno il brivido la perdita
del ritmo regolare del respiro
Mi nascondo
dietro parole inutili
Righe parallele che non si incontrano
Destini quasi a perdersi
nell’infinito
E non fermarti adesso
Libero tu sei essere
Niente più di un numero
Sei quello che è stato, sei il mio passato che non tornerà
Tutto quello che desideravo avere tempo fa
Le conseguenze
che mi aspettano
nascoste dietro la luce soffusa
della stanza mi assalgono
comprimono il cervello
stringono la presa e mi confondo
non respiro più
lo sguardo cade su un particolare ormai dimenticato
la testa gira ferma tutto voglio scendere
da questa paranoia
Da notare che i Subsonica nel ritornello mettono in fila un triplo “Sei”, inteso non come numero ma come verbo essere, che al contempo dichiara per tre volte all’ascoltatore il suo essere un numero nel presente, passato e futuro. “Sei un numero oggi, sei un numero ieri e sei un numero domani”… interpretazione originale del “marchio sei-sei-sei”, e abbastanza fedele. Ovviamente i complottisti parlano di messaggi subliminali, ma questi sono impercettibili: qui è più corretto parlare, semplicemente, di buon uso del simbolismo, con più livelli del testo che si intersecano. Inoltre, il piano principale resta quello di usare il simbolismo “ermetico” in modo ironico, per parlare invece della concreta alienazione moderna.
Intanto c’è l’uscita dall’etichetta indipendente “Mescal” di Nizza Monferrato (2004) e l’album “Terrestre” (il modo in cui chiamano i loro fan, del resto, lasciando implicitamente intendere – come tutti nell’elettronica – un loro “essere alieni”…).
Non manca anche l’ironia verso i complottisti che online ipotizzano dei Subsonica affiliati alle logge esoteriche della massoneria nera torinese, con un racconto sul loro sito, “Il codice l’Eclissi” (2007) molto gustoso, collegato a ipotetici “messaggi segreti” del loro ultimo video, e legato nel nome al libro e film di Dan Brown, che in quel momento spadroneggiavano nell’immaginario collettivo.
http://www.subsonica.it/eclissi_os.asp
Il video de “L’Eclissi” è qui intersecato con contributi dei migliori dell’horror e del fantastico italiano che creano una ironica storia parodistica del complottismo sui Subsonica. Il testo è molto buono, più “Pendolo di Foucault” che Codice Da Vinci, e davvero gustoso da leggere.
Seguono comunque accuse di “esser diventati commerciali” a cui il gruppo risponde con l’ironia di ParaSubnormal Activity (2011), video horror in cui la band è perseguitata da un serial killer che intende punirli per il loro “essersi svenduti”.
Lo stesso anno il video più celebre è probabilmente “Diluvio” (il video di quest’ultimo è stato ad opera di Or Tiche, bravissimo videomaker torinese tra le mie conoscenze universitarie).
Sei stata l’ondata perfetta
Per infrangerti contro di me
E adesso che tutto è sommerso che cosa resta e perché?
Sei stata un’ondata violenta
Per aprirti qui dentro di me
E adesso che tutto è diverso questo silenzio cos’è?
Una festa infestava la mia testa
Mentre lei rotolava nella cesta
Della rivoluzione, della sbronza
Tra le voci calde della protesta
Mi sentivo un veliero nel tuo letto
Ma per te io non ero che un insetto e poi
Un giocattolo d’indifferenza
Dimmi quanto vale la mia verginità
Giù la piazza accendeva la tempesta
Quel diluvio di ogni adolescenza
Un uragano un ammutinamento
Contro la ginnastica dell’obbedienza
Samurai senza pace senza guerra
Nell’elastico dei sentimenti tuoi
C’era il disordine dell’innocenza
Nell’adrenalina delle mie verità
La chiglia si incaglia nella voglia di te
Che travolgevi tutto senza tanti perché
Che eri come un tuffo dove il mare è più blu
E io ero il tuo prossimo relitto
Le sciarpe al collo e tutta la carnalità
In quel corteo le prime libertà
Ti consegnavo l’ingenuità
Quante volte mi hai rubato la verginità.
Un testo sempre ricco ed elegante, che usa la figura carissima alla poesia italiana della metafora del naufragio, dal Leopardi dell’ultimo verso dell’Infinito alle poesie-titolo delle raccolte ermetiche di Ungaretti e Quasimodo (che litigavano tra “Porto Sepolto” e “Oboe sommerso” per un presunto plagio).
E si arriva così a questo 2014, con “Una nave nella foresta”, bel titolo molto poetico che riprende il tema “marinaro” del veliero incagliato del “Diluvio” coniugandolo in una versione tipicamente piemontese, “la nave nel bosco” per indicare una persona fuori contesto. Espressione già usata del resto da Paola Mastrocola come titolo del suo bel libro sulla scuola, che in effetti è una situazione in cui, nel “Piemonte profondo”, si trova spesso chi non si allinea completamente al predominante conformismo pragmatico.
I Subsonica lo declinano nella loro copertina più “aliena”, con la Nave che diviene una Astronave persa nella Foresta, o meglio si direbbe in una campagna da fantascienza americana anni ’50 riletta nella “granda” subalpina. Un’immagine quindi che si sposa bene col logo della Mongolfiera che ha identificato Mondovisioni e che, in futuro, si assocerà sempre di più al rilancio sperato di Mondovì (e sulle connessioni ufologiche delle mongolfiere maya dalle Linee di Nazca in poi spero di non dover erudire i miei venticinque lettori).
Quindi insomma, i Subsonica a Mondovì in un concerto spettacolare sono stati a loro modo la chiusura di un cerchio esistenziale, di quelle che alla soglia dei quarant’anni ci si trova spesso a scoprire. Questo mio breve pezzo di analisi vuol essere un omaggio alla colonna sonora della mia università.
Con un proposito: quella di portarla – e analizzarla – anche in aula, nel mio percorso – tutt’altro che lineare, ammetto – per portare un biennio dell’ITIS ormai molto multietnico ad apprezzare la bellissima ma asperrima poesia italiana. E i Subsonica, forse, possono essere un buon punto della scala che può condurre a Montale.
Ed a volte ti vedi unico
una nave in una foresta
altre volte ti senti intrepido…
come un fiore in una tempesta
ed a volte ti vedi stupido
una lacrima ad una festa
altre volte ti credi libero
un cavallo sopra una giostra
ed a volte ti vedi limpido
il mattino in una finestra
altre volte ti senti arido
come un gesto che resta in tasca
stanze vuote da riempire di pensieri buoni
e qualche abbraccio da dimenticare chiuso in un cassetto pieno di promesse
e frasi sussurrate piano mentre il nostro mondo scivolava lentamente verso un altro oblio
è presto per girarsi e guardare indietro
in quale luce ti vedrò
in quale istante ti perderò
ci sarà un tempo, non adesso.