FULVIA GIACOSA.
La gotica chiesa cuneese di San Francesco, oggetto di un intelligente restauro che le ha ridato una bellezza senza tempo e che da sola merita una visita, ospita 50 artisti (e ben 150 opere) che hanno operato nel territorio della provincia. E’ quindi un’occasione da non perdere in quanto “strumento di divulgazione e approfondimento”, attento ed accurato. Sicuramente la mostra è una vasta antologia che restituisce non solo le vicende artistiche ma il clima, l’ambiente, il gusto di una precisa realtà territoriale: in tal senso il catalogo è un valido aiuto per la conoscenza dei vari autori, che si tratti di eccellenze o di un variegato mondo minore ancorato a modelli fortemente ottocenteschi ben oltre l’inizio del Novecento.
Hanno reso possibile l’evento, a vario titolo, Roberto Baravalle, Massimiliano Cavallo, Giacomo Doglio, Dario Ghibaudo, Enrico Perotto, Francesco Poli e il personale dell’Assessorato alla Cultura di Cuneo. L’allestimento, curato dall’architetto Giacomo Doglio, con la scultura posta al centro delle navate e il percorso pittorico che le fa da cornice, aiuta la lettura cronologica. Le opere infatti sono raggruppate per momenti storico-culturali dal tardo Ottocento al Novecento e provengono da enti pubblici, musei e collezionisti privati.
Se si scorrono i nomi mi sembra che l’insieme assuma anche il valore di omaggio a chi non c’è più tra coloro che hanno lavorato in provincia o che qui hanno le proprie origini. L’esposizione dedica poi le ultime sale ad autori del secondo Novecento, alcuni scomparsi da poco. D’altronde sappiamo quanto difficile sia operare scelte sulla carne viva, com’era successo nel lontano 1999 con la mostra “Identità contemporanee” concentrata sui decenni 1950-1970 che si era occupata di artisti quasi tutti ancora in attività.
A questo punto devo al lettore una premessa che in parte giustifica la mancanza di una articolata illustrazione dell’esposizione. Ho una predilezione per le mostre di piccole dimensioni dove il ridotto numero di opere, quando di qualità, consente una lettura meditata e arricchente, mentre mi sento spaesata da troppi stimoli visivi. Pertanto mi permetto un commento ristretto a pochi lavori ove la data di realizzazione testimonia una maggiore tangenza con quanto avveniva fuori dai confini provinciali, al momento o nell’immediato passato prossimo: scelta sicuramente opinabile, per cui lascio al visitatore il compito di integrare le lacune nonché di contestare il criterio usato.
Nella sezione più antica si trovano i bozzetti in gesso per tombe monumentali di Leonardo Bistolfi (la “Sfinge” della tomba Pansa a Cuneo e la “Bellezza della Morte” della tomba Giorgis a Borgo San Dalmazzo), entrambi di fine Ottocento; dell’artista è anche presente una “Pastorella” bronzea che testimonia l’iniziale adesione alla tradizione bozzettistica veristico-scapigliata, prima di abbracciare il linguaggio internazionale del simbolismo, presente nelle tombe citate.
Il bronzo “Nudo femminile sdraiato” di Edoardo Rubino è già del 1930 circa ma, nella sua estetizzante naturalità, dimostra l’onda lunga di quel gusto liberty che a Torino era esploso con l’Esposizione Internazionale di Arti Decorative del 1902. Lo stesso dicasi per la “Testa femminile” (bronzo, 1920 circa) di Davide Calandra, autore cui è dedicata la Gipsoteca saviglianese. La maggior parte dei dipinti di questa prima sezione è esposta con le cornici originali, di legno dorato e di una certa imponenza, indice del gusto collezionistico del tempo. I soggetti prevalenti sono quelli della più tradizionale pittura del XIX secolo: paesaggi e scene di genere, nature morte e ritratti. Tra i dipinti di paesaggio vi segnalo un piccolo, poetico olio del braidese Giovanni Piumatti (“Radura”, 1895); “Funerali a Casteldelfino” di Matteo Olivero, che testimonia la trasposizione della tradizione realistica locale nel linguaggio più innovativo del divisionismo tra i due secoli, in specie quello di Segantini.
Tra i quadri di figura il “Ritratto della sorella Margherita”(1905) di Guido Cordero di Montezemolo coglie il profilo della donna con suggestioni pre-raffaellite nella posa e tecnica divisionista; l’olio “Sorrisi sulla Senna” (1905) di Antonio Piatti è immerso nel grigio luminoso parigino e vibra nella pennellata rapida, mentre la sua “Donna in lettura” richiama alla mente certi ritratti del Boccioni pre-futurista come quello della sorella Amelia al balcone del 1909.
