Marco Rovelli e la musica
E resta la mia inappartenenza
il barbaro richiamo senza terra
l’accoglienza al vento che devasta
Ogni parvenza
Resta il corpo abbandonato al suo deserto
Lo sguardo che traguarda un cielo assurdo
E il mare aperto ad ogni viandante
che va incerto
E resta pure l’odio senza oggetto
l’amore che lo stilla senza colpa
Dentro il petto ed il furore del silenzio.
E resta la parola
Resta la sua notte
Resta la mia riconoscenza
Resta la fragile sapienza
Di ció che scuote e forma la mia essenza
Resta un concerto di luci abbaglianti
Viste quella notte all’orizzonte
Là davanti, i fulmini sul monte
E i loro schianti
Resta la carezza del tuo ventre
Il timido esitare nella notte
Della mente, che non ha da pensare
Se ti sente
Resta l’ebbrezza di due canti
che m’affascina, e mi lacera l’angoscia
di due pianti, il bilico di mondi
discordanti
Resta il riso che non sa perché si ride
Non conosce meta né dolore
perché vide che non c’è colpa alcuna
per chi vive
E resta la parola
Resta la sua notte
Resta la mia riconoscenza
Resta la fragile sapienza
Di ciò che scuote e forma la mia essenza
E questo è il tempo che resta
L’occhio guarda fisso alla luna
E lo sciamano impugna una lama
Come una nuvola taglia, apre lo sguardo come una stella
Il sogno è realtà, realtà sorella, scintillerà
Il bisogno di sogni, nella mattina, appena svegli
al veder balenare un giorno eguale senza stupore
qualcosa muore se non vivi quei sogni lucenti che ti hanno sognato
qualcosa è stato, qualcosa ancora esploderà
C’est à vous messieurs dames dansez riez
C’est à vous messieurs dames dansez
Non è di fuoco l’inferno, è solo polvere, domenica eterna
nel circuito chiuso infinitamente di un centro commercioletale
e la gente sta male, sogni d’altri è ciò che vuole
ma fuori il sogno scintilla e il centro esploderà
Danzano allegre e ghignanti le spoglie svuotate di re e di furfanti
splendore atomico, ritmo sinfonico, radio universo risuona
il silenzio è uno straccio che sventola appeso a una stella
un miracolo brilla un altro ancora scintillerà
C’est à vous messieurs dames dansez riez
C’est à vous messieurs dames dansez
Risplende l’incubo il grande equivoco un dado gettato su un tavolo in bilico
ma un corpo esiste resiste sognando, nel sogno c’è un essere che non ha testa
è fiamma di festa che brucia e conquista, che avvolge gli amanti che libera i santi
idioti che non hanno patria né testa, e questa è la sola ragione di questa canzone
C’est à vous messieurs dames dansez riez
C’est à vous messieurs dames dansez
Ma la libertà, mio caro Cervantes, che parola strana
Libertà per che? Libertà di chi? Libertà puttana!
Sola libertà è inseguire un sogno senza padrone
e da quel che amo, da quello solo dipenderò
In un tempo di astuti rapaci in cui dei son banchiere e mercante
io ritorno a montar Ronzinante e la lancia in resta è la mia libertà
Libertà di potersi dire Io ti stringo, ti stringo la mano
anche se l’uomo è un lupo per l’uomo se non c’è perdono per chi ama di più
Non ho mai smesso di lottare contro il mulinar del male.
la sua libertà di macinare vento e incatenare
di spargere tempesta mentre il trono se la ride
perciò il cielo dei giganti io ritorno ad assaltare
Ma la libertà, mio caro Cervantes, che parola strana
Libertà per che? Libertà di chi? Libertà puttana!
Sola libertà è inseguire un sogno senza padrone
e da quel che amo, da quello solo dipenderò
Quando il cuore ha sostanza non c’è niente da fare
E un mattino di luglio partii a conquistare
mi scuoteva la vita, il suo eroico furore
E la buona novella Dulcinea è la più bella
Seminare visioni sulla terra come sale
ed affrettare il tempo che qualcosa al tempo viene
ché lo schiavo può spezzare con la spada le catene
Perché Libertà è godere delle rose e avere il pane
Un fuoco di incendio bisogna immaginare
far luce dove il buio sembra straripare
Perciò un Chisciotte torna ad impugnar la lancia
con l’altro cavaliere, di nome Sancho Pancha
Ma la libertà, mio caro Cervantes, che parola strana
Libertà per che? Libertà di chi? Libertà puttana!
