JAVIER ÚBEDA IBÁÑEZ
Da piccolo, mia madre mi diceva sempre: “Cerca di non mentire mai. È preferibile tacere piuttosto che dire una bugia. Guarda che la fama di bugiardo nella scuola si sparge subito e poi costa molto levarsi questo marchio”. Dopo questa solerte avvertenza materna, cominciai a interessarmi al silenzio. In una situazione compromessa sceglievo di star muto, mentre osservavo attentamente l’aspetto del mio interlocutore che, nella maggior parte dei casi, invece di apprezzare il mio atteggiamento silenzioso, si alterava davanti alla mia apparente passività. E così, grazie all’avvertimento di mia madre, accadde che a poco a poco andai scoprendo i misteri del silenzio. Un saggio consiglio mi condusse, finalmente, a quello che fu o che sarebbe un vero e proprio stile di vita. Il silenzio si trasformò subito nella mia anima gemella. Mi piaceva osservare la gente mentre dialogava e andavo contando i silenzi di ogni intervento. Se qualcuno diceva una corbelleria fuori luogo, pensavo tra me e me: “Non ha considerato l’arma migliore, quella del silenzio, ed è stato precipitoso. Non ha pensato bene a quello che diceva”. Presi pure a contare le pause di silenzio che si creavano nella notte, nella musica e persino nella cadenza della pioggia. Il silenzio era dappertutto; bisognava soltanto fare una pausa durante il percorso per scoprirlo e imparare i suoi insegnamenti. La mia fama di persona cauta e amica del silenzio si diffuse subito. Per sentito dire, alcuni iniziarono a chiamarmi “il mistico”. Non ci badavo. Quelli che mi conoscevano apprezzavano questa mia virtù di essere coerente con quel che dicevo e di prendermi il mio tempo per dire qualsiasi cosa. Rifugiarmi nel silenzio mi aiutava a distribuire buoni consigli, sempre cominciando da me stesso. La mia relazione col silenzio si consolidava creando tra noi un ponte dai nodi strettissimi: ogni volta che mi addentravo nelle sue peculiarità, mi faceva conoscere alcuni dei suoi segreti più intimi. E in questo idillio col silenzio ho avuto anche dei dissapori, come in ogni relazione che si rispetti. Per esempio, il non saper esprimere in tempo quello che sentivo e custodirmelo dentro finché mi soffocava, mi presentò il conto.
Ci sono bocche serrate che strillano più di altre aperte pronunciando improperi: bocche a volte strangolate dal silenzio. Certo che il silenzio è necessario, ma in giusta misura. Niente va bene se in eccesso, qualsiasi cosa sia.
Questi piccoli inconvenienti, però, non mi impedirono di continuare a tentare di tastare il polso del silenzio, il suo equilibrio, la sua giusta misura e ce l’ho fatta: ho imparato a esprimere quello che provavo, prima che le parole non dette in tempo rimanessero incastrate nei guazzabugli che tutti teniamo dentro, nell’ala dedicata alle emozioni. Dopo di chissà quanti equivoci e di centinaia di parole non espresse quando era ora di farlo, non ho più lasciato che il silenzio mi fosse d’impedimento.
Mi è costato, però si può dire che fino a oggi la mia relazione col silenzio procede sulla strada della comprensione reciproca.
Col passare del tempo scoprii che dopo una giornata estenuante, quello di cui avevo più voglia era rincontrarmi col mio amato silenzio; era il mio passaggio segreto per raggiungere la meditazione: navigare dentro di me in cerca della pace necessaria per dare un senso a tutto.
Questi momenti di trascendenza quasi sempre mi portavano qualcosa di nuovo. Era come guardare in ritardo il film della mia vita, a rallentatore, con una luce speciale e avendo come colonna sonora la calma; quella calma che quando viene da se stessi e rimane in se stessi rende trionfanti.
In quei momenti ho imparato dai miei errori, a chiedere perdono, a correggere, a saper dire “sì” e “no” nei momenti giusti, e a sbagliarmi senza timore.
A volte, nel pieno dell’ estenuante quotidianità e nel punto nevralgico dell’effervescenza lavorativa, mi sedevo, anche solo per cinque minuti, e restavo in silenzio, mentre cercavo il comando che mi portasse fino a questa trance di ricerca interiore e di serenità. Mente e corpo esigevano questo tempo per riordinarmi le idee, azzeccare le decisioni ed essere un po’ più saggio nella vita.
Era come se quel fermarmi a riflettere e uscirne rinnovato mi avesse improvvisamente dato una rapida sferzata di ragionevolezza.
Passai dal meditare in maniera occasionale al farlo quotidianamente. La maggior parte dei mie colleghi di lavoro faceva una pausa a metà mattina, intorno a mezzogiorno; io ne approfittavo per meditare.
Andare avanti pensando a ogni passo che fai, analizzando ogni decisione presa , ti fa essere una persona più giusta e libera.
Quello che il silenzio può offrire a ciascuno quasi non si immagina, finché non si prova.
Compresi che non si è più saggi parlando di più, bensì parlando quando il silenzio ti dà il turno. Quello che sto dicendo può sembrare molto semplice, tuttavia non lo è. Una conversazione senza silenzio è come una cordigliera che non si lascia scalare. E per quanto si tenti non si giungerà mai in cima.
Compresi anche che il silenzio mi era assai gradito perché disponeva di parole, parole che potevo utilizzare ogni volta che volevo. Se non avessi potuto parlare, forse avrei guardato al silenzio in modo diverso; però, sicuramente, avrei anche trovato il suo lato più gradevole. Se ti trovi a vivere una qualche situazione, una qualsiasi, la cosa migliore è accettarla e andare avanti.
Una volta, un cieco mi disse: “ Io vedo coi sensi quel che non posso vedere con gli occhi. Annuso, sento e ascolto tutto, per quanto impercettibile sia. Ho imparato a interpretare parole e silenzi”.
E, come se di intuizione si trattasse, chiusi gli occhi e mi misi a meditare. Spensi in un attimo la luce dei miei occhi per accendere quella della mia interiorità. Soli con noi stessi sembra che vediamo di più, anche ciò che non vogliamo vedere, quello che teniamo tacitamente nascosto ci salta agli occhi.
«Io che crebbi dentro un albero avrei molto da dire, ma ho imparato tanto silenzio che ho molto da tacere e questo si impara solo crescendo senza altro piacere che crescere… », questi versi della poesia “Silenzio” di Pablo Neruda sono per me come il “Padrenostro”.
Tutti siamo stati messi qualche volta in un albero: nell’albero dell’incomprensione, dell’egoismo, dell’impotenza o del dissidio… esistono tanti alberi; o nell’albero del saper condividere, in quello delle buone intenzioni, dell’amicizia e della complicità. Lo ripeto ancora: ci sono tanti alberi, per ogni dove e in tutti loro dimorano silenzi e parole.
Io, che ho anche molto da dire e da tacere, mi sono costruito il mio albero; e continuo crescendo senza altro piacere che crescere…
E continuo a dire al silenzio…
(Traduzione di Giuliana Manfredi)
Foto di Fiorenzo Calosso