La seconda sezione copre gli anni tra le due guerre e mostra come in provincia il gusto sia ancora orientato verso una pittura di tradizione, richiesta dai collezionisti; peraltro un po’ in tutta la penisola sono molti gli artisti che operano al di fuori o ai margini di movimenti organizzati e costituiscono una storia parallela dell’arte italiana di quei decenni. Tra i pittori di figura, il cuneese Ottavio Steffenini, operante a Milano nel clima di “Novecento”, coglie in una quotidianità un po’malinconica le forme piene di una “Madre con bambino” (1928).
Più materiche e sintetiche le “Bagnanti, Bordighera” (1922) di Sandro Vacchetti, noto ceramista per la Lenci e fondatore della ceramica Essevi nel 1934. Il paesaggio “Sera a Rivoira di Boves” ed il ritratto “Giorgina” (anni trenta) di Lalla Romano sono vicini alla sua scrittura asciutta, fatta di brevi frasi: nei dipinti densi di silenzio (memori della scuola casoratiana) le pennellate veloci ricordano De Pisis, i toni soffusi Rosai.
Tutt’altro silenzio – quello dell’aeropittura cosmica – spira dai dipinti di Luigi Colombo noto come Fillia, protagonista del secondo Futurismo torinese ma nato a Revello, i cui paesaggi sono immersi in una sospensione spaziale che coniuga vuoto metafisico e visione fantastica: una “spiritualità aerea” per usare le sue parole.
Chiudono questa sezione due artisti facenti parte del gruppo “I sei di Torino” nato nel 1928, con quadri dedicati alle Langhe durante i loro soggiorni a Bossolasco: quelli di Francesco Menzio, degli anni trenta e quaranta, spaziano tra composizioni cézanniane, piatte e materiche zone colorate, sintesi geometrizzanti; quelli di Enrico Paulucci (anni quaranta e cinquanta) sono esplosioni di colori smaltati, anche quando giocano su una sola gamma (“Langaverde”, opera già del secondo dopoguerra, dal tono onirico).
L’ultima sezione dell’esposizione presenta alcuni artisti di punta come Gallizio, Garelli, Ruggeri, Carena, Damiano che hanno operato soprattutto fuori provincia, accanto a Reviglio, Gagino, Ravotti e Berlia, maggiormente legati al proprio territorio.
Dopo la guerra, in una provincia che tanto ha dato alla lotta partigiana, la memoria degli eventi è vivissima. In questo contesto si colloca la lunga e tribolata vicenda del “Monumento alla Resistenza”, la cui storia è narrata in catalogo. In mostra si può vedere un modello del 1962 di Fontana-Somaini-Parisi-Cavadini e alcune foto di quello poi realizzato da Umberto Mastroianni, collocato nel parco sul viale Angeli della città.
In campo pittorico, ad Alba la figura chiave è Pinot Gallizio, fondatore della Bauhaus Immaginista, in contatto con ambienti internazionali, dal gruppo CoBrA al Situazionismo di Debord. I tre lavori presenti in mostra (due del 1959 e uno del 1963) testimoniano la matrice informale della sua esperienza di vero manipolatore della materia. A modalità informali si legano anche due delle tre opere in mostra di Piero Ruggeri, con segni che esplodono dal nero profondo.
Le opere bronzee dello scultore Franco Garelli sono di fine anni cinquanta e aggiornate sulle più avanzate ricerche in scultura: pieni e vuoti, scomposizioni, recuperi di materiali di scarto, assemblaggi concorrono a creare ciò che l’artista ha definito “endospazio”. Legate alla sua Cherasco, nonostante riconoscimenti che hanno di gran lunga oltrepassato i confini natii, sono le opere di Romano Reviglio che sottolineano la sua tipica, nervosa grafia, ben al di là di lettura meramente descrittiva dei luoghi. Bernard Damiano, nato in val Grana, è artista che traduce nella contemporaneità la deformazione e la tragica violenza di segni e colori dell’espressionismo storico. Di Giovanni Gagino i visitatori riconosceranno subito una dei suoi temi più noti (“Acciaieria” del 1964), mentre forse ne scopriranno modi più delicati e silenti nella “Prima neve” del 1983, a dimostrazione della versatile produzione dell’autore.
Se Gagino è quasi identificato con le fonderie, Berto Ravotti lo è con le ombre: esse compaiono a partire dal 1964 e si insinuano su parti di abrasi muri che a volte includono telai di porte o finestre o altri oggetti reali come un calendario. Altro autore legato ad un topos iconografico è Antonio Carena: sono i cieli con le notissime nuvole, trasposizione di un tema senza tempo nell’artificiosità dell’arte e delle sue tecniche meno auliche come l’areografo o i colori nitro.
Chiudono la mostra tre grandi tavole di Claudio Berlia: tra esse una delle famose architetture sorvolate dal Sopwith Camel, alter ego del pittore che sorvola le città e scende radente tra gli edifici.
“Eccellenze artistiche di un territorio. Pittura e scultura di ’800 e ’900 in Provincia di Cuneo”
Cuneo, Chiesa di San Francesco. Dal 9 ottobre 2015 al 10 gennaio 2016.
Visite: da martedì a domenica, h. 15,30-18,30. Ingresso gratuito
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