Sola libertà è inseguire un sogno senza padrone
e da quel che amo, da quello solo dipenderò
Che per la libertà, solo per quella noi viviamo
la libertà è essere all’altezza dell’umano
perché lo so, lo credo, che qualcosa poi accadrà
e non scambieremo più il timore per libertà
Per vedere il mare in Brianza Ci vuole cuore e tanta fantasia
E tu che avevi il nome di Utopia Vedevi il cielo dentro la tua stanza
Il cielo aperto che cade nel mare E il mare lo sa di non avere confini
I confini son roba di piccola gente Che vive per poco e muore per niente
Per vedere ciò che non si vede Bisogna avere fede e coraggio
La fede che qualcosa deve accadere E il coraggio che chiede di volerlo vedere
E la tua Utopia ha preso il largo a vent’anni Hai scelto l’aperto del mare, o del cielo
Che poi è lo stesso concetto: Che qui c’è un mondo da fare
E la tua Utopia è arrivata in barca a Gaza E lì ha preso casa
In quella striscia di terra senz’aria C’è bisogno di respirare
Navigare, navigare
Mani ferme sul timone
Con il sole sulla faccia
Barra a dritta, Utopia
Navigare, navigare
Con le ali di gabbiano
Né bandiere né frontiere
Il mare è di chi resta umano
Le bombe cadevano, bruciavano i corpi
Fiorivano gl’incubi al gelo del cielo
Il piombo fuso colava, la gente crepava
E non c’era misura per questo scempio,
per questo massacro portato ad esempio
al mondo intero, e allora scrivevi per farne figura,
per toglier paura a chi non si è arreso
Dicevi dei segni lasciati nei sogni dei bimbi, i visi scalfiti da rughe dei vecchi
che han visto due naqba e aspettan la morte così come han vissuto,
e han vissuto in gabbia, e tu in quella gabbia sei voluto tornare, in nave, per mare,
in migliaia erano al porto ad aspettare le prime navi dal ‘67
E il tuo mare racconta, c’è da raccontare, che cosa si vuole dopo quel terrore,
che non è difficile immaginare che si vuole una vita normale
Navigare, navigare
Mani ferme sul timone
Con il sole sulla faccia
Barra dritta, Utopia
Navigare, navigare
Con le ali di gabbiano
Né bandiere né frontiere
Il mare è di chi resta umano
Il silenzio dei bambini che ti guardavano giocare
Quel piccolo abbandono che vi ha fatto abbracciare
Sulle strade troppo strette di un quartiere senza nome
Un gioco che ti consegnava alla tua rivoluzione
Che poi sarebbe meglio dire che è la tua rivolta
Ma il mondo non ascolta e tu ti lasci trasportare
dalle onde così alte che ti sembrano colline
Sono storie, rose, spine, che non smetti di ascoltare
Hamza, il miscredente che un giorno si è convertito
ed è morto, l’arma in pugno, ma dov’è il suo paradiso?
E Maha che in una terra sempre più verde di martirio
si è tolta il velo dalla testa, Basta con il sacrificio
E Fida che al contrario il velo lei non lo portava
E decide di indossarlo per non essere più schiava
E tutti i tuoi amici contadini, pescatori,
minatori dentro al tunnel, di una terra senza un fuori
E chi distilla l’alcool, e chi canta una canzone
E chi sogna un’altra terra, e le coppie che fanno l’amore
E’ la vita che ci prova, ci prova ad essere normale
E c’è sempre tutto un mondo che si deve liberare
Navigare, navigare
Mani ferme sul timone
Con il sole sulla faccia
Barra dritta, Utopia
Navigare, navigare
Con le ali di gabbiano
Né bandiere né frontiere
Il mare è di chi resta umano
(Quest’ultima canzone è stata dedicata dall’autore al militante pacifista Vittorio Arrigoni)
Marco Rovelli: «Sono nato a Massa, terra apuana, ai piedi dei monti e in riva al mare. Striscia di terra periferica, dove cresci da solo, cogliendo stimoli casuali, che ti portano via. E ho immaginato un’altra terra sia scrivendo che cantando. Che poi non c’è modo di rispondere alla domanda, che mi fanno spesso: “Ti senti più scrittore o musicista?”. Sono due parti di te, che trovano espressione diversa, e necessaria. Poi, nell’atto, la gioia del canto è qualcosa che credo inarrivabile (dove invece la scrittura vive di un differimento continuo, della distanza: una distanza che nel canto, che è coincidenza al corpo, pare colmarsi).
Da ragazzino la musica mi ha salvato la vita, strappandomi alle idee ricevute. e ai luoghi comuni. Mi sono creato un percorso mio, un’identità (fluida, se dio vuole) mia. Ascoltavo rock, tanto, di tanti tipi, poi poco prima dei trent’anni sono stato folgorato dal canto popolare. Sono diventato cantautore, se così si può dire, non tanto per imitazione degli altri cantautori (che ho approfondito solo dopo tutto il resto), quanto per un naturale incrocio tra la mia natura scrittoria e quella musicale.
Non saprei dire quali cantanti o band mi hanno in qualche modo influenzato. Sono davvero tanti, troppi. Si intramano, si mescolano, e il distillato è qualcosa in cui ogni singolo apporto non lo sai più riconoscere. Per scherzo, un tempo, dicevo “mio padre è Iggy Pop, mia madre è Caterina Bueno”. Ma è passato del tempo, da quel tempo».