L’incredibile storia del profeta Mansur

19Tempesta (2)

Diciannovesima puntata Due frati in tempesta

FRANCESCO PICCO

Giunse così il giorno dell’imbarco. I due fraticelli si erano fatti conoscere a sufficienza in quei due mesi di permanenza veneziana – e la reputazione di padre Giovanni Battista non aveva avuto da guadagnarne. Padre Vittorio Amedeo (ma ciameme Victor, sioriconfrari…) invece lasciava la Laguna quasi circonfuso di un’aura di santità. I marinai stessi che li condussero lungo l’Adriatico e lo Ionio sembravano salutare il frate più piccolo e adolescenziale con una specie di attonita reverenza. E si mostrarono quasi tristi nel lasciarlo sbarcare, com’era previsto, al porto di Larnika nell’isola di Cipro. Era il 20 gennaio del 1770. Il vento spirava gagliardo dal mare. I due frati si allontanarono dal porto insieme, uno con lo sguardo basso e compunto, l’altro con due occhi ardenti e infiammati che spiavano intorno a sé soffermandosi in particolare sulle schiene nude dei marinai più giovani e sui seni prosperosi delle meretrici macedoni acquattate, in attesa, ai margini delle strade, poco lontano dai fumosi ingressi delle taverne.

Nel convento greco-cattolico di San Mamante dove furono ospitati per due mesi nessuno ebbe a lamentarsi di loro. Studiavano insieme il greco e l’arabo facendo nelle due lingue dell’Oriente cristiano progressi quali nessuno si sarebbe aspettato da due franchi così giovani. A nessuno dissero di essere medici, poiché nessuno dei confratelli ospiti si ammalò durante la loro permanenza. Mostrarono tuttavia di possedere altri e inattesi carismi.Il più giovanile dei due si diceva fosse capace a prevedere il futuro. E il futuro arrivò in fretta: in un assolato giorno di marzo decisero di noleggiare un’imbarcazione a proprie spese, poiché sembrava che nessun naviglio transitasse più da quelle parti diretto ad oriente. S’accordarono dunque con alcuni marinai rumelioti – uno dei quali, con grande stupore, scoprì che uno dei due frati sapeva parlare russo, lingua così simile al proprio bulgaro marittimo – che il mattino seguente li accolsero a bordo con una salva di sorrisi un po’ troppo beffardi per essere sinceri. Ma più beffardo dei marinai rumelioti si rivelò con loro il tempo atmosferico: verso la sera si scatenò un fragoroso uragano, che in breve trasformò il cielo in un instabile ricamo di fulmini e saette. Il sorriso scomparve dai volti abbronzati dei marinai. Strascicate bestemmie in veneziano o in lingua franca cominciarono a sgorgare dalle loro bocche. Avevano da poco doppiato Capo Sant’Andrea e l’intero equipaggio si rifiutò di proseguire, ribellandosi fragorosamente alle insistenze del nocchiero. Presero dunque terra e sbarcarono tutti precipitosamente, prendendo con sé pochi poveri oggetti (una coperta bisunta, una pipa, grumi salini di tabacco bagnato) mentre sembrava che le cateratte del cielo si fossero rotte proprio sulla loro testa. Flagellati dalla pioggia, che scendeva obliqua e insistente, i due frati lasciati indietro senz’alcuna pietà sbarcarono anch’essi e si rifugiarono correndo verso l’entroterra, in una capanna di pastori attigua a quella dove già avevano trovato ospitalità gli uomini dell’equipaggio. Le capanne erano vuote e abbandonate a se stesse, poiché i loro occupanti legittimi avevano già condotto da alcuni giorni le proprie greggi verso la montagna: ma, partendo, si erano portati dietro i pochi conforti di cui disponevano. Sicché ora, a questi occupanti occasionali, non restava che dormire sulla nuda terra del pavimento e patire il freddo, mentre del calore rassicurante degli animali lanuti non restava che un afrore di pecore e muschio. Padre Vittorio Amedeo non dormì ma rimase in preghiera tutta la notte. Nemmeno padre Giovanni Battista riuscì a dormire, ma camminò nervosamente avanti e indietro nella capanna fin verso le cinque del mattino, recitando paradigmi greci e coniugando verbi arabi in tutte le forme perfettive e imperfettive che conosceva. Poi, travolto dalla stanchezza, si accasciò a terra e si addormentò di colpo, come un bambino. Così non poté accorgersi del fatto che intanto, alle prime luci dell’alba, la tempesta si era placata e i rumelioti avevano lasciato la propria capanna bucolica per ritornare a bordo – e ripartire bestemmiando senza di loro. Nemmeno padre Vittorio Amedeo si accorse di nulla, rapito com’era nell’estasi della preghiera. Pregava in latino, in slavo antico, in greco e in arabo.

Quando padre Giovanni Battista ebbe finalmente la forza di uscire dal sonno, si alzò stiracchiandosi il saio. Il suo compagno lo guardò e si alzò a propria volta, abbandonando la posizione inginocchiata in cui aveva trascorso pregando la notte. Si fecero entrambi il segno della croce alla maniera latina, l’uno per salutare il giorno, l’altro per concludere la preghiera notturna. Uscirono dalla capanna insieme ed entrambi furono quasi accecati dal violento splendore del sole che sorgeva sullo zenit dei loro crani rasati. Guardarono il mare: era calmo, azzurrissimo, rassicurante, maestosamente vuoto, senza nessun’ombra di navigli ancorati. Capirono all’istante di essere stati lasciati lì, nonostante gli accordi presi in greco e in russo con gli infidi marinai rumelioti. Commentarono il tradimento in piemontese e nella stessa lingua, con poche parole come si addice a piemontesi sobri, decisero di agire: sarebbero tornati a Larnika a piedi e avrebbero preso contatti con il console di Francia. Sapevano bene infatti che in quelle plaghe d’oriente l’assistenza e la protezione dei cattolici era appannaggio esclusivo dei diplomatici di Sua Maestà Luigi XVI. Padre Giovanni Battista raccolse da terra un bastone a mo’ di bordone e si avviò senza voltarsi, in silenzio. Padre Vittorio Amedeo lo seguì, anch’egli in silenzio, estraendo dalla tasca del saio una corona del rosario. Camminarono in silenzio per un giorno e una notte, senza fermarsi né per mangiare né per prendere sonno. Si rifocillarono con i pochi poveri cibi (un pane d’orzo, un pugno d’olive, mezzo pesce, un piccolo formaggio di pecora…) che vennero loro offerti durante il cammino, quando attraversavano villaggi greci o turchi in cui si svolgeva il mercato: promisero ai propri miseri benefattori (un ragazzo armeno seminudo, una vecchia greca vestita di nero, un imam turco senza denti) di pregare per la salvezza delle loro anime, indipendentemente dalla religione che professavano. Ancora non lo sapevano – nemmeno Vittorio Amedeo, che pure prevedeva il futuro – ma stavano facendo le prove di una rappresentazione destinata a portare loro, di lì a poco, un successo superiore a qualsiasi aspettativa. I contorni e i modi di questo successo sarebbe stato follia anche solo immaginarli, in quel caldo giorno di marzo del 1770.

(Continua)

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Illustrazione di Franco Blandino