GABRIELLA MONGARDI.
No, non è un refuso, è il titolo della grande mostra curata da Francesco Bonami, in collaborazione con un comitato scientifico formato da Danilo Eccher, Marcella Beccaria, Irene Calderoni e Beatrice Merz. Articolata su quattro sedi, vuole essere “la collezione delle collezioni” di arte moderna e contemporanea presenti nell’area metropolitana torinese: il tema è l’interpretazione artistica del concetto di realtà nella nostra cultura dal 1815 al 2015. I quattro musei di arte contemporanea che la ospitano sono la GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, il Castello di Rivoli, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e la Fondazione Merz.
Margutte ha visitato (per ora) l’esposizione alla GAM, accogliendo solo in minima parte le ‘istruzioni per l’uso’ fornite dal pannello introduttivo alla mostra: non ha seguito l’invito a riflettere “sulla costruzione, l’evoluzione e l’esposizione delle collezioni museali e sulla loro identità all’interno del patrimonio artistico torinese”, né si è curato del “tema sotterraneo del percorso espositivo”, vale a dire “lo spazio che sta tra il fare artistico e la sua documentazione e, ad esso complementare, lo spazio che sta tra l’ideazione di un progetto e la sua realizzazione”. No, Margutte si è preso la libertà di ritagliarsi un percorso a sua misura, ma, essendo la mostra allestita nei sotterranei della GAM, ha almeno cercato di identificarsi con il visitatore che “si addentra nell’Underground Project come in uno scavo archeologico del concetto di verità nell’arte”.
Un visitatore ingenuo, che partisse dal presupposto che per ‘concetto di verità nell’arte’ si intenda il realismo, l’arte come mimesi della natura e della vita, rimarrebbe subito spiazzato: le prime opere che incontra sono infatti o del tutto astratte, come Torsione di Giovanni Anselmo, o antirealistiche come Portrait relief of Claude Pascal di Yves Klein, con i suoi colori innaturali, e Ostaggi di Ettore Colla, una sorta di readymade, un’inquietante gogna ruotata di 90°. Solo l’Autoritratto di Gemito lo rassicurerebbe: un ritratto è realistico per definizione, e quelli di Gemito sono gli anni del Realismo trionfante!
Più avanti nel percorso, in effetti, i ritratti abbondano: per mano di Casorati, di Severini, di Sironi – ma si possono definire realistici nel senso ‘fotografico’ del termine?
Quale donna si riconoscerebbe nella Gina di Severini, quasi una marionetta, o nella Venere di Sironi, un manichino dalle mani inquietanti?
E che dire dell’Autoritratto in forma di gufo di Alberto Savinio? Più surreale di così…
In fondo alla sala i due “quadri specchianti” di Pistoletto, la Ragazza che cammina e Lui e lei alla balconata, sembrano realistici, addirittura iperrealistici, ma sono deformanti e stranianti, per il gioco di specchi che si crea tra osservatore e opera.
E allora non resta che far propria la luce interrogativa di Merz: Che fare? Rivolgere la propria attenzione ai due banconi coperti di sculture, al centro della sala?
Quello rettangolare allinea sì gli animali dello scultore parigino Pierre Jules Mène, riconoscibilissimi benché si tratti ovviamente di modellini in scala, ma con la Scultura astratta di Fontana come la mettiamo?
E la Vecchina di Casorati, nient’altro che un blocco di marmo arcuato?
E l’Elogio del fuoco di Eduardo Chillida, che ricorda al massimo un alare, tutto contorto? Del resto, come si fa a rappresentare il fuoco, in perenne movimento e mutamento, tramite una scultura, necessariamente statica e immutabile?
Il bancone quadrato ospita invece Teste realizzate da vari artisti, tra cui Casorati, Mastroianni, Rosso. Per le teste vale lo stesso discorso dei ritratti: non sono in fondo ‘ritratti scolpiti’, quindi ancora più realistici in quanto tridimensionali? Però il materiale scelto e la tecnica utilizzata per modellarle già le trasfigurano, attraverso la libera interpretazione dell’artefice, e il realismo nell’accezione ingenua del termine è scardinato…
A questo punto il visitatore ha scavato abbastanza a fondo nel concetto di “verità nell’arte” per rendersi conto che la verità dell’arte non è nel suo adeguarsi alla realtà oggettuale, ambientale, naturale, ma nello sfidarla, nel superarla, per creare un’altra realtà, anch’essa vera, verissima, più vera del vero: la realtà dell’arte.
Ne sono conferma due sculture in mostra, i Dioscuri di Colla e il Ragazzo seduto di Arturo Martini, che con il loro inaspettato classicismo rivelano un’altra faccia della verità nell’arte, che si potrebbe definire formale o platonica: l’arte ha il compito di svelare la forma nascosta, l’idea in senso platonico, che si cela nelle cose e nelle persone, la loro verità profonda, l’Inbegriff.
È quello che fanno tutti i grandi artisti, con qualunque mezzo si esprimano (pittura, scultura, video, musica, parole…); è quello che fa la scienza, se è vero che “La realtà non è come ci appare”, per dirla con il fisico Carlo Rovelli. È il senso profondo del ‘fare’ artistico – per rispondere alla luminosa domanda di Merz: un ‘fare’ che illumina perché si muove nello spazio tra soggetto e oggetto prendendo le distanze da entrambi, e risucchiando in questo spazio il terzo elemento della costellazione artistica, il fruitore, senza la cui “lettura” l’opera d’arte rimane muta, il gesto creatore irrimediabilmente incompiuto.
(Le fotografie (autorizzate) sono opera dell’autore dell’articolo)